
Edito da Gianluca Villa nel 2021 • Pagine: 165 •
Quarta di copertina:
Rivedere la Kati dopo qualche tempo farà sorgere nel Bianco un desiderio inquieto e irrequieto per lei.
Il libro racconta l'evolversi di questo desiderio, e i suoi esiti, nelle trame quotidiane della vita universitaria, fatta di sveglie in ritardo, kebabbari greci, palestre di arrampicata, compagni di corso fedeli, ma con i loro problemi anch'essi, famiglie non sempre perfette e amicizie a volte ambigue.Sinossi:
Bianco (soprannome del protagonista, il cui nome non compare mai nel romanzo) è un giovane studente di architettura che vive da solo a Milano e trascorre la propria vita tra lezioni universitarie, scrittura di articoli per una rivista online, serate in discoteca e arrampicata sportiva.
Durante una lezione Bianco scorge la Kati, vecchia compagna di università per la quale nutre un certo desiderio: desiderio problematico in quanto la Kati è fidanzata con Jacky. La sera stessa, però, dopo diversi mesi di silenzio, la Kati si fa sentire e, con la scusa di presentargli un'amica, chiede al Bianco di uscire. Al termine della serata, un saluto alquanto strano da parte della Kati, suscita nel Bianco un dubbio: non è che la Kati, anche se sta con Jacky, è in realtà interessata a me? I due si vedono altre volte, fino al giorno in cui lui, incapace di trattenersi, rivela alla Kati di essere pazzo di lei. Anche la Kati rivela di provare qualcosa per lui, ma l'incontro (e la prima parte del romanzo) termina con un bacio sulla guancia di lui e lei che corre via.
Dopo quattro mesi di silenzio la Kati si fa viva nuovamente e questa volta, tra i due, succede qualcosa. Nonostante il desiderio per il Bianco sia forte, però, la Kati non si decide a lasciare Jacky e, dopo alcuni mesi di incontri clandestini, scompare di nuovo (fine della seconda parte).
Finalmente, circa due mesi dopo, la Kati lascia Jacky ed è quasi pronta a cominciare una storia con il Bianco, il quale, però, raggiunto l'obiettivo per cui si è speso tanto, si rende conto di non essere realmente innamorato di lei.
Disperato per aver spinto la Kati a lasciare Jacky per un semplice capriccio, Bianco entra in una crisi che solo Marc, suo allenatore di arrampicata, sarà in grado di risolvere.

Era cominciato tutto a una festa di Natale, a casa di amici, per colpa di quattro gin-tonic e una stupida scommessa, che a quel tempo non gli era affatto dispiaciuto accettare, specie dopo un poker di cocktail bevuti uno di fila all’altro senza soluzione di continuità. Se fosse stato sobrio probabilmente non avrebbe accetta-to. E se avesse accettato non sarebbe stato comunque in grado di controllarsi. Ma sappiamo come vanno queste cose. Un sorso di troppo e anche il più serio degli studenti di medicina troverebbe il coraggio di pisciare di fronte all’ingresso dell’università, gridando al mondo intero che la mamma del professore di patologia aveva visto più volatili nella sua vita di tutti i fotografi del National Geographic messi assieme. Così, senza pensarci troppo e spinto dall’alcool che gli girava nel sangue, aveva tirato fuori dal mazzo le carte migliori e le aveva giocate una dopo l’altra, facendo morire di invidia i compagni di università, che lo avevano sfidato a por-tarsi a letto la biondina con il vestitino blu conosciuta qualche settimana prima. E l’aveva messa incinta. I suoi, ovviamente, non l’avevano presa bene e lo avevano cacciato di casa. E anche quando avevano saputo che la gravidanza non era andata a termine e la madre del bambino era andata a vivere in Francia, nonostante due settimane di suppliche telefoniche, non lo avevano riaccettato. Così aveva continuato a vivere da solo, studiando architettura, guadagnandosi da mangiare scrivendo per una rivista online e cercando disperatamente di abituarsi a vivere nel caos cittadino.
