
Edito da La Vita Felice nel 2021 • Pagine: 456 • Compra su Amazon
Anime inquiete è un saggio sulla letteratura di viaggio, la cui originalità consiste nell’esplorazioAnime inquiete è un saggio sulla letteratura di viaggio, la cui originalità consiste nell’esplorazione degli interessi e degli stati d’animo peculiari dello sguardo femminile quando questo si posa sui mondi degli altri.
In epoche in cui il viaggio era un’avventura pericolosa e dura anche per i maschi, molte donne lasciarono sorprendentemente casa per esplorare il mondo. Si imbarcarono su vascelli, muovendosi poi sul terreno a bordo di carri, a cavallo, a dorso di bue quando non a piedi, travasandone poi l’esperienza nei propri diari. Attraverso un excursus fra i diari di viaggio di alcune di loro, scritti in un arco temporale di quasi due secoli e mezzo, si dà voce allo sguardo femminile sul mondo e, di riflesso, sui pregi, i limiti e i pregiudizi delle società da cui provenivano.
Anime inquiete parla di viaggiatrici “con la penna”, a partire da Celia Fennes che alla fine del Seicento descriveva le proprie cavalcate solitarie tre le campagne inglesi, per terminare con Alexandra David-Neel, che ai primi del Novecento raggiunse Lhasa, dopo un viaggio a piedi nel Tibet durato cinque anni. Tra questi due estremi temporali, un’altra trentina di viaggiatrici, alcune note altre meno. Ampio spazio è dedicato a Ida Pfeiffer, i cui cinque viaggi servono da cerniera per leggere e interpretare i viaggi e lo spirito di tutte le altre.
Il ruolo dell’autore è quello della voce fuori campo che accompagna il lettore attraverso un patchwork di frammenti selezionati dall’ampia diaristica di queste viaggiatrici, ciascuna col proprio bagaglio di ambizioni, curiosità, paure, pregiudizi, gusti. Ne emerge un quadro in cui le singolarità individuali, le differenti sensibilità, i diversi punti di vista compongono un caleidoscopico sguardo sul mondo. Sebbene non si possa parlare di uno sguardo tipicamente femminile, si osservano temi, interessi, modalità di osservazione e di scrittura in parte specifiche, come sottolineato dal confronto con qualche esempio di sguardo maschile.
Il tema della condizione femminile (il ruolo e le costrizioni di genere vigenti nelle società di appartenenza di ciascuna e che esse ritrovano ovunque nel mondo) è un tratto che le accomuna tutte e costituisce una chiave di volta per definire e interpretare la specificità dello sguardo femminile sul mondo e attraverso il tempo.
Un altro tema, questa volta non legato al genere, è il rapporto tra viaggio e viaggiatore. Un rapporto circolare, dove lo spirito con cui si osserva influenza l’interpretazione e la descrizione di ciò che si osserva. Reciprocamente, gli ambienti attraversati agiscono sull’animo del viaggiatore influenzandone la prospettiva.
Attraverso questo saggio il lettore può compiere un proprio seducente percorso personale (nonché un viaggio nel tempo) osservando con Ida Pfeiffer e le altre, luoghi e mondi che oggi, grazie alla diffusione di innumerevoli testi e immagini, conosce solo nella loro versione “contemporanea”.
ne degli interessi e degli stati d’animo peculiari dello sguardo femminile quando questo si posa sui mondi degli altri.
In epoche in cui il viaggio era un’avventura pericolosa e dura anche per i maschi, molte donne lasciarono sorprendentemente casa per esplorare il mondo. Si imbarcarono su vascelli, muovendosi poi sul terreno a bordo di carri, a cavallo, a dorso di bue quando non a piedi, travasandone poi l’esperienza nei propri diari. Attraverso un excursus fra i diari di viaggio di alcune di loro, scritti in un arco temporale di quasi due secoli e mezzo, si dà voce allo sguardo femminile sul mondo e, di riflesso, sui pregi, i limiti e i pregiudizi delle società da cui provenivano.
