
Edito da Felix Krull Editore nel 2019 • Pagine: 504 • Compra su Amazon
“Amor che torni ...” è la continuazione di “Pastor che a notte ombrosa nel bosco si perdé ...” e delle peripezie dei due amanti protagonisti: del loro errare e soffrire, cercarsi e sfuggirsi, ferirsi e amarsi, mille volte perdersi e ritrovarsi infine una sera di aprile, nel modo più inaspettato, prodigioso e fulmineo. Ha lo stesso respiro epico e insieme intimo, la stessa struggente dolcezza, la stessa potenza di sentimenti, le stesse grandi ali dispiegate nel sogno. Perché i due libri sono in verità un unico romanzo, una summa di tutte le storie d’amore mai scritte, di tutti i tormenti e le gioie d’amore mai vissuti, di tutta la psicologia amorosa descritta e sintomatologia amorosa rappresentata dall’inizio della storia umana, ma anche, e più d’ogni altra cosa, un paradigma dell’impossibile che si rivela possibile.

“Amor che torni…”
Prima Parte
Dal capitolo
VIII
Non c’è niente sul diario, neanche un’esile traccia annotata, su cui far fiorire il racconto.
Per narrare quell’incontro, dovrò affidarmi interamente alla mia memoria e far rinascere quello che vi è rimasto imprigionato, quello che, imbalsamato e coperto d’ombra, ne è sopravvissuto. All’inizio mi sgomento, mi turbo. Come farò a ricordare …
Il tempo ha fatto indietreggiare i ricordi, in parte mi sembra che li abbia slavati o lasciati svanire come un vacuo vapore di pallido oro. E questo mi rattrista e mi angoscia anche.
Sono inoltre permanentemente stanca. Ho dato, e continuo a dare, per lui e per la storia di lui, più di quello che mi pareva, e mi pare, di avere; a tratti ho lottato, e continuo a lottare, con una abissale sensazione di stanchezza o sfinimento. Ma vale la pena stancarsi, è bellissimo quanto nasce da queste fatiche spossanti, e questo cancella di nuovo la stanchezza. Sublimi sono gli sforzi che nascono sotto la costellazione di Venere. Bellissime le ricompense di Eros, anche e più ancora quelle che regnano solo nello spirito. Perché lo spirito è tutto, è da lì che tutto viene ed è lì che tutto ritorna.
E la cronologia, l’ordine dei fatti qual è? Mi sforzo di ricordare, mi costringo a sprofondarmi sempre più, per gradi, in quella sera lontana, che per tanto tempo è stata così vivida e vicina e che non ho avuto la forza o l’ozio o l’avvertenza di fermare in tempo sulla carta come altre.
Ahimè, riuscirò?
E poi, poi … giunge improvviso il momento che mi accorgo di essere scesa di strato in strato nel pozzo della memoria e mi sembra che quella sera ad un tratto ne sia risalita tutta intera, come la fresca, scintillante acqua tirata su da un magico secchio, con la sua atmosfera prima di tutto, unica, irripetibile e inconfondibile, e i gesti poi che furono compiuti, le cose che furono dette…
Ricordo molto bene che quella sera l’aria era mite, la sento spirare molle intorno a me ora, più di allora, molle nonostante il peggioramento annunciato del tempo. Anche in estate le sere possono essere fresche, a queste latitudini. Quindi era, quella sera, un dono del cielo… Per questo avevo potuto indossare il bolerino. Lo stesso bolerino con cui mi aveva vista per la prima volta, davanti al Lotto Laden, quello che portavo anche quando avevamo fatto la nostra passeggiata d’iniziazione l’una a l’altro, lungo il canale, e lui mi voleva già tenere per mano e baciare.
Era già scesa l’oscurità e, quando, dopo essere giunta con un po’ di anticipo al L. garten, con un tuffo al cuore lo scorsi avanzare col suo inconfondibile passo agile e spedito nella traversa, gli mossi incontro sul marciapiede opposto al suo. Lui attraversò, rapido e leggero, con quella sua grazia innata che mi aveva sempre incantata, con quella grazia a cui era stato così profondamente triste dover rinunciare, e ci venimmo a trovare faccia a faccia.
Aveva, come sempre, una sigaretta tra le dita.
Mi si è impresso con forza sulle retine e sul cuore, il momento di sospensione in cui ci fronteggiammo immobili in silenzio, nell’ombra, accanto alla ringhiera di un giardinetto. Quel momento si ritagliò allora con la stessa potenza dei ricordi d’infanzia, che si presentano spesso staccati dallo sfondo, circoscritti, e tutto quello che li circondava non si vede più.
