Edito da Armando Editore nel 2016 • Pagine: 80 • Compra su Amazon
Anna ha quasi dodici anni e abita nella periferia di una grande città. Ha una famiglia numerosa, due sorellina gemelle, un fratello adolescente. Eppure dopo la morte della nonna si sente proprio sola. Con la fantasia si crea un mondo tutto suo dove può vivere avventure fantastiche. Un cavallo dalla criniera d’oro e una gemella un po’ brontolona le fanno compagnia, anche se riesce a vederli solo lei. I personaggi dei libri sono i suoi unici amici.
Ma poi, in un’estate magica, incontra un cane randagio e Bombo, un ragazzino nomade. Con loro entra nel mondo reale, vive avventure che la fanno toccare la felicità e il dolore. Il cagnolino rischia di annegare, il campo di Bombo viene incendiato.
Quando le sembra che tutto sia perduto, Anna scopre che i suoi genitori sono con lei, e insieme ridanno colori brillanti alla vita.
Ciao! Io sono Anna.
E tu chi sei? Sei una bambina come me, un bambino, o una persona grande che ama i bambini?
Chiunque tu sia, voglio prenderti per mano, e accompagnarti in un’estate che proprio non potrò dimenticare.
Quest’estate ho riso e pianto, mi sono spaventata tantissimo, ho avuto la luna storta e la voglia di conquistarla, la luna.
E poi ho scoperto una cosa importante: se io non faccio finta, quelli che mi vogliono bene lo capiscono, e smettono di fare finta anche loro.
Partiamo?
Abito in un appartamento piccolo in un grande palazzo, con la mia famiglia numerosa: figurati che siamo in sei!
Irene, la mia mamma, assomiglia a una Barbie dopo che ci hai giocato tanto, con i capelli stropicciati e i vestiti un po’ spiegazzati. Mauro, il mio papà, ha gli occhi e i capelli così scuri che sembra un arabo come il padre di Mohammed, ha soltanto la pelle un pochino più chiara. Poi c’è mio fratello, che ha quindici anni, alto come una giraffa, magro come una sogliola, con i capelli che sembrano la cresta di un gallo, e la faccia piena di brufoli. Sai, lui si chiama Michele, ma vuole che lo chiamiamo Maic. Le ultime arrivate sono Linda e Marta, gemelline uguali uguali che hanno da poco compiuto un anno; hanno occhi celesti e ricciolini d’oro come gli angeli dipinti sul muro della chiesa: non ti sembra strano per due diavoletti scatenati?
Maic se va sempre in giro con quei suoi amici, e meno male, perché quando è in casa è un disastro: si aggira dondolando con le cuffie dell’I-Pod, divora e sparpaglia patatine dappertutto, si stravacca sul divano davanti alla tele a guardare tutti quei telefilm pieni di urla e sangue, dove la gente e i mostri sparano fanno a botte e si accoltellano, oppure fa finta di fare i compiti e si piazza davanti al computer, a fare giochi pieni di sangue e urla, dove i mostri e la gente fanno a botte si accoltellano e sparano. Se gli chiedo di giocare con me mi manda a quel paese con delle parole vietatissime. Però nessuno lo sgrida. Che barba essere la sorella piccola!
Le gemelle hanno appena imparato a camminare, si dicono parole che capiscono solo loro, tipo babua e cacihchi, e il loro passatempo preferito è fare un baccano infernale e distruggere tutto quello che trovano intorno; pensa che una volta hanno provato addirittura a scarabocchiare i miei libri. Allora sono diventata davvero una tigre! Ho sentito che la mia faccia diventava bollente, mi sono messa a urlare quasi come il papà. Dovevi vederle: sono scappate tra le gambe della mamma frignando come agnellini. E invece di sgridarle, sai cosa ha fatto lei? Le ha consolate! L’unica cosa che ha saputo dirmi è stata: «Sono piccole, Anna, devi avere pazienza». Che barba essere la sorella grande!
