
Edito da Masciulli editore nel 2021 • Pagine: 235 • Compra su Amazon
Anita è una donna segnata dal dolore e dalla passione, abitata da immagini impetuose e seducenti, piena di vita. La sua esistenza è una lunga sequenza di traversie, ma anche di felicità e di luce. Vive sempre agli estremi, oscillando dalla gioia allo smarrimento più profondo. Anita è una donna che non si rassegna mai e combatte per realizzare tutti i propri sogni. Vive con intensità i passaggi tragici quanto quelli più spensierati e questa grande forza la porta a raggiungere momenti di magia.
Le sue vicende attraversano fenomeni distanti nello spazio, nel tempo e nella storia politica – la seconda guerra mondiale e il nazifascismo, il conflitto israeliano-palestinese fino all’intifada del 1987, l’avvento della dittatura militare in Brasile e la sua caduta nel 1984, il Sessantotto e gli strascichi nei Centri sociali di una Milano contigua a quella “da bere”, dell’alta moda, del craxismo, degli yuppies e poi di Tangentopoli, l’orientalismo e le vie di fuga nell’esotismo dell’India e dello Yoga.

I due pappagalli, Ana e Amadeu, dal piumaggio variopinto rosso scarlatto, blu chiaro e giallo erano abbarbicati su una delle tre palme a godersi il sole. Sembrava stessero rimproverando qualcuno con i loro versi acuti e le grida profonde e rauche che squarciavano la tranquillità dell’assonnato pomeriggio.
Manuela, la tartaruga a zampe rosse che aveva appena divorato una foglia, se ne stava solitaria sotto l’amaca vuota. Le quattro piccole anatre, le ultime arrivate, correvano confuse avanti e indietro alla ricerca del refrigerio di uno specchio d’acqua che non riuscivano a trovare.
Il giardino era una selva odorosa di fiori rossi, gialli, rosa tenue e di tutte le forme.
Le piante erano ornate di foglie verdi e striature rosate molto sottili, alcune con riflessi porpora; altre erano arabescate dalle forme e dai colori più incredibili.
In mezzo a quel piccolo eden profumato sorgeva la casa a due piani, dove Anita viveva con la sua famiglia. L’abitazione aveva un aspetto molto decoroso e da lì provenivano sempre rumori indistinti di voci, musica e lamenti vari.
Al piano terra, nella sala da pranzo, c’erano i due fratelli, sempre scalmanati e seminudi, Jorge di quattordici anni e Paulo di tredici. Stavano litigando, avvinti in una lotta corpo a corpo, per una maglietta giallo-oro recante il numero cinque del calciatore Paulo Roberto Falcão, il loro idolo.
Graffi, morsi e calci a profusione, colpi e sbattimenti contro le pareti: i due ragazzini urlavano inferociti, insultandosi a vicenda. Il sangue fiottava dai loro nasi, ma non si arrendevano, si rotolavano avvinghiati sul pavimento, ringhiandosi parolacce e improperi.
«Ladro, sei un ladro!», l’insulto del fratello maggiore.
«La maglietta è mia!», replicava piangendo Paulo.
«No, è mia!», precisava Jorge.
«Non la indosserai mai più!», minacciava fortemente il fratellino.
«Sei un moccioso!»
«Sei cattivo e invidioso!»
«Ti conosco bene! Hai fatto la spia, ecco perché mamma ti ha comprato la maglietta!», lo accusava Paulo.
«Nooooo! Non è vero! Me la sono meritata, perché a differenza tua, ogni tanto io studio!», si era difeso Jorge.
«Sei il solito prepotente!», gli urlò Paulo.
Il combattimento durò finché la maglietta, a furia di tirarla da un lembo all’altro, con buona pace di entrambi si strappò e fu tregua.
Erano ansimanti e sudati, si sedettero a gambe incrociate per qualche minuto, giusto il tempo per riprendere fiato per poi iniziare a giocare a palla, usando i piedi, le cosce, la testa e le spalle.
Jorge era bravissimo e stava insegnando a Paulo a palleggiare, facendogli un elenco di raccomandazioni:
«Non bloccare le ginocchia!»
«Rimani in equilibrio sulle punte!»
«Tieni il piede sinistro ben saldo a terra!»
«Piega le ginocchia!»
«Gli occhi dritti sulla palla!»
Paulo sbagliava, ma instancabile continuava a provare. Per tutta la casa si sentiva l’eco delle pallonate e le esortazioni di Jorge, allenatore provetto:
«Non così, Paulo! Lasciala rimbalzare!»