Anime inquiete parla di viaggiatrici “con la penna”, a partire da Celia Fennes che alla fine del Seicento descriveva le proprie cavalcate solitarie tre le campagne inglesi, per terminare con Alexandra David-Neel, che ai primi del Novecento raggiunse Lhasa, dopo un viaggio a piedi nel Tibet durato cinque anni. Tra questi due estremi temporali, un’altra trentina di viaggiatrici, alcune note altre meno. Ampio spazio è dedicato a Ida Pfeiffer, i cui cinque viaggi servono da cerniera per leggere e interpretare i viaggi e lo spirito di tutte le altre.
Il ruolo dell’autore è quello della voce fuori campo che accompagna il lettore attraverso un patchwork di frammenti selezionati dall’ampia diaristica di queste viaggiatrici, ciascuna col proprio bagaglio di ambizioni, curiosità, paure, pregiudizi, gusti. Ne emerge un quadro in cui le singolarità individuali, le differenti sensibilità, i diversi punti di vista compongono un caleidoscopico sguardo sul mondo. Sebbene non si possa parlare di uno sguardo tipicamente femminile, si osservano temi, interessi, modalità di osservazione e di scrittura in parte specifiche, come sottolineato dal confronto con qualche esempio di sguardo maschile.
Il tema della condizione femminile (il ruolo e le costrizioni di genere vigenti nelle società di appartenenza di ciascuna e che esse ritrovano ovunque nel mondo) è un tratto che le accomuna tutte e costituisce una chiave di volta per definire e interpretare la specificità dello sguardo femminile sul mondo e attraverso il tempo.
Un altro tema, questa volta non legato al genere, è il rapporto tra viaggio e viaggiatore. Un rapporto circolare, dove lo spirito con cui si osserva influenza l’interpretazione e la descrizione di ciò che si osserva. Reciprocamente, gli ambienti attraversati agiscono sull’animo del viaggiatore influenzandone la prospettiva.
Attraverso questo saggio il lettore può compiere un proprio seducente percorso personale (nonché un viaggio nel tempo) osservando con Ida Pfeiffer e le altre, luoghi e mondi che oggi, grazie alla diffusione di innumerevoli testi e immagini, conosce solo nella loro versione “contemporanea”.

«Diavolo di una Marmolada» – esclamò Giovanni – «le signore sono arrivate appena in tempo, ma hanno potuto vederla “pulito”». Questa parola “pulito” in tutta la zona del Tirolo viene usata indiscriminatamente col significato di chiaro, brillante, riuscito, comprensibile o in una dozzina di altre accezioni: il cammino procede “pulito”; i nuovi stivali stanno proprio “pulito”; abbiamo compiuto un’escursione “pulito”. Si tratta dunque di un vocabolo molto elastico, ricco di infinite sfumature ma, proprio per questo, terribilmente sconcertante per uno straniero.
L’incontro coi valligiani pone importanti spunti di riflessione sui condizionamenti culturali e sui processi mentali che determinano, in alcuni specifici gruppi sociali, la conoscenza del mondo e la visione complessiva che se ne ricava. Il viaggiatore che scrupolosamente prende nota di tali incontri compie un’operazione di interesse etnografico o antropologico. Ricordiamo, per esempio, che la Pfeiffer narrava di quanto fossero stupiti i “selvaggi” nel vederla raccogliere insetti. “Ma perché lo fa, se poi non li mangia”, sembravano pensare, ma poi collaboravano attivamente alla raccolta. Anche Alfred Wallace, in L’Arcipelago Malese, narra di indigeni stupiti ed increduli che egli fosse partito da un luogo tanto lontano come l’Inghilterra per andare a trovarli e, non sapendo neppure dove l’Inghilterra si trovasse, guardando a Wallace fantasticavano di una sua presunta origine divina. Il medico Aleksandr Lurija, inoltrandosi nei luoghi più sperduti della steppa russa, aveva incontrato contadini talmente isolati da non possedere neppure la categoria mentale corrispondente al concetto di “città”, non avendone mai vista una e non conoscendo nessuno che vi si fosse mai recato. Qualcosa di analogo accade anche ad Amelia Edwards tra le valli dolomitiche.