Insomma, avrai capito che è meglio non restare in casa. Almeno in questa casa. Al pomeriggio faccio in fretta i compiti e poi scendo di corsa i quattro piani di scale e mi tuffo nel mio mondo un po’ magico, dove vivo da sola un sacco di avventure con i personaggi incontrati nei libri.
Be’, non sono proprio sola: c’è Raggio di Sole, e poi c’è Amalia, la mia gemella. Non te l’ho presentata? È una gemella segreta, non lo sa nessuno che c’è. Quando sono nate Linda e Marta mia nonna era morta da poco, la mamma piangeva sempre, e il papà, costretto a restare a casa per aiutarla a curare le neonate, urlava e brontolava con tutti. Proprio allora è arrivata la mia gemella a farmi compagnia.
Io e Sogno abbiamo un appuntamento fisso. Ogni giorno, alle cinque, ci incontriamo sotto il salice piangente.
Quando aiuto la mamma a sparecchiare metto di nascosto gli avanzi in un sacchetto di plastica. Magari aggiungo anche qualcosa che c’è in frigorifero, senza farmi vedere. Così posso portare la pappa a Sogno. E lui, che è magro e goloso come Maic, si divora tutto in un attimo.
Poi giochiamo: gli lancio un rametto, va a prenderlo, me lo riporta, e, seduto col muso storto, aspetta che io lo butti di nuovo. Facciamo insieme delle corse che ci lasciano senza fiato, sul prato, tra gli alberi, lungo la riva del fiume. E quando siamo stanchissimi ce ne torniamo sotto il salice. Io mi siedo, con la schiena appoggiata al tronco, e prendo dallo zaino un libro; Sogno si sdraia vicino a me e mi appoggia il muso sulle gambe. Mentre leggo a voce alta lo accarezzo, e i suoi occhi dorati e lucidi mi fissano, proprio come facevano le gemelline quando guardavano la mamma che le allattava. Piano piano il mio cagnolino si addormenta. Sono sicura che sogna: fa mugolii e muove le zampe, come se corresse ancora con me lungo la sponda del fiume.
Però a volte, nel sonno, ringhia o guaisce, perso in qualche incubo. Quando riapre gli occhi gli chiedo dolcemente: «Sogno, da dove sei arrivato? che cosa ti è successo?». È vero che i cani non parlano, però io la sua storia un po’ l’immagino, quando lo guardo dormire così. Non dev’essere stata una storia felice, e anche per questo mi dispiace tanto lasciarlo solo, la sera.
Vedi come piove?
Per me i giorni di pioggia sono la cosa più brutta, adesso. Meno male che sono pochi, in questo bellissimo maggio. Quando piove la mamma non mi fa uscire di casa, e me ne sto alla finestra a guardare il prato, gli alberi e il fiume, che non hanno più nessun colore. Immagino Sogno che mi aspetta per ore e poi se ne va deluso, solo, affamato, bagnato fradicio. Mi viene da piangere, sai, proprio come due anni fa, quando la nonna Maria era all’ospedale, e io non sapevo come stava, e i miei genitori non mi lasciavano andare a trovarla. Dicevano: «Anna, sei troppo piccola, l’ospedale è un brutto posto, presto la nonna tornerà a casa». Frottole.
Io avevo tante cose che potevo dire solo a lei, perché le interessavano davvero e non faceva solo finta di stare a sentirmi, come qualche volta fa la mamma. Hai notato che le mamme certe volte guardano te e pensano a qualcos’altro?
La nonna Maria abitava al piano di sotto. Quando rientravo da scuola suonavo alla sua porta, lei mi apriva, e mi guardava sempre come se le avessi portato un regalo… anzi, come se il regalo fossi proprio io.
Sul tavolo di legno vecchio e lucido della cucina trovavo una tazza a fiorellini, col bordo dorato, piena di cioccolata fumante, e una fetta di torta ancora calda, appena tolta dal forno, che profumava di vaniglia.