Adriane aveva diciotto anni ed era la sorella maggiore. Chiusa in bagno, ammirava compiaciuta il suo corpo sinuoso e i lunghi capelli biondi, guardandosi allo specchio mentre ascoltava i Queen ad altissimo volume. A tratti ballava, facendo salti equini e poi assumeva pose languide, soddisfatta della sua avvenenza. In attesa di un appuntamento galante, mirava e rimirava l’orologio che aveva al polso.
Anita, la più giovane, aveva tredici anni e se ne stava sprofondata nel letto a causa del caldo, con gli occhi aperti nell’ombra della stanza, ascoltando le voci e i rumori della casa che le sembravano provenire da un altro mondo talmente era assorta a fantasticare. Aveva appena terminato la lettura de Il giro del mondo in 80 giorni e con la mente, in preda alla suggestione, era in viaggio nei luoghi del romanzo visitati da Fogg e Passepartout.
Prometteva a sé stessa che un giorno anche lei avrebbe conosciuto quei paesi e quelle città.
Appassionata di libri di viaggi e di avventura, amava leggere seduta davanti alla finestra della sua camera che condivideva con Jorge e Paulo.
Adriane era l’unica ad avere avuto la fortuna di possedere una camera tutta per sé.
Di tanto in tanto, mentre leggeva, Anita distoglieva lo sguardo dalla pagina per fissare l’orizzonte che aspirava a valicare. Il mondo che si trovava al di là di quella linea le appariva pieno di promesse fantastiche.
Desiderava andare lontano e invidiava la capacità di volare di Ana e Amadeu; avesse posseduto anche lei le ali avrebbe spiccato subito il volo verso altre terre, distante dalla sua strampalata famiglia. Osservava sospirando l’oceano e la spiaggia a due passi da lei e i suoi amati animali, pensando che solo loro le sarebbero mancati.
Il resto no, tutto il resto no e poi no, diceva a sé stessa, non mi mancherete assolutamente!
Come ogni giorno, la madre Tina era in cucina, la stanza dove trascorreva la maggior parte del suo tempo a preparare frittelle di fagioli, riso e stufati vari di carne, verdure o pesce, per la famiglia e per gli ospiti della piccola locanda di cinque stanze che gestiva personalmente per mantenere i figli.
Il clima era torrido, il cielo abbagliante palpitava di luce. La sabbia bianca e la spiaggia all’ombra degli alberi da cocco scintillavano come diamanti. L’aria in casa era impregnata dell’odore salmastro dell’oceano e di olio fritto di arachidi. E mentre scodellava in una temperatura da bagno turco, Tina urlava:
«Jorge, Paulo smettete di litigare!»
E poi:
«Adriane, è da un’ora che sei chiusa in quel bagno! Spegni la radio, mi stai fracassando il cervello con quella musica!»
Infine:
«Anita, dove sei? Sei defunta?»
Le sue urla erano udibili anche dalla spiaggia, ma non riceveva mai una risposta dai figli, prostrata dalla stanchezza e dal nervosismo, asciugandosi il sudore con la mano, inveiva contro il clima:
«Maledetto caldo!»
Era poco temuta e ancor meno ubbidita, ciò le procurava disagio e un senso d’impotenza.
Nei suoi begli occhi bruni e profondi si leggevano antichi rancori repressi che a stento riusciva a contenere. Ogni tanto riceveva la visita di Gabriela, vicina di casa e amica intima.
Le due donne si trasferivano in giardino a prendere il caffè sotto l’ombra del banano e per godere di un po’ di fresco e di privacy. L’anziana Gabriela raccoglieva da anni le confidenze e gli sfoghi di Tina. Le loro conversazioni incominciavano con gli ultimi avvenimenti della loro telenovela preferita.
«Noooo! Povera Isaura! Quanto mi dispiace di essermi persa queste puntate così importanti! Sono così impegnata ultimamente che non riesco nemmeno ad andare in bagno!»
Gabriela la guardava con preoccupazione:
«Lo vedo, figlia mia! Sei troppo sciupata! Impara a delegare. I ragazzi sono grandi ormai. Li vizi troppo!»
Tina, fingendo di non capire, ritornava alla telenovela:
«Io credo che alla fine don Miguel la salverà!»
Gabriela sorrise e con un tono di dolce rimprovero, la redarguì:
«Oh, benedetta figliola! Abbi cura di te e ricorda che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire! E salva te stessa dall’egoismo altrui!»