Mentre stavamo disegnando il panorama, incontrammo le solite difficoltà nel tenere lontano i curiosi: una vecchia in zoccoli di legno, dopo aver assistito a lungo dalla porta di casa, si avvicinò con passo strascicato e si mise ad osservare il disegno con una comica espressione di sbalordimento.
«Perché lo fate?» domandò, puntando un dito ossuto e guardandomi di lato come un corvo. Risposi che disegnavo quelle montagne per poterle ricordare quando fossi ripartita.
«E questo ve le farebbe ricordare?» disse incredula. Le risposi che quello era lo scopo del disegno, non solo, ma mi proponevo di mostrarlo a molti miei amici che non erano mai venuti in questi luoghi.
Ciò, ovviamente, era più di quanto essa potesse credere.
«Da dove sono venute?», domandò poi, dopo una lunga pausa.
«Da un paese di cui avete certamente sentito parlare più volte», risposi, «dall’Inghilterra».
«Dall’Inghilterra?! Gesù Maria! Dall’Inghilterra! E dov’è l’Inghilterra? È vicina a Milano?».
La risposta che l’Inghilterra è molto lontana da Milano e proprio nella direzione opposta, la rese così confusa che, ammutolita, tornò sui suoi passi scuotendo la testa e zoppicando goffamente. A metà strada si arrestò improvvisamente, rifletté un istante e ritornò indietro per un’ultima domanda. «La verità per favore: perché sono venute fin qui? Qual è la ragione del loro viaggio?». A ciò risposi semplicemente che il nostro scopo era visitare il paese.
«Visitare il paese?» ripeté stringendo le mani avvizzite. «Gran Dio! Non ci sono dunque montagne in Inghilterra? Non ci sono alberi?».
Un altro incontro con valligiane fornisce la misura della distanza culturale tra l’Inghilterra e le valli dolomitiche. Gli sguardi delle donne e i loro commenti stupiti non sono molto lontani dagli sguardi e dai risolini altrettanto stupiti dei Dyak del Borneo o dei nativi delle foreste brasiliane quando incontravano l’ineffabile madame Pfeiffer. Quanto allo stile della scrittura, non si può non notarne il brio e la leggerezza che inducono il lettore ad uno spontaneo sorriso, come se stesse assistendo di persona alla scena.
Scendemmo ad un piccolo albergo sulla strada, malandato come mai ne avevamo incontrati, ma pulito e aerato. I muli ricevettero una abbondante razione di granturco e agli uomini venne servito pane e vino. Non appena fummo accompagnate al piano superiore, in una stanza imbiancata da poco, accendemmo subito il nostro fornellino “Etna”, per sciogliere un dado Liebig. Le donne della casa, ed erano ben quattro, dopo aver provveduto al vino e al formaggio, ci seguirono nella stanza dove stettero a guardare a bocca aperta e con febbrile curiosità tutto quello che facevamo. Sembravano bambini che osservavano i movimenti di due animali selvatici, rinchiusi in gabbia. Esaminarono i nostri cappelli e i nostri mantelli, gli ombrelli e gli oggetti personali. L’”Etna” suscitò una sorta di incredula meraviglia e il cannocchiale di L., appoggiato nel vano della finestra, dovette apparire, tanta era la diffidenza nei loro occhi, come una specie di macchina infernale che potesse scoppiare all’improvviso e far esplodere la casa intera. Una di queste giovani donne, la più rotonda e colorita, forse la padrona di casa, emergendo da uno sbalordito mutismo, proruppe in un profluvio di domande, ripetendo poi alle compagne, con aria trionfante, le mie risposte, mentre impietosamente mi trapassava con lo sguardo. Da dove venivamo? Da Forno di Zoldo! Si, si (lo sapeva già, gli uomini dovevano averglielo detto). Ma prima di arrivare a Forno? Da dove venivamo? Da Caprile! Oh, si (sapeva anche questo). Ma prima di Caprile? Venivamo certamente da lontano. Per esempio: dove eravamo nate? In Inghilterra… In Inghilterra! Madonna! In Inghilterra! A questo punto alzò le braccia e le altre la imitarono.