Il suo sguardo era impenetrabile, enigmatico, ma fissava apertamente il mio. Severamente, quasi con rimprovero, eppure serenamente. Kasim mi parve un altro, mi parve, misteriosa, inquietante percezione, uno sconosciuto, un uomo incontrato in quel momento per la strada.
Aleggiava qualcosa di inespresso nei suoi occhi, non so se fosse una domanda, non so se fosse desiderio. Lo sentii, in quel momento, non fanciullo, ma uomo, come mai era accaduto prima e sarebbe accaduto dopo, anzi maschio. Una strana, intensa aura lo avvolgeva.
C’era spesso sorpresa da parte mia, quando lo rivedevo e mi appariva diverso. Questo era dovuto in parte sicuramente anche ai lunghi intervalli che cadevano tra un incontro e l’altro. Non riuscivo a catturare il suo viso in una forma definitiva e a trattenerlo. E, allorché me ne accorsi, quasi ogni volta poi, nell’imminenza di un convegno, mi chiedevo come mi sarebbe apparso adesso.
In quel momento prevaleva in lui il fauno, anzi il satiro. Quella sera di settembre il satiro sembrò aver preso possesso per un attimo del suo corpo.
Proposi di non andare più al L. garten ma alla tea-room, e c’incamminammo fianco a fianco alla volta di questa.
Entrammo nel giardino racchiuso dall’inferriata nera e ci accomodammo all’ultimo tavolo, contro la siepe. Io adagiai sullo schienale della mia poltroncina la giacca e rimasi col solo bolero. Non mi ero aspettata che la sera fosse così tiepida. Mi accorsi, con fastidio, che il tavolo ballava. Lui si alzò, adorabilmente rapido e leggero, a staccare dalla siepe un pezzetto di verde e lo infilò sotto la gamba che non poggiava bene sul suolo, ricordo. E come potrei non ricordarlo, quel gesto così semplice, così antico, di chi era ancora in contatto con le forze della natura, di chi era nato in campagna e non lo aveva dimenticato? Eros mi parlò in quel momento da lui, da quel gesto, turbandomi.
Prendemmo a conversare, fumando, e ci sprofondammo presto in noi stessi. Il cameriere bulgaro venne a prendere le ordinazioni. Sentivo i suoi occhi addosso. Ero lì seduta nella penombra non con il mio solito marito, presenza a lui familiare, ma con un giovane che per di più aveva un accenno di cresta e la gelatina nei capelli.
Continuammo a parlare fitto fitto. Anche questa volta lui mi aveva avvertita che saremmo stati insieme un’ora esatta, e avevo l’opprimente sensazione di dover sfruttare al massimo quel rigido spazio di tempo e di non poter tenere dietro al suo racconto. Dovevo capire tutto e ricordare tutto. Quella sera avevo rinunciato a portarmi dietro la cartellina.
Gli rivolsi la prima domanda. Volevo saperne di più sui suoi conflitti con i compagni di scuola, cui aveva accennato la volta precedente nel giardinetto delle oche.
Lui iniziò a raccontare, severo, concentrato e rapido. A tratti poggiavamo i gomiti sul tavolo e venivamo così più vicini.

Come è nata l’idea di questo libro?