Non riesco a spiegarti quanto era bello mangiare la torta e bere la cioccolata, mentre la nonna, sulla sedia vicino a me, lavorava a maglia in silenzio. Lei non mi chiedeva mai niente, ma io le raccontavo la mia giornata di scuola, le cose che mi avevano fatta contenta e quelle che mi avevano fatta arrabbiare, i dubbi che mi passavano per la testa. La nonna mi aiutava a capire meglio: secondo lei nessuno aveva mai del tutto ragione, nessuno del tutto torto. Giusto e sbagliato per lei non erano sempre cose molto diverse.
E poi lei si è ammalata, quando avevo appena iniziato la quinta elementare.
Ho saputo quello che le stava succedendo il giorno che l’ho trovata con un fazzolettone a fiorellini in testa. Mi ha detto con un sorriso triste: «Anna, sono malata, e la cura mi ha fatto perdere i capelli. Forse guarirò, o forse no. Ma ce la sto mettendo tutta».
A casa, con un groppo che mi chiudeva la gola, ho chiesto alla mamma: «La nonna sta morendo?»; lei è diventata pallida, e ha risposto a occhi bassi: «No, cosa ti viene in mente! La nonna tra un po’ starà benissimo!». Ma la sua faccia diceva tutto il contrario.
Sono corsa in camera, mi sono buttata sul letto e mi sono messa a piangere tutte le mie lacrime, perché lo sapevo che la mamma faceva finta.
Dopo qualche mese la nonna è morta. È strano, sai: non riuscivo più a piangere. Mi sono chiusa nella mia stanza e ho preso a calci i pupazzi e le bambole, ho strappato addirittura in mille pezzi la foto che tenevo sul comodino, quella dove avevo tre anni e ridevo sull’altalena, mentre la nonna mi spingeva e rideva anche lei. Fuori Maic mi gridava di aprire la porta.
Non so cosa mi è successo, di solito non faccio così. Ma ero proprio arrabbiata: arrabbiata con la nonna che mi aveva abbandonata, e con mamma e papà che non mi avevano permesso di salutarla prima che se ne andasse via.
Ricordo i lunghi giorni che ho passato rintanata in camera: non sorridevo a nessuno, urlavo dietro a Maic se mi sfiorava, rispondevo male alla mamma se mi chiedeva di stare insieme a loro. Pensa che per la prima volta ho preso dei brutti voti a scuola.
Con il tempo la mia rabbia furibonda è diventata un’altra cosa, come un dolore fortissimo: dentro bruciava come il fuoco, mentre mi sembrava che fuori qualcuno avesse spento la luce di tutto il mondo. Per me c’era più buio di oggi, che piove così forte, ma pensavo che non importava, tanto non c’era più niente di bello da vedere.
C’è voluto un bel po’ di tempo, ma un po’ alla volta il dolore ha smesso di scottare così forte, è diventato una cosa più dolce, quella che forse i grandi chiamano nostalgia. Magari la conosci anche tu. Be’, solo allora sono riuscita a parlare di nuovo con nonna Maria, proprio come se fosse ancora con me: le facevo vedere i miei disegni, le raccontavo le storie che leggevo, e quello che succedeva a scuola, a casa, insomma le parlavo della mia vita.
Lui se ne va, portato dalla corrente, mentre lo seguo correndo sulla riva.
A un certo punto un groviglio di rami che arrivano fino all’acqua mi impedisce il passaggio, blocca la mia corsa, perdo di vista Sogno.
Puoi credermi, non ho mai avuto così tanta paura.
Accovacciata sulla riva del fiume non ho più la forza e nemmeno la voglia di alzarmi. Sono precipitata in un incubo, tutto intorno a me è buio. Sogno non c’è più. Non c’è nessuno. Anche Amalia è sparita, non è qui a farmi coraggio, a consolarmi.
Non voglio togliere le mani dagli occhi, non voglio vedere un mondo dove non c’è più Sogno.
Ma… lo sai cosa succede?
Sento una voce, sì, una voce squillante: «Ehi, è tuo questo cane?».