Quella sera, o per meglio dire quella notte, accese la luce sul comodino e senza scendere dal letto afferrò il computer, se lo appoggiò sulle gambe e si mise a sistemare gli articoli da consegnare il giorno dopo; guardò alcuni video di cucina, che gli sarebbero tornati utili se solo si fosse deciso a smettere di preparare pasta al tonno e pomodoro una sera ogni due, e lesse alcune recensioni di film d’autore. Poi, quando le palpebre di-vennero pesanti, appoggiò il computer sul pavimento, spense la luce e si addormentò.
Il suono della sirena di un’ambulanza lo riportò alla realtà. Controllò l’ora sul cellulare: le otto e cinque: “Sono ancora in tempo” pensò. Scese rapidamente dal letto tirandosi dietro il lenzuolo e lanciandolo sul materasso come fosse una palla da football americano, pre-parò in fretta la moka da quattro e accese la televisione. Finito il caffè, con ancora in bocca un wafer di una marca ucraina trovato nel negozio multietnico sotto casa, si infilò lo stesso paio di jeans che aveva usato il giorno prima e indossò una maglietta pulita presa dall’armadio, tentò con una mano l’impresa impossibile di mettere in ordine i capelli, prese la tracolla, ci infilò dentro il computer, si diresse verso la cucina, aprì il frigo e afferrò il contenitore con la pasta fredda avanzata la sera prima, rigorosamente tonno e pomodoro, e ci infilò anche quello. Controllò che la finestra del soggiorno fossa chiusa, spense la televisione e uscì di casa.
Arrivò in università giusto in tempo per l’inizio della lezione. Entrato in aula si guardò attorno per vedere dove fossero seduti Fede e il Tonno, ma non li trovò e si sedette in un posto a caso, non troppo lontano dalla cattedra. Tirò fuori il computer e cominciò a prendere appunti. Circa venti minuti dopo si sentì chiamare sottovoce dal fondo.
“Bianco!”
Senza farsi notare si voltò verso le ultime file.
“Dove ti sei cacciato ieri sera?”
“Sono andato via prima.”
“Abbiamo provato a chiamarti…”
“Avevo il telefonino scarico.”
“Potevi avvisarci!”
“L’ho detto a Tommy…”
Scoppiarono a ridere.
“Tommy era già storto all’aperitivo!”
“Non si sarà nemmeno accorto che gli stavi parlando”
“Mi sembrava avesse capito…”
“Non importa, ci vediamo dopo?” chiese Fede mi-mando con la mano il gesto di bere un caffè.
Alzò il pollice in segno di approvazione. Si girò di nuovo verso il professore e continuò a prendere appunti.
Le prime due ore passarono abbastanza velocemente, ma verso la fine un po’ di gente in preda al panico aveva cominciato a fare una serie di domande così improbabili, che pareva che l’organizzazione mondiale per i diritti degli imbecilli avesse indetto per quel giorno la giornata internazionale delle domande idiote e un quarto del suo corso avesse aderito con entusiasmo. Così lui, in controtendenza con quel mucchio di studenti ansiosi e ansiogeni che popolavano l’aula, aveva spento il cervello e si era messo a pensare alle sue cose.
Qualche minuto dopo, o forse anche più, difficile a dirsi, si accorse che il professore lo stava chiamando.
“Bianchi, è con noi questa mattina?”
“Mmm, sì…”
“Ha capito quello che ho detto?”
“Tutto perfettamente chiaro.”
“Altrimenti rifarà l’esame a settembre.”
“Preferirei di no” pensò.
Guardò l’orologio e si accorse che le prime ore di le-zione di quella mattina erano già finite. Lasciò il computer sul banco e si diresse verso le macchinette.
“Cosa ha detto alle fine?” domandò.
“Che se non stampiamo tutto, ci stamperà lui” rispose Fede.
“Stampe a parte, come è andata con la morettina?” domandò il Tonno.
La morettina, una con cui aveva ballato la sera prima, ma non era andata come al solito. Aveva appena conquistato la prima base quando si era ricordato che non aveva ancora cominciato i due articoli per il giorno dopo. Così, con una scusa, l’aveva scaricata, anche se a giudicare dalle movenze sarebbe stata pronta ad offrigli ben più della prima base se solamente fosse rimasto lì ancora un po’, ma il pensiero di perdere lo stipendio aveva avuto la meglio sull’istinto primordiale.