«Ma a chi ti riferisci esattamente?! Sii più chiara!», le chiese ingenuamente.
«Lo sai benissimo di chi sto parlando. Alza la voce e fatti sentire!»
«Non è questo il punto. A furia di urlare, a volte divento afona.»
Gabriela la guardò con tenerezza.
Di ritorno da una partita di calcio e in compagnia di una flotta di ragazzini, Jorge e Paulo rientravano a casa, violando la quiete del giardino con le loro voci baritonali. Salutarono distrattamente la madre e Gabriela, dirigendosi affamati in cucina.
Tina stava per dire all’amica qualcosa, a proposito dei ragazzi, quando dalla finestra di Adriane si affacciò un giovane a torso nudo, mai visto prima di allora:
«E quello chi è?»
Si udì la voce di Adriane che chiamava il ragazzo:
«Leoncio, vieni!»
Gabriela ridendo le chiarì:
«È Leoncio, Tina, è Leoncio!»
La donna reagì con un gesto di disperazione, coprendosi il viso con le mani.
L’amica continuò:
«Vedi, mi riferivo a questo… Non è ammissibile che i tuoi figli si comportino come se vivessero da soli. Ignorano la tua presenza. Non sapevi che in camera di Adriane, nella tua casa, ci fosse uno sconosciuto!»
«No, Gabriela! La questione è che io mi sono alzata alle quattro per preparare la colazione per gli ospiti della locanda. Poi ho dovuto incontrare la nuova ragazza che da domani inizierà ad aiutarmi nelle pulizie delle camere. Sono andata a fare la spesa e alle undici mi sono di nuovo messa a sgobbare in cucina. In casa non si sentiva nemmeno il ronzio di una mosca. Li immaginavo tutti in giro. Non mi reggo in piedi dalla stanchezza! Cos’altro posso fare?»
Gabriela l’ascoltò, annuendo col capo.
«Fai troppo, Tina! Fai davvero troppo!», le rispose
«Ma considerando i risultati ottenuti, è come se non facessi niente! A volte penso che Karl abbia ragione…»
Gabriela trasalì e stizzita la rimproverò:
«Oh, questa è una battuta davvero divertente, Karl ha ragione! Ma fammi tacere, per favore. Sai quello che penso!»
Tina fece un sospiro e pregò l’amica:
«Infatti, so quello che pensi. Ti supplico non parliamo di lui. Voglio distrarmi adesso. Continua a raccontarmi delle puntate perse de La schiava Isaura!»
Gabriela si arrese:
«E va bene! Sei incorreggibile!»
Riprese a narrarle le gesta di Isaura, ma Tina a un tratto l’interruppe:
«Ma che ci sto a fare qui? Ho sbagliato tutto!»
La donna esitò, lisciandosi la lunga gonna a fiori, prima di risponderle:
«Tina, hai ancora tanta vita davanti a te. Puoi fare molto. Puoi ancora fare tutto!»
Lei sorrise rinfrancata dalle parole dell’amica.
Karl, alto e gigantesco, il padre dei ragazzi e marito di Tina, distante da tutti e tutto, rinserrato nel suo studio, era assorto a leggere uno dei suoi libri incomprensibili. Stava studiando l’Impero romano. Era un appassionato di Storia.
Nessuno aveva accesso a quella stanza. A notte fonda, quando andava a dormire, la chiudeva a chiave.
Solo una volta, avendo bevuto più del solito, se ne dimenticò e i figli erano riusciti a intrufolarsi.
La finestra era coperta da una pesante tenda color cremisi che rendeva lugubre l’ambiente.
La stanza sembrava appartenesse a un’altra casa e a un altro tempo. Le pareti erano occupate completamente dalla libreria. C’erano centinaia di testi rilegati con preziose copertine in pelle, tutti scritti in tedesco, lingua che nessuno di loro conosceva per volontà paterna.
L’uomo ignorava a tal punto le esistenze dei figli che spesso domandava alla moglie:
«Ma questi ragazzi vanno a scuola?»
Karl era un emigrato tedesco, ma non parlava mai del suo passato. La sua vita in Europa era avvolta dal mistero. Non raccontava niente delle sue origini e Anita nel suo diario segreto definiva il padre “l’uomo senza passato”.
In realtà stava sempre zitto, tranne che per rimproverarli o per litigare furiosamente con la moglie.