Tolgo le mani dagli occhi, annebbiati di lacrime, e vedo uscire dall’acqua un ragazzino grassoccio, in mutande, inzuppato d’acqua, con i capelli neri che gocciolano e un sorriso allegro negli occhi scuri. Tra le sue braccia c’è Sogno. Il mio cagnolino sembra morto… ma no, muove piano la coda!
Scatto in piedi e resto ferma a guardare, mezza imbambolata, il ragazzino che si avvicina e mi parla tutto allegro.
«Dai, tranquilla, si sta riprendendo. L’ho beccato giusto in tempo». Mi fa l’occhiolino, e aggiunge: «Non è che voglio tirarmela, ma io sono bravissimo a nuotare».
Con la voce ancora scossa dai singhiozzi gli sussurro: «Grazie, davvero sei stato bravissimo. Se sapessi che paura ho avuto!».
Lui mette delicatamente a terra Sogno, che fa due passi barcollando come un ubriaco e poi si ferma scrollandosi l’acqua di dosso. Mi inginocchio vicino a lui, lo abbraccio stretto stretto, mentre mi lecca il naso e le lacrime.
«Sei proprio fortunata, a me nessuno ha mai dato così tanti baci!» commenta il ragazzino, ridacchiando.
Viene da ridere anche a me, mi alzo, gli vado incontro, e lui mi tende la sua mano bagnata: «Ciao, sono Bombo… be’, non è proprio il mio nome, ma tutti mi chiamano così. Sto nell’accampamento là sopra… E tu chi sei?»
«Anna. Ma lo sai che sei stato davvero coraggioso? Io abito in quel palazzo marrone, laggiù. Ma se tu abiti nell’accampamento… vuol dire che sei uno zingaro?».
«Certo, sono un nomade, uno di quelli che voi chiamate rom. E tu non sarai mica, per caso, una di quelli che hanno paura degli zingari?».
Lo guardo, scuoto la testa e sorrido.
«No, Bombo, se sono come te».
Io ci credo nelle favole.
Però nelle favole succede sempre qualcosa che fa paura, e sempre c’è qualcuno che è cattivo.
E infatti, dopo questi giorni pieni di gioia, di parole, di risate, la magia finisce.
È arrivato settembre, siamo alla fine delle vacanze.
Stamattina mi alzo presto e faccio colazione, insieme al papà che è tornato stanotte da un lungo viaggio. Inzuppo i biscotti nel latte, lui beve una tazza di caffè e si accende una sigaretta. Ce ne stiamo zitti tutti e due, davanti alla televisione accesa.
Penso che tra poco incontrerò i miei amici. E mi chiedo cosa starà pensando il papà.
Al telegiornale raccontano le solite notizie di politica, ma io non ci capisco niente. All’improvviso però la scena cambia, appare un campo di nomadi devastato dal fuoco e dal fumo. La voce del giornalista dice che una banda di adolescenti, durante la notte, ha buttato delle bottiglie incendiarie intorno all’accampamento addormentato. Dei testimoni hanno visto la scena, e quei ragazzi adesso vengono ricercati dalla polizia.
Guardo bene il campo in fiamme… mi sembra… davvero è quello di Bombo? Urlo «NOO!», scatto in piedi, esco di casa correndo.
Appena fuori dal cortile vedo una nuvola nera che avvolge gli alberi laggiù, vicino al fiume; l’odore di bruciato mi entra nel naso e nella bocca, mi toglie il poco fiato che mi è rimasto dopo la corsa per le scale.
Ma non mi fermo, arrivo correndo al campo, forse è un incubo, adesso mi sveglio…
Intorno al campo ci sono macchine di polizia e camion di pompieri.
Roulotte automobili e baracche sono diventate scheletri neri e fumanti. Sento donne che urlano, bambini che piangono, guaiti di cani. È tutto bruciato, distrutto. Hai mai visto un film horror? Be’, gli alberi sembrano zombie che dondolano le loro braccia ossute nella nebbia.
Guardo immobile, impietrita, tutto quel disastro. Mi ci vuole un po’ prima di riuscire a muovere le gambe; finalmente ci riesco, faccio qualche passo, voglio entrare in quel poco che resta dell’accampamento. Cammino sull’erba che fuma, come uno sonnambula.