“Almeno ti ricordi come si chiama?” chiese Fede.
“Non saprei.”
“Ma si può sapere come fai a fartene una ogni due settimane?”
Fede non era tipo da una serata e via. Era stato per un po’ con una del suo paese, poi quando lei lo aveva lasciato per un tizio mezzo hippy lui c’era rimasto tal-mente sotto che da quel giorno non era più riuscito ad uscire con nessuna.
“Appena comincio a ballare quelle mi si appiccicano addosso come delle cozze, a quel punto, che vuoi che faccia?”
Si scambiarono ancora qualche battuta sorseggiando lentamente il caffè, poi rientrarono in aula.
Le lezioni furono una vera noia e invece di dar retta ai deliri accademici del professore si mise a finire gli articoli da consegnare al suo capo.
Fede, invece, che stava sistemando alcuni disegni, ad un certo punto alzò lo sguardo per capire a che punto erano arrivati e notò qualcosa di strano nelle file centra-li.
“Ehi, Bianco!”
“Che c’è?”
“Non è la Kati quella là?”
“Dove?”
“In mezzo, davanti a te”
“Sembra lei…”
“Non l’avevo riconosciuta.”
“Sì è tagliata i capelli.”
“Cosa ci fa qui? Non si era iscritta a Brera ? Non avrà cambiato idea?”
“Macché cambiato idea. Sarà venuta a trovare il suo piccioncino, Jaaaacky” rispose il Tonno mentre, tenendo gli occhi fissi sullo schermo del computer, cercava di battere alcuni compagni a Risiko online.
Jacky, “De” Roma, con un accento che persino un cinese sarebbe riuscito a distinguere. Era alto poco me-no di un metro e novanta, occhi castani e il pizzetto tipo Brad Pitt in Fight Club. I capelli, nero carbone, adesso erano corti, ma fino a qualche mese prima aveva dei dread che gli arrivavano fino a metà schiena; visto, però, che alla Kati non piacevano e lui le moriva dietro dal primo giorno che l’aveva vista, quando si erano messi insieme li aveva fatti sparire. Non era particolar-mente bello, anche se non dispiaceva al genere femminile. Era, poi, di quelli che piace avere in gruppo, con quell’ironia da “romanaccio” così lontana dagli schemi nordico-padani che faceva sbellicare tutti dalle risate appena apriva bocca. Tra i molti pregi che aveva, uno era particolarmente apprezzato, specie dai maschietti: se scommettevi di bere un litro di birra in un solo sorso e ci riuscivi, il secondo te lo offriva lui. Non erano grandi amici, lui e Jacky, ma poteva capitare che si trovassero insieme nello stesso bar per l’aperitivo, e allora quattro chiacchere se le scambiavano volentieri.
Adesso, però, Jacky stava con la Kati, e questo gli dava un leggero fastidio, una specie di velata gelosia, più inconscia che dichiarata, tanto che quando si parla-va di loro rispondeva sempre abbastanza freddamente, anche se cercava di non farlo notare. La ragione di tutta quella freddezza era che a lui la Kati un po’ piaceva. In-tendiamoci bene, non ne era innamorato, decisamente no, ma quando si vedevano si scambiavano sempre una serie di battutine che non si sapeva mai come interpretare. E la cosa era continuata anche dopo che lei si era messa con Jacky.
Ultimamente, però, dacché avevano iniziato la magi-strale, non si erano visti più così spesso.
