
Edito da Robin Edizioni nel 2021 • Pagine: 700 • Compra su Amazon
Estate 2014. Adele, in compagnia dell’amato cane Spank, arriva al Camping Edera in fuga da un amore finito che le ha lasciato il cuore a pezzi e molta voglia di bere. La sua strada incrocia quella di Danilo, pusher d’animo nobile, prigioniero di un passato doloroso. Al fianco dell’improbabile coppia agisce Tommy Paletta, fratello di Danilo, innamorato di Maria e del gelato gusto puffo. A chiudere il cerchio il cinquantenne Scheggia, diviso tra i doveri paterni e i piaceri del corpo. Quattro personaggi agli antipodi, legati gli uni agli altri in una catena indissolubile che li porterà, la notte di Ferragosto, a oltrepassare ogni limite.

Prima di fiondarlo nel sacco nero dell’immondizia l’ho tenuto tra le mani una manciata di minuti e mi sono ricordata di averlo preso quattro anni fa in un sexy shop insieme a un paio di manette col pelo rosso. Già. All’inizio ero così rincretinita da comprare tutta una serie di roba così. Roba sexy. Autoreggenti a rete bende mascherine mutande in miniatura olii eccitanti al profumo di avocado e puttanate simili.
Fino a una domenica di maggio.
L’ultima.
Cinquanta minuti in bagno per prepararmi, dovevo andare fino al tavolo della cucina.
Sono uscita di rosa, a piedi nudi, con una sottoveste di seta doppio strato nuova che mi scopriva la schiena.
Avevo armeggiato con le mollettine per un’acconciatura fai da te, mi ero messa il lucidalabbra rosa, la crema color pesca sulle guance, e gli orecchini di corallo che Giulio mi aveva comprato di nascosto al mercatino sotto le stelle di Forte dei Marmi mentre io ero a fare la pipì nel bar davanti. Mi ero fatta i peli, tutti. Prima la ceretta e poi a martoriare le ombre, i fantasmi sotto pelle, a tirar fuori quelle radici che erano rimaste sotto terra. Il profumo afrodisiaco egiziano. Lo smalto.
Era stato bello guardarmi allo specchio. Ripresa in quell’attimo di felicità, le ciglia laccate di mascara, sembravo una piccola bambola di porcellana, silenziosa e perfetta.
Sono sgusciata fuori in punta di piedi.
Giulio era steso sul divano che guardava la Moto GP con un cuscino sulla pancia. Quando sono passata ha spostato la testa per non perdersi una ruota.
Ho fatto la mia sfilata da sola, come un gatto bellissimo in uno scantinato di periferia. Si è accorto di me solo quando ho sbattuto di proposito il bicchiere sul tavolo di legno. Ero di schiena, le orecchie in attesa, lo sguardo inchiodato sulle mattonelle della cucina.
«Sei bellissima.»
Ricominciavo a respirare. Allora c’era salvezza.
«Mancano solo tre giri amore… poi sono tutto tuo» mi ha detto senza guardarmi.
E io che mi ero messa il sorriso sulla bocca per quella frase, per quel riscatto, sono rimasta lì. Marmorea come il piano di lavoro a guardare i suoi occhi già restituiti all’asfalto, all’inquadratura di una puttanella con l’ombrellino. Immobile con quel sorriso di troppo, l’espressione fuori tempo che si è incriccata sulla mandibola di chi non ha ancora capito che non c’è un cazzo da ridere.
Ha aspettato la premiazione. L’ha guardata in piedi con una gamba già in mezzo al salotto e la faccia di uno che vorrebbe proprio rimanere ma deve scappare o farà tardi al lavoro. E poi è venuto in camera.
Quel giorno l’amore è stato come una finestra finta, di quelle che t’illudono di mare e poi quando le apri non ci trovi altro che freddo e crepe. Ho guardato il muro per dieci minuti, evitando lo specchio, mentre Giulio mi prendeva da dietro e mi tirava i capelli.
«Come sei bella…»
Quando è andato a farsi una doccia sono rimasta in camera e ho affogato la testa nel cuscino. Buttata nel letto sfatto, con tutto quel rosa addosso imbevuto di sudore, sembravo un confetto sputato.
Lui non si è accorto di niente. Non c’è sempre il tempo, la voglia, di andare a vedere cosa c’è dietro una finestra.
E il mare è faticoso.
Succede. Non dovrebbe ma succede. E mica dal giorno alla notte. Così ti potresti sedere e affrontare il problema, tirare fuori il paracadute d’emergenza, la mascherina dell’ossigeno da sopra la testa.
No.
Succede impercettibilmente, giorno dopo giorno, da quale giorno non si sa.
Diventi distratto.
Non ti guardi più.
