Edito da Eroscultura / Brè Edizioni nel 2020 • Pagine: 360 • Compra su Amazon
Anno 1979, una macchina in autostrada con attorno solo il deserto, montagne in lontananza, cieli sconfinati e il silenzio di un pomeriggio inquieto. Tristan è un giovane uomo con un sogno: entrare nel circuito del Professional Wrestling, ed è in viaggio per affrontare il primo incontro che potrebbe aprirgli le porte della nuova carriera. Inizierà così la sua salita in locali da pochi soldi e match senza regole nelle periferie selvagge del nord America, nella speranza di venire notato dalle federazioni ufficiali ed entrare nel grande giro. Lontano dalla famiglia e dal mondo sicuro della sua piccola città dove mai niente succede, il viaggio lo farà crescere e mutare: dalla scoperta e accettazione della sua omosessualità, alle prime esperienze erotiche con altri uomini fino a rinsaldare il profondo rapporto con il suo Coach, da sempre figura paterna e fraterna al suo fianco. Incontrerà soddisfazioni e vittorie, piacere e godimento, ma anche dolore, incertezze e sconfitte, fino a incrociare la strada con un bellissimo ma pericoloso avversario, e un patto che lo lascerà ferito e solo. Sarà il match finale nella sfavillante città di Las Vegas che gli permetterà di riscattare la sua dignità e la direzione che sembrava aver smarrito?
«Allora, possiamo parlarne?»
Siete in strada da ore, il paesaggio brullo di colline aspre e rocce ti ricorda l’inizio della vostra avventura, quando il Coach guidava e tu eri seduto di fianco, lasciando il Nevada alle spalle ed entrando nell’Oregon, per assistere all’incontro di Jimmy Angel.
Sospiri, sapendo che non c’è modo di rimandare per sempre, e ti fai coraggio. Forse la cosa peggiore è la vergogna che provi per come siano andate le cose, per aver perso così clamorosamente proprio davanti ai suoi occhi.
«Va bene…»
Il Coach si accende una sigaretta, e poi ti appoggia la mano sul ginocchio, gli occhi sulla strada.
«Non so da dove cominciare, Tristan, perché non mi dici tu quello che vuoi?»
«Anche io non lo so, e neanche esattamente perché l’ho fatto. Avevo forse paura di…»
Il Coach sbuffa fuori il fumo dalla finestra, il sole inizia a tramontare, proprio come quel giorno, ma un sorriso leggero inclina la sigaretta all’angolo della bocca; aspetta la tua risposta che non viene, e sbuffa altro fumo.
«Paura di finire come me? Prima ancora di avere iniziato?»
«No, cioè, Coach, avevo solo paura di non essere abbastanza bravo, avevo paura che avrei potuto sbagliare se mi fossi affidato solo sulle mie forze.»
«Lo so» il Coach si tocca la fossetta del mento, poi butta la sigaretta appena iniziata fuori dal finestrino «ma sarà così per tutta la vita, Tristan, adesso cosa senti? Pensi ancora di avere fatto la scelta giusta?»
Abbassi gli occhi, ripensare a quella notte ti fa ancora male, il dolore che ricordi si manifesta così vivo che ti sembra di sentire la ferita che ti si apre dentro di te, scavando tra le carni, violentemente più in fondo. Strizzi gli occhi per scacciare quelle immagini, ma la voce adesso ti trema leggermente.
«No, ho sbagliato. Ma il responsabile sono io e nessun altro. Io ho deciso di andare, io ho deciso di restare quando mi è stato offerto di andarmene. Io volevo fare quello che ho fatto – respiri forte, buttando fuori le ultime parole – e io ne pago le conseguenze. Nessuno mi ha obbligato, sapevo quello a cui andavo incontro.»
La sua mano ti tocca il ginocchio ancora, questa volta stringendoti forte, quasi senti il muscolo reagire a quella stretta.
«Tristan, le affronteremo insieme. Promettimi che mi chiederai sempre aiuto quando ne avrai bisogno, quando avrai dei dubbi, come io ho promesso che ti sarei stato vicino quel giorno che abbiamo firmato il contratto per la federazione.»
Ti guarda, il grigio dei suoi occhi è trasparente per i raggi del sole davanti a voi, i tuoi occhi si chiudono appena, per la troppa luce o per la troppa emozione che provi in quel momento, riesci solo ad annuire e stringergli la mano appoggiata su di te.
«Sei arrabbiato con me? Ti ho deluso?»
«Sai, pensavo di esserlo, dopo che John mi ha raccontato tutto, tu eri già andato via e mi sono detto: fuck!»