Non a tavolino, ma dall’angosciosa, struggente urgenza di sottrarre alla caducità, con tutta la sua bellezza, per me in primo luogo e per altri in secondo, una storia da me realmente vissuta, mutando la sua sostanza volatile in lettere dell’alfabeto, cioè in letteratura, e facendola così divenire materia quasi incorruttibile.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Molto. È, come il precedente, una tessitura infinita di fatti (e sentimenti reali), tener conto dei quali, della loro ineludibile oggettività, nello scrivere un’opera peraltro libera, eterea e sognante, musicale e colma di immaginazione, che tende a trasvolare nel metafisico, è un’operazione delicatissima, estenuante, faticosa e insieme magica. La sola revisione, poi, sono cinquecento pagine, mi ha comportato cinque mesi di lavoro serrato, un supplizio raffinatissimo, affidato totalmente a me, dal momento che la miseria spirituale odierna vuole che non si possa contare su un lettore di professione, così come del resto non si può contare su un editore di professione, e, per essere scrittori, bisogna essere anche correttori di bozze, editori, grafici, ufficio stampa, fare sacrificio totale di se stessi e delle proprie energie, vegliando su tutte le fasi della produzione di un libro, finché questo non arriva al lettore, e anche oltre, perché quattro anni di lavoro quotidiano non devono finire nel nulla, mille pagine di poesia in romanzo non si sono scritte da sé, occorre continuare a promuovere i due libri, che sono un libro solo, difenderli dalle insidie, continuare a promuoverli dominando i nervi e la stanchezza, facendoli, per esempio, concorrere per il Premio Strega, contrattaccare, spremersi il cervello esausto per trovare nuove strategie, quando i giornalisti li ignorano. Dove sono le case editrici? Dove sono i critici letterari? Dove sono i giornalisti? Dove sono i premi letterari? Tutto ciò, in conclusione, che permette alla Letteratura di essere? Soltanto i blog ne hanno scritto, li hanno recensiti, spesso con parole incantate come: da “Pastor che a notte ombrosa nel bosco si perdé …” ad “Amor che torni …”: un’unica storia scritta con infinita dolcezza mista ad intensi sentimenti; oppure: una profonda immersione nella bellezza della lingua italiana … E si vedano, in particolare, le due recensioni di Chiara Genovese, apparse su Periodicodaily…
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Al momento sono molto drastica circa gli autori di riferimento: amando la chiarezza estrema e intanto l’estrema poesia e l’estremo sentimento, ho a riferimento solo me stessa. Col tempo la schiera degli amici si assottiglia. Pochi si guadagnano ancora la palma. Allora, per citarne comunque alcuni, menzionerò solo quelli che ho letto e amato negli ultimi venti anni con maggiore slancio e gioiosa ammirazione (venerazione è una parola che non userei mai): Goethe, Hesse, Eschilo, Sofocle, Euripide…
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo nei miei pensieri e nei miei sogni, e solo accidentalmente a Monaco… Ho vissuto anche in passato sempre nei miei pensieri e nei miei sogni, e solo secondariamente a Napoli dove sono nata, a Roma dove ho studiato, a Parigi, per me allora la città della letteratura, a Vienna dove ho fatto l’esperienza teatrale… Ma, ad essere più realistici, ecco qua una svelta biografia: sono nata a Napoli. E vi ho trascorso un’infanzia… irripetibilmente bella. Con gli occhi imbevuti della luce del golfo, spesso sgranati o incantati su scenette vivide, personaggi curiosi ed estrosi, vivaci o malinconici, severi o scanzonati, indaffarati o oziosi, sartorie, botteghe di doratori, legatori, circondata dalla vita più ricca e tumultuosa nelle vie. Vi sono stata immersa come in un dolce mare fino al tredicesimo anno d’età. Considero una vera fortuna aver vissuto tanti anni, e nella fanciullezza, in una città così bella e viva. Mio padre, dal canto suo, era venuto al mondo a Palazzolo Acreide, una cittadina siciliana nient’affatto come un’altra, arroccata sui monti Iblei, in un punto già prescelto dagli antichi Greci per edificarvi un teatro, e ricostruita dopo un terremoto avvenuto alla fine del Seicento.. In seguito era divenuto francesista e aveva insegnato Lingua e Letteratura francese all’Università di Napoli. Mia madre proveniva invece da Siracusa e fu la prima Miss della città di Teocrito, celebrata da grecisti e latinisti per il biondo splendore della sua giovinezza e non per le misure del suo corpo. Divenne insegnante di Lettere. Per quanto mi riguarda, a Napoli frequentai la Teresa Ravaschieri, in quella via Bausan dov’era la casa natale dei De Filippo, l’Istituto Francese e la Fiorelli. A Roma, il Liceo Classico Manara, partecipando come simpatizzante dell’estrema sinistra ai moti studenteschi. Non avevo ancora compiuto vent’anni, quando volai a Parigi, dopo aver fatto il necessario gruzzolo al Liceo Linguistico di via Boncompagni con delle supplenze in Filosofia e