Ma una mano forte mi prende per un braccio, qualcuno mi dice: «Aspetta! Dove vuoi andare? Cosa c’entri tu con questo campo di zingari?». Sai, è la voce del papà.
Gli rispondo singhiozzando: «Bombo e Sogno erano qua… chissà cosa gli è successo… Li devo assolutamente trovare! Papà, loro sono i miei amici!».
Lui mi prende per mano. Vedo passare sulla sua faccia incredulità, stupore, e poi qualcos’altro, non so cosa, ma bello.
«Piccola, non piangere: ci sono qua io. Adesso andiamo a cercare i tuoi amici. Li troveremo, vedrai».
Mamma papà e Michele sono seduti al tavolo della cucina.
Maic piange. Ha la testa tra le mani, cerca di parlare, ma i singhiozzi spezzano le parole. Il papà lo guarda con la faccia scura, la mamma gli accarezza i capelli a cresta e gli dice di stare tranquillo, che tutto si sistemerà.
Io, ferma sulla porta della cucina, li guardo. Non capisco cosa sta succedendo.
Un po’ alla volta Maic si calma, e le sue parole, spezzate dai singhiozzi, diventano un fiume in piena: «Io non volevo. Ma loro mi sfottevano. Dicevano che gli uomini veri fanno cose da eroi! Mi davano del fifone… hanno detto facciamo… sì facciamo un bel falò… se muore qualche zingaro, meglio per tutti… E poi… poi dicevano che non potevo tirarmi indietro! Perché c’ero anch’io quando abbiamo rotto le tubature della scuola, e quando abbiamo scritto parolacce sul muro del municipio… Sì, è vero, c’ero… c’ero anch’io. Sennò quelli… quelli non mi volevano più nel gruppo. Ma l’incendio al campo rom… NO! Gli ho detto che no, che io non ci stavo! Ho detto BASTA, me ne vado, siete pazzi! E loro mi hanno minacciato, mi hanno detto che me la facevano pagare… ma lo giuro, io me ne sono andato… e adesso l’hanno fatto davvero! Ma io non ci credevo, io pensavo… pensavo che era una spacconata, che non avevano il coraggio…». E ricomincia a singhiozzare.
Il papà non si mette a urlare, come fa di solito quando si arrabbia. Si accende una sigaretta, sta zitto per un bel po’, come se cercasse le parole giuste. Poi parla, piano. Lo sai che mio padre adesso sta facendo davvero il papà?
«Ok, Michele, hai fatto le tue cavolate, le tue imprese idiote da adolescente, mentre io e tua madre stavamo a pensare ai nostri stupidi problemi. Ti sei lasciato trascinare da un branco di deficienti vigliacchi, che non valgono un accidente di niente. L’hai capito o no che i bulli fanno finta di essere forti, coraggiosi, potenti, proprio perché sanno di non essere nessuno? E tu? Tu li hai seguiti per non essere solo». Schiaccia la cicca nel portacenere, fino a renderla poltiglia. E riprende a parlare: «Ma sai, Maic, la colpa non è solo tua. Sei un ragazzo… dove accidenti eravamo noi grandi? Purtroppo a me nessuno ha insegnato come si fa il papà. Ma adesso, sai, ci sto provando. Ci sono, Michele. Ci sarò sempre, per te. Per voi». Si passa la mano sugli occhi, non vuole farci vedere che piange.
La mamma, che piange senza nasconderlo, si soffia il naso. «È colpa mia! – sussurra – Io lo sapevo che ti stava succedendo qualcosa, Maic. Mi accorgevo che eri cambiato… eppure non ho fatto niente… non volevo vedere… non volevo fare preoccupare, arrabbiare il papà…».
«Basta!» la interrompe mio padre «Non serve a niente rimenarcela, decidere di chi è la colpa, piangerci addosso. Michele, adesso vieni con me dalla polizia». Le sue parole mi sembrano proprio definitive.