«Ma sono venute così dall’Inghilterra?».
Che cosa intendesse, dicendo “così”, era impossibile capire: pensava probabilmente che avessimo cavalcato i due Nessol durante tutto il viaggio, per mare e per terra, ciascuna di noi con una piccola borsa nera come unico bagaglio. Risposi semplicemente con un cenno del capo.
«Santo Spirito! E sole? Proprio sole?». Di nuovo un cenno negativo per evitare spiegazioni.
«Oh poverine! Poverine! Sono sorelle?». Un cenno negativo del capo.
«Sono sposate?». Altro cenno e fummo al colmo della costernazione.
«Come, non sono sposate? Nessuna delle due?».
Nessuna delle due, risposi ridendo.
«Gran Dio! Sole e non sposate! Poverine! Poverine!».
E tutte in coro gridarono “poverine” con un tono di commiserazione così sincera che ancora oggi ci vergogniamo della irresistibile risata con la quale accogliemmo la loro espressione di cordoglio.
Quel “Poverine! Poverine!”, assieme alla “irresistibile risata” della narratrice, apre con grande leggerezza una finestra sul ruolo della donna in una società patriarcale chiusa – come quella che ben si può immaginare tra le valli dolomitiche – nella quale non è forse neppure immaginabile un modo diverso di vivere e nella quale neppure esiste una categoria mentale ove collocare un diverso modo di vivere la questione di genere, figurarsi poi la possibilità di intrattenere, se non quasi palesare, una relazione intima con una persona del proprio sesso.

Come è nata l’idea di questo libro?
Ho incontrato Ida Pfeiffer, la viaggiatrice austriaca cui dedico la prima parte del saggio, durante un viaggio nel Borneo. Viaggio di fantasia, ovviamente, mentre seguivo le tracce di alcuni naturalisti dell’Ottocento: primo fra tutti Alfred Wallace e poi l’italiano Odoardo Beccari. Furono loro, per primi, a stupirsi di come una donna, da sola, si fosse avventurata in quei luoghi cosi aspri, difficili e pericolosi anche per i più esperti esploratori maschi. Mi appassionai alla lettura dei diari di viaggio di questa donna stupefacente, che compì, tra l’altro, due giri completi del mondo. Poi, ingolosito, cercai i diari originali (quasi nessuno dei quali tradotti in italiano) di molte altre viaggiatrici che hanno calcato le strade del mondo tra il Seicento e il Novecento. Ho scoperto un mondo – e un modo di osservare le cose – a me del tutto ignoto e, a dir poco, straordinariamente appassionante. Così facendo, ho collezionato una cinquantina di diari di trenta viaggiatrici di ogni tempo. Nel saggio riporto frammenti dei loro diari. Quanto a me, presto la mia penna come voce narrante che commenta e lega tra loro le avventure di queste meravigliose signore.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Ho accennato al fatto che pochissime opere delle trenta viaggiatrici sono state tradotte in italiano. La parte più ardua è stata quella di procurarmi i diari originali, pubblicati in gran parte nell’Ottocento e in lingua inglese e francese. Per fortuna che c’è Internet, mi dicevo! Ho infatti trovato la grandissima parte del materiale in riproduzioni digitalizzate dei testi originali. La seconda fatica è stata quella di tradurre tutto il materiale, di cui solo una piccola parte è entrata nel saggio. Infatti, pur non sapendo computare con esattezza le pagine che mi sono letto, credo che queste non siano state meno di 50.000. Il reperimento e la traduzione del materiale hanno richiesto circa tre anni di lavoro. Si è trattato poi di dare a tutto ciò una forma fruibile e di lettura godibile. In questa penosa e faticosa opera di “taglio e cucito” sono stato aiutato dai giovani editor (che non ringrazierò mai abbastanza) di Masterbook, una scuola di formazione editoriale. Il loro aiuto e quella della loro tutor sono stati fondamentali per dare leggerezza e leggibilità al saggio.