Ti sei abituato ad averlo lì quel corpo, quella terra sconosciuta di cui hai esplorato tutti gli anfratti, catalogando ogni centimetro, il colore di ogni neo. L’hai annusata giorni e notti quella pelle, ci hai inzuppato il naso dentro e sei rimasto lì. Per mesi e mesi a non fare altro che abbandonarti dentro a quell’odore nuovo. Adesso lo conosci a memoria. Non t’interessa più andare a vedere cosa c’è su quelle strade, che storia si nasconde sotto una cicatrice, studiare la lunghezza dei peli sul braccio. Non ci vai a controllare se i capezzoli stanno bene, se fa freddo nelle scarpe, come sta quel taglio piccolo e gravissimo.
Cristoforo Colombo è tornato.
Il Nuovo Mondo è conquistato.
Meravigliosamente Tuo.
Hai spolverato via quegli sporchi indigeni che volevano la tua terra, che avanzavano un pretesto per il solo fatto di averla trovata prima di te. Hai portato abitudini nuove e un nuovo modo di fare l’amore, hai piazzato le tue chitarre, hai riempito le foto ricordo col tuo bel sorriso, stampato come un francobollo davanti alla Tour Eiffel e ai mercatini di Natale. Adesso non c’è più niente da difendere. Quel graffio è una sciocchezza. E le cose piccole ritornano semplicemente cose piccole.
La Nuova Terra non è più nuova.
È conosciuta, sbranata, bevuta fino alle viscere.
Tutte quelle notti passate a guardarvi non servono più. Sono lontane come le piccole barche sul lago di Massaciuccoli, quando al tramonto portano gli innamorati a vedere l’accoppiamento dell’Airone Rosso. Ora quel tempo lo usi per fare le tue cose al pc, studiare uno spartito, mettere a posto i vestiti.
Rimetti a posto anche il tuo naso. Quello che hai tenuto in apnea fra le sue cosce, ci hai passato gli ultimi mille anni fra quella carne. È meglio che anche lui torni a fare il suo mestiere. Ad avvertirti se bruciano i popcorn nel microonde, a sentire un profumo per strada che ti fa ricordare che è un sacco di tempo che non ti compri un profumo.
Succede che diventi un cane stanco di annusare il solito albero. Tanto è lui, quello davanti casa. Ci pisci da quattro anni, su quella corteccia.
Guardo le roulotte stagionali in fondo alla strada, sul lato che dà sulla Geodetica. Le ruote arrugginite, tutte in fila davanti ai lampioni, sembrano vecchi militari in pensione.
Non è difficile montare una tenda.
È difficile stare qui, su questa terra in affitto, in mezzo a questa gente, sola. È difficile decidere cosa fare dopo che l’hai montata, la tenda. Trovarsi seduta su una cassetta di legno, stappare una Heineken, Spank che mi porta la pallina e aspetta un lancio. Rassegnarsi alla gente che passa col suo passeggino, un pallone, il giornale sotto il braccio.
Ti accorgi che c’è la vita, intorno.
Nelle vacanze degli altri, nell’odore di brace che arriva dai camper vicino alla rete di recinzione. E invece tu sei ferma, è inchiodata qui la tua vita, rinchiusa in questo spazio provvisorio, in questa pausa delimitata da una ventina di picchetti conficcati nella plastica.
Cosa farò domani?
Anzi ora, adesso. Che faccio?
Che facciamo, Spank?
Saranno quaranta minuti che siamo su questa plastica, immobili, io e Spank. Io a fissare i ricordi, lui la sua pallina, sbavata ai miei piedi nell’illusione di un volo.
Mi guarda.
Lo guardo.
Mi alzo.
Intasco il Golden Virginia, le chiavi della Twingo. Aggancio il guinzaglio nero e butto una All Star davanti all’altra in una direzione a caso.
Anche quando hai le gambe molli e l’anima esausta. Anche quando vorresti chiudertici dentro, alla tenda che hai appena montato, tirare su la cerniera e rimanere lì, in attesa. Seduta a gambe incrociate con in mezzo la testa del tuo cane e nient’altro. A morire di caldo fra ragni e plastica, le cosce che si appiccicano al materassino. E restarci per anni, millenni dentro quella pancia, mentre fuori cigolano le biciclette, l’acciottolio dei piatti nel pomeriggio. Ad aspettare che passi, che finisca o che torni ma che succeda qualcosa perché altrimenti muori. Anche quando ti senti così, non lo so cosa ti dice con quegli occhi, come fa, ma un cane riesce a darti una buona ragione per alzarti e camminare.
Torniamo che è sera. Butto le scarpe impolverate sul telo verde, infilo le infradito con Spank che mi trotta intorno, è tempo di crocchette. Abbiamo camminato per ore senza sosta e senza meta fianco a fianco come uccelli migratori, ognuno coi suoi pensieri inutili.