Abbassi gli occhi, la sua mano è ancora sul tuo ginocchio, ne accarezzi il palmo leggermente con l’altra, i suoi peli biondi scorrono tra le tue dita, ma non riesci a guardarlo mentre continua a parlare, fissi le sue dita, chiudi gli occhi nel sentire l’emozione dentro di te.
«Poi ho avuto una paura così forte di averti perso, che tutto fosse improvvisamente finito e ho sentito che la mia vita non avrebbe avuto più lo stesso valore se tu non ci fossi stato più. Mi sono reso conto quanto ero fortunato di averti, di aver fatto questo percorso insieme e ho pregato di ritrovarti sano e salvo, che avrei fatto tutto quello che avrei potuto per vederti felice.»
«Mi dispiace di avervi fatto stare in pensiero, e anche di non averti detto niente. Pensavo che se avessi perso quell’occasione non avrei avute altre; avevo paura anche solo di cambiare idea e di non farcela più all’ultimo momento. Ma volevo farlo, volevo che voi foste orgogliosi di me per aver spinto in avanti le cose.»
«Lo siamo sempre stati sin dall’inizio, Tristan, io e John.»
Restate in silenzio entrambi, i tuoi occhi si sfuocano nel paesaggio davanti a voi.
«Allora il peggio è passato adesso, andiamo avanti come prima? Noi tre?»
La sua mano lascia il ginocchio e ti scompiglia i capelli dietro la nuca, tu appoggi la testa al sedile, e finalmente sorridi.
«Faremo una settimana a casa, ho pensato che una vacanza ti farà bene, soprattutto rivedere la tua famiglia, li ho già avvisati e non vedono l’ora che arriviamo.»
La tua nuca schiaccia leggermente il palmo della sua mano contro il sedile, la macchina ha acceso i fanali e le colline della California del Nord iniziano a livellarsi col terreno, che diventa più arido, coperto solo di erba bassa lasciando presto posto agli arbusti del deserto. Un cartello dell’autostrada indica Reno.
Siete entrati in Nevada.
«Sai che ho visto le fotografie che tieni nell’album in soggiorno, vero?»
Lui scoppia a ridere nel pensarci e si accende un’altra sigaretta, abbassando ancora uno spiraglio del finestrino.
«Lo immaginavo, certo. Erano lì in bella vista e non mi interessava nasconderle.»
«Eri una favola!»
«Vuoi dire che non lo sono più?»
Ma il suo tono è divertito adesso e anche tu scoppi a ridere.
«Coach, tu sei il numero uno per me, anche se non vuoi più fare quello che abbiamo fatto, che per me è stata la cosa più bella del mondo.»
«Vero, è stato bello, ma è meglio così. Che resti un bel ricordo.»
«Ma non dirmi che a te non è mai successo quello che… »
«Sai, a dire il vero, no, cioè non come è successo a te. Chissà cosa avrei fatto?»
Ripensi alla figura giovane del Coach nelle fotografie, sembrava così felice.
Continua a parlare.
«Cioè avevo tanti ammiratori, soprattutto donne, trovavo bigliettini e lettere d’amore dappertutto, di solito sul vetro della mia macchina, qualcuna a casa e poi mi arrivavano attraverso la federazione. Mi rendeva felice, è normale.»
«E hai più avuto una fidanzata?»
Si gira ancora verso di te, chiaramente sorpreso, ma senza traccia di collera sul suo viso, piuttosto un divertimento ingenuo.
«E questo come lo sai?»
«Beh, una volta ho chiesto a Johnny di voi due e mi ha raccontato, non so perché non ho mai avuto il coraggio di chiederti del tuo passato, forse ero ancora troppo timido e fino a pochi mesi fa, anche se io e te eravamo così vicini, mi sentivo sempre un po’ in soggezione, fino ad adesso.»
«Questo aspetto di te mi è sempre piaciuto, Tristan, spero che non cambierai mai.»
«Che cosa?»
«Sei un ragazzo così dolce, onesto, la tua bontà mi commuove, certe volte ti farà soffrire, ma per favore, non cambiare mai.»
«Ma… anche tu sei così.»
«Forse un po’, ma no, nessun’altra fidanzata, e dimmi, John ti ha raccontato anche come è finita tra di noi?»
«Cioè, più o meno, ma non ne ha voluto parlare troppo, credo che lui volesse che fossi tu a parlarne, quando io te l’avessi chiesto, come se pensasse che non fosse giusto che fosse lui a dirlo.»
Lui prende tempo, come per scavare in quel periodo di dieci anni fa.
«Lui venne da me una sera, raccontandomi il problema in cui era finito, i soldi che doveva a quell’altro italiano e i giri di scommesse in cui si era cacciato.»
«Non ti ha mai chiesto di parteciparvi?»