Quei due non riuscivano a stare insieme senza discutere e farsi pesanti recriminazioni:
«Ti ho sposata solo per aver la prova di non essere morto. Potevo prendermi un gatto anziché scegliere te. Maledetta sorte!»
E lei:
«Ti ho sposato perché non avevo niente e nessuno. Ero disperata, ma era preferibile la morte a questo inferno.»
Quando erano piccoli, i figli ascoltavano timorosi, a testa bassa, senza capire. Ma ormai erano grandi e comprendevano che Karl e Tina si odiavano.
Con il trascorrere degli anni, la famiglia non stava più insieme nemmeno durante i pasti.
Crescendo Adriane, Jorge, Paulo e Anita avevano preso l’abitudine di mangiare nelle loro rispettive camere per non dover ascoltare e subire le parole al vetriolo dei genitori.
«Ma li hai visti come sono sporchi?»
«Che razza di madre sei!?»
«Sei una donna incivile!»
«I loro visi unti mi tolgono l’appetito!»
«Sei allergica all’acqua?»
«Ma quanta polvere c’è in questa maledetta casa?! Non riesco a respirare!», e poi simulava di tossire.
Tina, a occhi bassi fissando nel suo piatto, non rispondeva a quelle esplicite provocazioni.
E lui continuava:
«Ogni tanto abbi cura dei tuoi figli. Te ne stai tutto il giorno a guardare quella stupida telenovela senza far niente! Sei un’analfabeta! Ho sposato una fallita. Sei utile quanto una mosca. Sei un flagello di Dio!»
A quel punto, sommersa dalle invettive sempre più offensive, Tina stringeva i pugni, alzava lo sguardo e con una voce straziata gli urlava:
«Io sono una presenza inutile? E tu? Tu? Tu che te ne stai tutto il giorno chiuso in quella maledetta camera a oziare, sei un esempio di virtù? Taci! Mi hai rovinato la vita!»
«Ignorante! Lo studio è la più sacra delle attività, non è ozio!»
Poi si alzava e prendendo un lembo della tovaglia rovesciava i piatti sul pavimento, mentre Tina scappava in bagno a piangere e a vomitare.
I bambini a quel punto si erano già nascosti sotto il tavolo per la paura, aspettando che la bufera si calmasse, prima di uscire allo scoperto.
Negli ultimi tempi anche Karl si faceva portare i pasti nel suo studio, per non vedere le facce di Tina e dei ragazzi che chiamava in modo sprezzante “gauchi” e mai con i loro nomi.
La frase più gentile che dicesse, per riferirsi ai figli, era:
«Selvaggi! Siete dei selvaggi!»
Trovava insopportabile la loro esuberanza giovanile. Se infastidito dai loro schiamazzi, usciva dalla sua tana brandendo in aria un bastone da passeggio:
«Animali, state zitti!», li ammoniva.
Poi sbatteva i pugni contro i muri e minacciava:
«Bestie silenzio! Giuro che vi ammazzo! Dove siete?!»
Quelli scappavano, mimetizzandosi tra le piante del giardino, perché sapevano che non li avrebbe rincorsi fin lì. Avevano scoperto che il padre temeva la visione della luce, perché faceva male ai suoi occhi, diceva sempre.

Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea di scrivere Anita è nata in un afoso pomeriggio d’estate, conversando di amori e altri disastri del passato con una mia carissima amica brasiliana. Lei stava per partire, vive in Australia, e d’impeto le ho promesso che il mio prossimo libro sarebbe stato ambientato in Brasile. Infatti la prima parte del romanzo si svolge nel Paese di Lucy, la mia amica.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Non è stato difficile, è stato bello. Ho ripercorso momenti storici del Novecento e io amo la storia e le dinamiche psichiche e sociali dei giovani, attraverso le loro relazioni amorose e di amicizia. I giovani mi entusiasmano, sono fantasiosi e fonte di ispirazione, perché li associo al tutto è possibile.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Da sempre, sono una lettrice compulsiva. Prediligo i classici, ma sono anche molto interessata alla letteratura contemporanea. Dei miei autori di riferimento ne cito solo alcuni per essere breve: Dostoevskij, Musil,Saramago, Doris Lessing e Proust, scrittori monumentali e inimitabili.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nata in Calabria, ma vivo a Roma da molti anni.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Per il futuro ho in programma un nuovo romanzo che già sta vagando nella mia mente e in autunno inizierò a scriverlo.
Lascia un commento