Sotto il salice c’è Bombo che mi aspetta: almeno lui ce l’ha fatta a venire. Però Sogno non c’è.
Ci sediamo vicini, sull’erba in riva al fiume.
«Sai Anna, sono stato alla polizia con il papà, mi hanno fatto vedere dei ragazzi dietro un vetro, come in un acquario… Erano loro! Erano quelli che ridevano mentre il fuoco distruggeva il campo… e adesso sono in galera!».
Ride, ma non è la sua solita risata, non mi guarda negli occhi. Raccoglie un soffione, lo tiene tra le mani, col fiato lo trasforma in piccoli paracadute bianchi che si alzano nell’aria. Parla piano, sembra che la parole facciano fatica a venir fuori.
«Io… non so come dirtelo… stasera la mia famiglia partirà… sai dobbiamo andare in un altro campo, in un’altra città. Il Comune ha detto che ci darà dei soldi, ma chissà quando. E noi non vogliamo più stare in un posto dove ci volevano bruciare».
L’estate sta finendo, mi sembra la fine della favola che io Bombo e Sogno abbiamo vissuto insieme. È brutto, vero, quando una favola finisce male?
Il cielo è carico di nubi grigie, un vento freddo mi fa arricciare la pelle. Mi stringo nel golfino azzurro, che è diventato piccolo. È come se il freddo mi fosse entrato dentro.
Bombo lancia sassi nel fiume, formando cerchi nell’acqua che si allargano e spariscono. C’è uno strano silenzio. Vorrei dirgli tante cose, ma la mia gola è chiusa.
Gocce di pioggia fredda iniziano a cadere, formando nell’acqua del fiume piccoli cerchi di luce che si uniscono e si confondono con quelli dei sassi di Bombo.
È ora di andare.
Un abbraccio stretto, e via, senza guardarci più.
È una domenica mattina, ormai manca poco a Natale.
Guardo dalla finestra la neve che continua a scendere, trasformando la città e i campi in un candido presepe.
È tutto così magico. Ho voglia di uscire, di rivedere il mio salice. Non sono più tornata lì da tanto tempo.
Dopo la partenza di Bombo, sai, ho passato giornate intere a camminare lungo il fiume, tra gli alberi, nei prati; chiamavo «Sogno! Sogno!» ma rispondevano soltanto i merli e le cornacchie.
Poi sono arrivate le nebbie e il gelo, e ho dovuto rinunciare al mio Sogno.
Ma questa mattina voglio tornare nel giardino segreto.
Mi metto i calzoni pesanti, la giacca a vento, gli stivali. Dico alla mamma che vado a fare un giro.
È bello affondare i piedi nella neve bianchissima, che nessuno ha calpestata e sporcata.
Nel silenzio di ovatta sento soltanto lo scricchiolio della neve sotto i miei passi e il canto gorgogliante dell’acqua.
I rami del salice non hanno più foglie, ma piccoli fiori di ghiaccio.
Mi fermo, guardo il cielo bianco, lascio che i fiocchi mi si posino sulla faccia, sulle labbra. Assaggio il sapore della neve.
E qui succede una cosa che non ti immagini!
Uno strano fruscio… I ramoscelli innevati di un cespuglio si stanno muovendo piano. Sarà un coniglio selvatico? No, un coniglio non ha il naso umido e gli occhi dorati. Ma è possibile che…?
«SOGNO!»
Ed eccolo che esce dal nascondiglio, si scrolla, mugola piano. Mi butto nella neve vicino a lui, lo abbraccio così forte che quasi lo soffoco.
Ma poi lo guardo bene e mi spavento per quanto è magro.
«Ehi, Sogno, da quanto tempo non mangi? Ti si vedono le ossa! Aspetta qui, vado a prenderti qualcosa di buono».
Lui questa volta però non resta fermo sotto il salice. Mi segue mentre mi incammino verso casa, non mi perde di vista, mi sa che non ha nessuna intenzione di restare ancora solo.
Siamo sotto il portone.