«No, non lo fece mai, io in quel momento avevo la mia carriera e sapeva che non avrei mai rischiato di farmi male in quel modo e neanche che avrei partecipato a qualcosa di illegale, non sarei riuscito a picchiare a sangue qualcuno solo per soldi. Ma ricordo che più di una volta accennò all’argomento, senza dire che ne era direttamente coinvolto però. Ma quando mi disse tutto, era così disperato che in quel momento sentii di amarlo ancora come all’inizio, dimenticando tutti i problemi che avevamo. È una sensazione così forte, potresti fare tutto per l’altra persona quando ami qualcuno.»
«Com’è andata quando hai combattuto?»
«Ho avuto davvero paura e ho pensato di non potercela fare. Eravamo lì, io e una montagna il doppio di me, senza regole e senza nessuno che potesse intervenire. Ricordo di aver temuto per la mia vita in quel momento, immaginavo scenari come il mio corpo senza vita abbandonato nel deserto e cose così, ma ero in qualche modo anestetizzato da una strana adrenalina che mi faceva sembrare tutto irreale, come se non stesse davvero per succedere.»
«Come hai fatto a vincere?»
«Ti giuro, non lo so, sono andato avanti e avanti, fino che l’altro
non si è rialzato. Anche se i suoi pugni li ricordo ancora, era come essere colpito da rocce. Ma tu hai fatto lo stesso alla fine, con Angel, ricordi? A volte lo sfavorito vince l’incontro.»
«Ma no, Coach, il tuo avversario in confronto ad Angel era cento volte peggio!»
«Beh, io ero più adulto di te, avevo più allenamento, ma sono rimasto fermo per tre settimane dopo quell’incontro, e me la sono quasi fatta addosso quando mi sono visto allo specchio: ero una massa di sangue, e di ferite dappertutto. Avevo addirittura pensato che non sarei più tornato carino come ero prima! E per la prima volta mi dispiaceva.»
«Eri arrabbiato con Johnny?»
Il Coach mette la freccia verso l’uscita dell’autostrada, dirigendosi verso le luci di una piccola città nel deserto, che da lontano sembra una pietra preziosa che risplende nella sabbia nera della notte. Vi fermate a una tavola calda di fronte alla stazione di servizio, e, mentre tu entri a prendere un tavolo, il Coach si ferma a riempire il serbatoio del carburante.
L’interno del ristorante è caldo e piacevole, i tavoli di legno con divanetti di cuoio in cerchio sono quasi tutti occupati e il familiare chiacchiericcio degli avventori ti mette di buon umore e ti accorgi di essere davvero affamato. Al bordo del tavolo ci sono già le piccole confezioni di marmellata per la colazione dei nottambuli o del giorno dopo, ne prendi una alle fragole, succhiandola direttamente dalla plastica.
Diverse persone sono anche sedute a bar più in fondo e ci sono alcuni flipper con un gruppo di ragazzi attorno; devono avere la tua età, li osservi mentre prendi posto a uno dei tavoli, uno si gira velocemente verso di te, i vostri sguardi si incontrano, e gli rivolgi un sorriso veloce, qualcosa dentro di te si accende e ti fa sentire meglio.
Il Coach ti raggiunge al tavolo mentre stai leggendo il menù scritto a mano, e la cameriera vi raggiunge con due bicchieri d’acqua con ghiaccio e due tazze di caffè che hai ordinato.
Scegliete hamburger, insalata, patatine fritte per te, sandwich al formaggio e una patata al forno con crema acida per il Coach, che riprende il suo racconto, mentre aspettate il cibo.
«Non so se fossi davvero arrabbiato con lui.»
Il suo viso è perso nei ricordi adesso, la barba ruvida di qualche giorno, gli occhi grigi si fanno leggermente più scuri alla luce
soffusa del locale.
«Forse sì, me ne sono andato da solo, non gli ho voluto più parlare dopo aver combattuto, la verità forse era che per qualche motivo, dovuto a entrambi, ci eravamo allontanati e non sapevamo come fare. Sentivamo tantissimo la rispettiva mancanza perché alla fine la nostra vita insieme era perfetta, ma più cercavamo di avvicinarci, più le cose peggioravano. Il fuggire da lui credo sia stato il mio modo per ferirlo.»
«Che cosa hai fatto dopo? Johnny ha detto di averti cercato.»
«Vero, credo di essere rimasto a casa per un po’ per riprendermi, avevo cancellato gli incontri di wrestling per cui ero programmato, non ero nelle condizioni fisiche per combattere ancora, avevo addirittura paura a guardarmi ancora nello specchio e dissi che avevo avuto un incidente. Un po’ si arrabbiarono con me ma sinceramente le cose non andavano più benissimo come agli inizi, nuovi campioni con più ambizione arrivavano e spingevano per salire in vetta, sai com’è. Stavo già per essere sostituito e dimenticato.»