Mentre lui inzuppa il muso nella ciotola io mi apro una scatoletta di fagioli e una bottiglia di Tocai. Guardo i camper laggiù in fondo, vicino ai bidoni, raggruppati e compatti come un esercito. Stendono i loro tavoli formato famiglia nella strada e preparano il barbecue, l’odore acro della carne si mischia a quello di mare e pece portato dal vento. In risposta ai lampioni che frizzano loro accendono tutte quelle finestrelle rettangolari con le zanzariere e i costumi attaccati agli stendini ripiegabili.
Sembrano tante piccole lucciole in quella terra di mezzo fra la spazzatura e i cessi, passeggeri in prima classe di un aereo che non vola più.
Poi guardo la mia tenda, questo tetto di plastica che scrocchia al vento. Se ne sta lì innalzata in mezzo al nulla come la bandiera rossa sull’apice della Pania, sotto la croce. Anche lei a dimostrarmi che è fatta.
Sono arrivata in cima.

Come è nata l’idea di questo libro?
Gli input sono stati molteplici. Il primo “muso ispiratore” che mi sento di ringraziare è sicuramente il mio cane Gerry; senza di lui non avrei mai scritto questo romanzo. In secondo luogo io tendo a utilizzare la scrittura per metabolizzare gli avvenimenti: all’epoca uscivo da una relazione finita male e portarla, seppur in forma romanzata, bianco su nero, mi ha da una parte ispirata per la creazione del personaggio di Adele, e dall’altra aiutata a “buttare giù il boccone amaro”. Per finire, io amo la Maremma e in particolare i luoghi dove ho ambientato la storia: avevo voglia di raccontarli.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Moltissimo. È stato un lavoro estenuante e faticosissimo che mi ha insegnato più di ogni altra cosa il significato di parole come “disciplina” e “sacrificio”. Inizialmente sono partita scrivendo di getto per poi rendermi conto, dopo quasi un anno, che alla storia mancava qualcosa di fondamentale. Allora ho buttato via quasi tutto e ho trascorso i successivi tre mesi a scrivere una scaletta dettagliata di tutti gli 83 capitoli. Dopodiché ho preso un’aspettativa dal mio lavoro e per un anno e qualche mese mi sono chiusa in casa, letteralmente. Non andavo nemmeno ai matrimoni, uscivo solo per recarmi in Maremma quando non mi ricordavo dov’era posizionato un albero o di che colore erano le pareti del bar del campeggio. Ho perso molti “amici” in quel periodo e ho pianto molto. Scrivevo circa tredici, quindici ore al giorno, e non riuscivo a completare più di cinque pagine. È stata dura.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Ci sono autori che ho amato o amo leggere più di altri (Jane Austen, Tolstoj, Dostoevskij, Flaubert, Poe, Virginia Woolf, Lee Masters per citare alcuni tra i Grandi Classici e Pennac, Ammaniti, Ferrante, Avallone e Cormac McCarthhy tra i contemporanei) ma se devo essere sincera non ho autori di riferimento, se per “riferimento” si intende “rifarsi a qualcuno”. Credo che ogni scrittore sia prima di tutto un buon lettore, ma sono fermamente convinta che ognuno debba cercare la propria unicità nella scrittura, così come in qualsiasi altra forma artistica.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Abito a Lucca e, a parte una parentesi di otto mesi durante la quale mi sono trasferita a Galway, nella mia amata Irlanda, vivo qui da quasi quarant’anni. Sono però sempre stata una grande viaggiatrice, soprattutto in solitaria, e come spesso mi piace raccontare ho accumulato un’infinità di biglietti di sola andata alla ricerca di un luogo da poter chiamare “casa”. Scrivere “Adele e Spank sola andata” mi ha aiutata anche in questo: ho capito che la mia casa è a 140 km da qui, in una villetta che un giorno troverò e che ogni mattina, come prima cosa, mi faccia vedere Torre Mozza. Mi piacerebbe anche prendermi una piccola baita nella mia cara Val Badia dove rifugiarmi a scrivere. E infine perché no, un cottage in Connemara affacciato sull’Oceano.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
“Non più un giorno senza una pagina scritta”: questa frase mi è stata detta dal mio carissimo editore ed è diventata un mantra. Adesso non lavoro più nell’ufficio dove ho trascorso tristemente gli ultimi dodici anni, ma faccio la tata a tempo perso e scrivo a tempo pieno. Sto lavorando al mio secondo romanzo. Una mia prima silloge di poesie, “Brontola il cielo”, è già uscita, e altre due usciranno da qui a primavera. Una mia raccolta di fiabe per bambini uscirà a Natale grazie alla fiducia di un editore lucchese. Voglio esercitarmi, migliorare, e continuare a scrivere, sempre e comunque. Ho la sciocca presunzione di essere al mondo per questo.
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