Rientrò a casa quella sera che erano circa le sette. Appoggiò la tracolla accanto alla porta, chiuse a chiave e si gettò sul divano a faccia in giù. Dormì per circa mezz’ora e quando riaprì gli occhi dovette aspettare due minuti abbondanti prima di riuscire a rendersi conto di dove si trovasse. Levò le scarpe mentre era ancora sdraiato e fece una specie di capriola per cercare di sedersi come una persona normale: l’operazione riuscì così bene che si congratulò persino con se stesso e si concesse venti minuti di televisione prima di cominciare a pensare alla cena. Dopo i primi cinque, però, si accorse che dalle sue ascelle proveniva un odore decisamente poco gradevole e decise che era giunto il momento di farsi una doccia. Prima di dirigersi verso il bagno, però, passò dalla cucina, prese una pentola, la riempì d’acqua e la mise a bollire sul fuoco. Attraversò il soggiorno togliendosi maglietta e pantaloni, azione che gli provocò una leggera perdita di equilibrio, ma era abbastanza allenato ed evitò una caduta imbarazzante, si era detto più volte che avrebbe dovuto smettere di farlo, ma non si era ancora impegnato per volerlo davvero. Finita la doccia, che durò giusto il tempo di far bollire l’acqua, con i capelli ancora bagnati e l’asciugamano in vita si avvicinò alla credenza, prese un pacchetto di spaghetti già aperto e, dopo aver gettato una manciata di sale grosso nella pentola, ci versò anche quelli, quasi due et-ti, senza spezzarli. Che senso aveva spezzarli? La lunghezza dello spaghetto era stata calcolata apposta per fargli fare tre giri attorno alla forchetta; se li spezzavi, invece, si riusciva a farne solamente uno, forse uno e mezzo, e il più delle volte scivolavano via dalla forchetta costringendoti a dover ripetere l’operazione da capo.
Gettata la pasta, tornò in camera. Si infilò un paio di boxer, rigorosamente neri, poi indossò un paio di ber-muda cargo e una maglietta bianca dell’Hard Rock Cafe presa a Praga durante una gita scolastica all’inizio della quinta liceo, gita memorabile, soprattutto quando ave-vano rischiato di finire immischiati in una rissa con un gruppo di cechi da cui avevano comprato del fumo senza avere soldi a sufficienza. Per fortuna il gruppo di energumeni est-europei era assai ristretto e a giudicare dalla stazza nessuno di loro sembrava essere un campione olimpico sulle lunghe distanze, così, dopo avergli dato metà del prezzo convenuto, con una mossa alla Ocean Eleven erano riusciti a distrarli e a scappare, se-minandoli qualche isolato prima di raggiungere l’hotel.
Uscito dalla stanza corse in fretta verso la cucina per controllare che gli spaghetti non fossero diventati una palla unica, diede una mescolata e ne assaggiò uno, scottandosi la lingua. Erano pronti. Scolò la pentola e rovesciò il tutto in un piatto fondo. Condì gli spaghetti con un goccio d’olio e si sedette al tavolo a mangiare.
Avrebbe voluto gustarselo quel piatto di pasta, dalla prima all’ultima forchettata, ma dovette sforzarsi: man-giare da solo gli metteva addosso una tristezza insopportabile. Certe volte saltava persino la cena per evitare quella sensazione che gli stringeva la gola e gli chiudeva lo stomaco.
Finito di mangiare lasciò il piatto nel lavandino e si sedette sul divano nella speranza che in televisione dessero qualcosa di decente che gli tenesse compagnia fino a che non si sarebbe addormentato. Stava per iniziare un vecchio film con Clint Eastwood. Film visto almeno una decina di volte, di cui però non si ricordava mai il finale. Spense la luce, abbassò la tapparella e si sedette in tempo per la sigla di inizio.
Bzzz, Bzzz.
Un messaggio.
“Sei ancora sveglio?”
Era la Kati.

Come è nata l’idea di questo libro?
Un po’ per caso, volendo sperimentare la scrittura, ma soprattutto, essendo Salesiano, pensando ai giovani, immersi nei casini universitari e affettivi. Il libro infatti, vuole suscitare simpatia nei confronti del protagonista, portare un po’ di leggerezza in esistenze spesso appesantite da crisi di vario genere, suscitare speranza nei confronti della vita e offrire spunti di riflessione.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Abbastanza, specie all’inizio quando dovevo capire che strada prendere. Di fatto, tutto ciò che riguarda la progettazione narrativa e la scelta della trama principale. Una volta fatto, è andato tutto via abbastanza liscio.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Chuck Palhaniuk (ovviamente in traduzione). Alessandro Baricco (specialmente City).
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Gerusalemme. Prima Milano, Torino, Brescia, Treviglio.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ho in mente e ho iniziato un altro romanzo.
Lascia un commento