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Ho compiuto settantadue anni da poco e sono un lettore compulsivo che legge da trenta a cinquanta libri all’anno. Difficile dire quali siano i miei autori di riferimento, anche perché nella mia vita ho attraversato due stagioni molto diverse tra loro. Nella mia prima vita ho esercitato la professione di medico ospedaliero, motivo per cui le mie letture erano prevalentemente di stampo scientifico, mai tralasciando però opere anche di stampo antropologico o filosofico, che mi hanno accompagnato da sempre. Nella mia seconda vita mi sono occupato anche di saggistica pubblicando prevalentemente biografie di uomini di scienza. Nel mio bagaglio narrativo ci sono moltissimi classici dell’ottocento e del novecento, dagli autori russi, a Musil, a Proust, ma anche a Oliver Sacks, Buzzati, Kundera, Grass, Böll, Thomas Mann, Ewan, Franzen, e via dicendo. Se la domanda vuole alludere a un eventuale stile di riferimento, la mia risposta è “no, non ho uno stile di riferimento”. Se questo poi sia un pregio o un difetto, non sta a me dirlo.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nato a Milano da genitori genovesi. Mi sono sempre sentito milanese, senza però mai percepire in me radici profonde per questa città e per il suo territorio, che pure frequento quotidianamente e amo. Oggi, chissà come e perché, sento emergere con una certa prepotenza le antiche radici genovesi e provo una certa nostalgia “mediterranea”. Ho lavorato a Milano, Genova, Monza, Casale Monferrato, Alessandria. Pur avendo mantenuto sempre casa e famiglia a Milano, ho avuto modo di vivere in luoghi nei quali mi sentivo un po’ a casa e un po’ straniero. Sarà forse per questo che ho trovato nell’animo viaggiatrici una sorta di specchio nel quale riflettermi? Chissà.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sto duramente lavorando a due progetti. Il primo (e anche qui le pagine da leggere e da tradurre sono ben più di 50.000) è un tentativo di rilettura biografica della vita avventurosa di James Brooke, il Rajah bianco di Sarawak (Borneo) (ecco che ci risiamo col Borneo!). Personaggio controverso, James Brooke, ben al di là della caricatura che ne diede Salgari nei suoi libri sui pirati della Malesia. Fu avventuriero e conquistatore nell’epopea dell’epoca coloniale inglese. Ma fu anche animato da sani principi umani, antischiavista e contrario ad uno sfruttamento coloniale irrispettoso dei nativi che non tenesse in debito conto le loro esigenze umane e culturali. Ho conosciuto anche lui attraverso i diari di naturalisti ma anche attraverso i diari di Ida Pfeiffer, e qui torniamo con una non voluta circolarità al saggio Anime Inquiete. Il secondo progetto è un tentativo di autobiografia. Cosa di per sé ridicola, penso, perché non sono famoso e la mia vita può interessare a ben poche persone che non siano i miei parenti più stretti. Tuttavia, ripensare ai miei passi su questa terra è un’occasione che non voglio perdere per mettere sotto la lente d’ingrandimento gli atti, gli errori e la coscienza che mi appartengono. Il tutto, nel suo contesto naturale, quello di un’epoca, la seconda metà del novecento e i primi vent’anni di questo secolo, un periodo in cui le piccole storie individuali si sono mescolate alla grande Storia, in un’epoca economicamente e socialmente molto dinamica, per non dire convulsa.
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