
Edito da Brè Edizioni nel 2020 • Pagine: 191 • Compra su Amazon
La storia narrata è una satira, grottesca e iperbolica, della mentalità ristretta della gente di un paesino italiano qualsiasi. E riflette anche l’immagine sempre più distorta di un’intera Italia.
Co-protagonista è il linguaggio stesso: ruvido, tagliente, carico, allegorico, colto ma in una dimensione “di strada”. Il protagonista del romanzo invece è Willy, italiano di nascita ma cresciuto negli USA, che torna in patria per la prima volta dopo vent’anni per il testamento dei genitori. Stanco della situazione politica americana decide di fermarsi per alcuni mesi a Vespuccio (dove è nato).
Sin dal primo istante riscontra una frattura tra l’immagine idilliaca che aveva in mente e la realtà di profonda crisi culturale e civile che vede attorno a sé. Willy incontra, uno dopo l’altro, personaggi paradossali e assurdi che riflettono una visione del mondo surreale, arretrata e superstiziosa: una visione tipicamente meridionale ma anche tutta italiana.
A Vespuccio le sedute comunali avvengono nei bar, tra una bevuta e una partita a carte; i cittadini smaltiscono i propri rifiuti costruendo castelli di immondizia nelle campagne, si danno quotidianamente a un alcolismo senza freni. Ci sono maltrattamenti impuniti, regole patriarcali e scenate medievali. I sacerdoti sono considerati come re e i bambini come divinità.
Razionalismo, logica e senso civico sono completamente ribaltate, in favore di un’ignoranza stagnante.
Quella di Willy è una lenta discesa nelle gole di un inferno di decadenza, nonsense e superficialità. Reale e surreale si fondono di capitolo in capitolo. Ispirandosi a tutte le assurdità delle quali è testimone, Willy scriverà un romanzo rendendo popolare un paesino fino ad allora sconosciuto. Come spesso accade la popolarità e l’eco mediatico trasformeranno il comportamento e l’auto-percezione degli individui che ne sono al centro, amplificando le contraddizioni e le crepe di un’intera società e generando rivoluzioni e contro-rivoluzioni di etica e valori, conducendole all’estremismo e poi a una vera e propria apocalisse!

Prologo
Cazzo, non sembrava vero. Finalmente tornava in Italia.
Ci era nato e ci aveva vissuto i primi dieci anni della sua vita, poi se n’era dovuto andare e non ci aveva mai più rimesso piede.
Il sole. Il sole caldo dei pomeriggi estivi, passati in oratorio a tirar calci al pallone e a far gavettoni, insieme agli amici della strada. I pranzi domenicali in famiglia, in venti tra zii e cugini seduti attorno a un tavolo che scherzavano, inebriati dagli odori dei piatti della nonna. I cartoni animati su Italia Uno e Le simpatiche canaglie sulla Rai, le giornate al mare e le scampagnate in bici. Allegria, semplicità, spensieratezza.
Questa era l’Italia dei suoi ricordi. Certo non era tutto rose e fiori, questo lo rammentava. Ogni tanto c’era qualche strage o crollava qualche palazzo, ma poi appariva sempre quel cazzo di Pippo Baudo che rasserenava tutti con la sua risata contagiosa e si tornava ottimisti. Pensava a questo mentre era in volo verso Roma, con San Francisco oramai alle spalle. Willy non ne poteva davvero più degli Stati Disuniti d’America, ridondanti, chiassosi, litigiosi, esagerati, gonfi di vanità e prepotenza. Era felice di lasciare quella lavatrice sociale in cui aveva passato gli ultimi venticinque anni della sua vita. Certo non partiva esattamente a cuor sereno. Aveva dovuto salutare i suoi numerosi amici, alcuni dei quali frequentava dai tempi del college, e i colleghi simpatici con cui lavorava alla Mynawell. Aveva dovuto allontanarsi dai luoghi della sua adolescenza, che per un nostalgico come lui equivaleva a vedere l’ultima puntata della sua serie tv preferita, alla quale non sopravvivi se non con un magone nello stomaco e un certo senso di vuoto. E così bye bye agli angoli poco illuminati del suo quartiere – scene del crimine dei primi baci da ragazzino inesperto ed emozionato – e ai club e localetti musicali sparsi qua e là per la città in cui aveva tenuto i primi concertini con la sua band hard rock, gli Young Horizons. E addio – anche se non per sempre – al suo chioschetto sforna-burritos preferito di sotto casa, e soprattutto al vecchio sogno a occhi aperti di lavorare un giorno a Hollywood, solo qualche centinaio di km più a sud lungo la West Coast, come sceneggiatore.