«Sogno, qui non puoi entrare. Devi avere un po’ di pazienza, aspettami, ti prometto che tornerò subito».
Fa un guaito straziante. Mi inginocchio e lo accarezzo; lui mi lecca tutta la faccia, scodinzola, mugola piano: mi sta dicendo «Portami con te».
Me ne sto accovacciata sul gradino del portone, abbracciata stretta al mio cane. Credimi, non so davvero cosa fare.
«Ehi, siete proprio carini!».
La voce di mio padre mi fa scattare in piedi di colpo, e Sogno mi si nasconde dietro le gambe.
Il papà scuote la testa sorridendo, anche la sua voce sorride: «Sono andato a comprare il giornale, e guarda cosa mi trovo sotto casa! Potrei scommettere che lui è Sogno… Chissà mai, forse la mamma vuole adottare un cane, anche se ha già tanti bambini».
Non credo alle mie orecchie: «Papà, stai davvero dicendo che me lo faresti tenere?»
Mi fa l’occhietto.
«Perché no? Mi sembra un tipo simpatico, e non è nemmeno tanto grande. In fondo stiamo parlando di un tuo amico, no? Dai, andiamo a presentarlo alla mamma».
Vorrei saltargli al collo e riempirlo di baci, questo papà.
Quando entriamo in casa la mamma osserva stupita suo marito con il cane in braccio, poi mi guarda, perplessa. Alzo le spalle, le dico sorridendo: «È Sogno, mamma! Può restare con noi?».
Be’, ci pensa forse un secondo: negli occhi miei e del mio cane sono sicura che vede una speranza così grande, ma così grande che non ha il coraggio di deluderci. Accarezza il muso umido di neve. «Benvenuto, Sogno! Troveremo un po’ di posto anche per te».
Mi tuffo tra le sue braccia, e rido, e continuo a dirle grazie, con il cuore che batte così in fretta che sembra scoppiare.
FINE… per finta!
Se ti è piaciuta la mia storia, di certo ti piacerebbe sapere quello che è successo a Sogno, quando non era con me.
E allora… sorpresa! Se volti pagina scoprirai cosa racconterebbe Sogno, se potesse parlare.
Come è nata l’idea di questo libro?
Ero costretta a restare a letto per un’operazione alla gamba, e ho iniziato a scrivere una storia per bambini. Anna si è disegnata nella mia mente, come la conoscessi da sempre. Anzi, la conosco davvero da sempre, è il mio IO bambino ma ha un corpo e una famiglia diversi dai miei. Anna sogna, divora libri, ama gli animali, vive in un mondo tutto suo. Si sente sola. E la storia si dipana, il suo cavallo immaginario si trasforma in un cagnolino vero, la sua gemella immaginaria lascia il posto a un amico vero.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Ho finito di scrivere la storia in una settimana. Poi, come mi succede sempre, l’ho riletta, aggiustata, ho trasformato la narrazione dalla terza persona alla prima, l’ho fatta leggere ai miei nipoti, ho seguito i loro suggerimenti, e alla fine l’ho rivista con la mia editor. E tutto questo ha richiesto quasi un anno.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Fin fin piccola leggevo tanto, e con passione. I primi libri che ricordo sono “Pattini d’argento” di Mary Mapes Dodge, “Il giardino segreto” di Frances Hodgson Burnett, “Piccole donne” di Louisa May Alcott, “Zanna bianca” di Jack London . Poi sono diventata mamma e nonna, e mi sono appassionata a Sint-Exupéry, a Roald Dahl, e a tanti altri. Ma, se devo essere onesta, il mio autore preferito resta Charles M. Schulz con i suoi Peanuts.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Ho vissuto a Milano fino a 12 anni, poi mi sono trasferita a Bareggio, poco lontano dalla mia città.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sto per pubblicare due romanzi: uno è il sequel di un altro mio libro,”È l’amica di Isabella”, e l’altro è la storia vera di un mio amico che è stato in carcere a San Vittore per sei mesi, agli arresti domiciliari per un anno e mezzo, prima di essere assolto nel processo.
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