Ti accorgi del dispiacere che prova nel ricordare quel momento, vorresti cambiare discorso ma ancora di più vuoi sapere che cosa successe a quel tempo. Lui sembra leggerti nel pensiero e ti sorride.
«Lo sbaglio fu mio, Tristan, e aveva ragione Santos, quando ti ha detto di non ripetere gli stessi errori, intendeva i miei ovviamente, semplicemente pensavo di aver conquistato il mondo da solo e che non avevo bisogno dell’aiuto di nessuno, a parte il mio talento.»
Non capisci. Perché le cose avevano preso un’altra direzione allora?
«Ma quello era lo show business, il talento non basta, ci vuole pubblicità, devi sorridere, apparire, risplendere sempre di più, stregare chi ti guarda in modo che voglia vederti ancora e ancora, e lo feci all’inizio, venivo invitato a tutte le feste, cene, casinò, inaugurazioni, viaggi, ma non era il mio mondo, io volevo riposo, pace, silenzio, solitudine dopo le luci dello show.»
Ripensi a tutte le foto e agli articoli di giornale che mostravano quella giovane stella nascente sorridere agli obbiettivi dei paparazzi durante gli eventi.
«Johnny mi aiutò tantissimo, io non sapevo niente di niente su come comportarmi, come vestirmi, parlare, lui mi insegnò e mi stette sempre vicino, anche se tutto quello per me era stress alla fine, e mi spinse a fumare, a essere infelice. John adorava quell’ambiente, era il suo elemento. Io, subito poco dopo, iniziai a odiarlo. E così piano piano smisi di parteciparvi, allontanandomi dai riflettori e lasciando il mio posto ad altri che lo volevano più di me, e lo ottennero senza troppa fatica.»
«Ma tu hai continuato a combattere, vero?»
«Sì, certo, non avevo altra scelta, era quello che mi dava da vivere, ma dopo che incontrai Vincent Lee, scoprii che esistevano anche nuovi mondi da esplorare, mi buttai nell’allenamento e nelle arti marziali dimenticando tutto il resto, avevo trovato qualcosa di nuovo che mi dava energia vitale.»
«Tu credi che sia stato grazie a Vincent che fosti in grado di vincere l’incontro clandestino per Johnny?»
«Sì, ne sono sicuro; con lui ero entrato in qualcosa di completamente nuovo, i miei orizzonti si erano allargati, avevo imparato a non ascoltare il dolore, a trovare nuova energia anche quando il corpo l’aveva esaurita, a scoprire nuovi colpi che neanche io immaginavo di conoscere, a non smettere mai. Credo che sarei potuto andare avanti letteralmente fino a che non fossi morto.»
Il pensiero ti fa rabbrividire e il silenzio cade su di voi, i piatti adesso sono vuoti e la cameriera passa a ritirarli. Chiedete altro caffè, prima di rimettervi in strada.
Come è nata l’idea di questo libro?
Da due anni lavoro ad un brand di underwear (vagamente ispirato al mondo del vintage wrestling appunto) che mi ha spinto a creare una piccola storia intorno, fino a che il libro mi ha catturato sempre di più.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Non è stato semplice, sono una persona molto istintiva, che si stanca subito dei suoi progetti e voglio portarli a termine in fretta. Non avevo neanche una formazione classica nella scrittura, cosa che forse mi ha rallentato, per documentarmi un po’, ma ho riversato molto del mio stile visivo (vengo dalla fotografia e dalla pittura) nel mio modo di scrivere, prediligendo descrizioni e flussi di coscienza.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Il mio autore preferito da sempre è Michael Ende (lo scrittore de “La Storia Infinita” ma anche di una moltitudine di bevi storie che considero piccoli capolavori) per il talento visionario e visivo che ha riversato nei suoi libri. Ho sempre amato anche “Il Maestro e Marghrita” di Bulgakov, e scelgo Vittorio Tondelli (soprattutto “Rimini”) se vogliamos tare in ambito italiano.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nato a Milano 40 anni fa, ma da ormai quasi dieci vivo a Los Angeles: mi trasferii qui per lavorare nel mondo del cinema e della moda, e devo ringraziare proprio l’aspetto eclettico della città, che ti spinge a fare proprio tutto quello che vuoi, a iniziare la mia avventura di scrittore.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ho già iniziato un altro libro, che non ha legami con il mio primo: dagli anni 70 sono passato ai 90, da Las Vegas sono passato a Los Angeles, ma lo stesso ci saranno molti temi in comune: dal romanzo di formazione, al protagonista gay e altre cose. Scrivere mi diverte e mi dà energia! Grazie dell’attenzione, Leandro.
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