Inglese. Femminista della prima ora, feci parte del collettivo ultra di via Pompeo Magno. I miei studi di Filosofia alla Sapienza presero sempre più un indirizzo estetico, sorse l’amore per la Letteratura tedesca … e ci fu l’incontro con Lerchenwald. Giovanissimi, lasciando tutti stupiti e interdetti, ci sposammo. Ben presto, per l’emergere in entrambi di una forte vocazione letteraria, abbandonammo Roma e ci trasferimmo in campagna, tra Siena e Firenze. Sette anni bucolici, sette anni di creazione e di artigianati vari, tra cui l’apicoltura, di veglie con i vecchi, di giochi coi bimbi dei contadini … e di inutili tentativi con le case editrici. Libato fino alla feccia il calice della loro indifferenza e inerzia, ne fondammo una nostra (già col nome di Felix Krull Editore) e demmo alle stampe un mio giallo letterario dal titolo “Incitazione a delinquere”, destinato però a restare l’unico da noi pubblicato : la lentezza con cui gocciolavano le recensioni mi esasperò al punto da spingermi all’esilio! Fuggimmo in Germania. Appena toccato il suolo tedesco, magia, tre case editrici (tedesche naturalmente) chiesero l’opzione per il sunnominato romanzo. Mi decisi per la più prestigiosa, la Luchterhand, che era fornita di un netto profilo letterario. Ma, a traduzione fatta, questa fu improvvisamente venduta, e dovetti correre ai ripari offrendo il libro alla Nymphenburger, di taglio più commerciale. All’edizione hard cover seguì la pubblicazione a puntate sulla Westfaelische Rundschau e seguì l’edizione tascabile nella Ullstein. Poi, sempre nella Nymphenburger, una raccolta di racconti, l’edizione tascabile degli stessi, mentre seguitava il torpido silenzio delle case editrici italiane … La mondiale congiuntura era già allora fortemente antiletteraria, ma la mia vena creativa era troppo grande. Scrissi un dramma radiofonico, replicato più volte dalla WDR di Colonia. Ma i successivi furono rifiutati dallo Zeitgeist. Tentai di mutare pelle e, trapiantatami a Vienna, mi diedi al teatro: commedie, un dramma fantasmagorico dedicato al Burgtheater, collaborazioni con riviste italiane, discese ricorrenti in Italia per far rappresentare le mie creazioni: ma l’unico risultato tangibile di tante fatiche fu e rimane una splendida lettura scenica de “La vita è un sogno” con sei attori e sei leggìi al Teatro Argot di Roma. Ristabilitami, dopo quasi tre anni di Vienna, a Monaco, pensando seriamente alla posterità, la prima cosa che feci fu di mettere al sicuro le mie opere, edite e no, nella Sezione Manoscritti e Rari della BNCF (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze): i tempi erano davvero bui e magari un incendio avrebbe potuto annientare tutto. Nel 2002, all’epoca del giubileo di Hermann Hesse, demmo il via all’operazione Herr Hesse a Baden, più che una semplice trasposizione per il teatro di “Kurgast”. Per la tenacia, la bravura, l’abilità politica e l’inventiva che io e Lerchenwald vi rifondemmo e per il muro di inerzia, indifferenza e stupidità con cui ci scontrammo, fu e rimase però sfarzosamente paradigmatica ed esemplare. Questa ulteriore esperienza negativa ci portò a riconsiderare l’idea di una casa editrice nostra: fu così che nell’autunno de 2006 rinacque a Monaco l’antica casa editrice di Firenze… Felix Krull Editore. Libera, orgogliosa, combattiva e bilingue: italiana e tedesca. Anzi trilingue, considerato che il prossimo mio titolo, “S’io fossi foco”, è scritto in parte in francese.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Riuscire a terminare, malgrado lo sconforto che mi sopraffà, “S’io fossi foco”.
È una testimonianza meticolosa, intima e potente di un sentimento d’amore finalmente vissuto in modo non convenzionale. L’Autrice dà voce ad una sensibilità, senza sesso e senza età, poco esplorata dalla letteratura, specialmente da quella contemporanea, che privilegia forme stereotipate di relazione amorosa: dinamiche più riconoscibili, certo, nelle quali è però sempre più arduo riconoscersi. Una sensibilità che io stessa, giovane lettrice e giovane donna, ho sempre avvertita e rinnegata, pur di corrispondere all’ideale di sensualità femminile che vedevo spopolare e al quale ho davvero creduto di dovermi adeguare. Questo libro ha rappresentato per me una sorta di rivoluzione, la liberazione da un peso, il dissolvimento del timore d’esser sola, estranea alla sessualità per com’essa ci è raccontata: una favola pornografica, peraltro poco incantevole. Non dev’essere stato facile, per l’Autrice, mettersi a nudo e parlare d’amore, in un mondo che d’amore non vuol sentir parlare. E la sua denuncia suona per questo ancora più grave. La sofferenza, qui, è come cenere: dice di un sentimento divorante e di aspettative tradite. Stordisce, avvolge il cuore come un sudario di polvere, ne ovatta l’eco di dolore. Ma quella sensibilità non può che rinascervi, moltiplicarsi nel petto di lettrici e lettori, e lacerare sempre di nuovo il velo dell’incomprensione.