Per Spielberg, magari, o per Zemeckis.
Ma il solo pensiero di continuare ad avere come presidente Trump, quel maledetto ciuffo arancione che invadeva lo schermo televisivo come una gigantesca erezione da overdose di Viagra, un giorno lo avrebbe reso un terrorista rivoluzionario, o un kamikaze dell’evoluzionismo, o per assuefazione un repubblicano.
Tutto quel caos non lo reggeva più.
Quando al muro di confine con il Messico era seguito quello con il Canada, e poi ancora i quattro muri con il Minnesota, e alla fine era stato approvato il progetto di costruirne uno con la grande nemica di sempre, la Russia, era diventato evidente che al governo del Paese non c’era più una persona, bensì l’incarnazione mitologica del nonsense. Un muro intercontinentale aveva fatto morire dalle risate l’intera nazione, all’inizio. Era impraticabile, ed era da manicomio anche solo fermarsi a immaginarlo. Una roba da film di fantascienza, o una fantasia sessuale di qualche generale della Corea del Nord. Ma poi c’era stato lo scandalo che aveva colpito il famoso attore John Nelly, e tutta la nazione era piombata sotto il colpo di una scure chiamata vergogna. Pare che il muscoloso Johnny avesse fatto delle avances al chihuahua della sua collega Jennifer Preston. E di lì, il finimondo: animalisti non famosi che attaccavano pubblicamente i divi del cinema, animalisti vip che commissionavano aggressioni nei confronti delle comunità gay che sostenevano Nelly, femministe non animaliste che tentavano di rubare i mariti delle femministe pro-chihuahua, vegani bianchi che facevano lo sciopero della fame per protestare contro i vegetariani neri perché avevano appoggiato i cinesi nella rivendicazione del loro calendario zoofilo.
E non si era capito più nulla. Un marasma, un’iperbole di perbenismo made in USA inzuppato di qualunquismo moderno.
Poi c’era stato lo “scandalo di Milwaukee”: una ventina di italo-americani super abbronzati appena usciti da un centro estetico erano stati scambiati per terroristi islamici e arrestati con violenza, scatenando il pubblico ludibrio nei confronti dei metodi efferati della polizia. Dopo era venuto fuori che non si trattava di una minoranza etnica, bensì di semplici feticisti dell’abbronzatura, e il clamore generale era scemato. Non senza grande delusione da parte di media e pubblico, però: abbandonare il clamore e i dibattiti su degli eventuali piloti estremisti con velleità dinamitarde da riconvertire alla civiltà occidentale, dovendo accettare che i protagonisti della vicenda fossero dei semplici pizzaioli appassionati di auto di lusso, calciatori dalle capigliature metrosexual e fighe in minigonna… era stato per tutti come scoprire che Babbo Natale non esiste con troppi anni di anticipo. Comunque, quando si dice che i mali vengono tutti assieme si dice un’ovvietà ma è anche maledettamente vero.
Risolta la questione delle presunte tintarelle islamiche, ecco arrivare con vesti succinte la madre di tutte le calamità: erano cessati i confitti in Medio Oriente. Decadi di corse agli armamenti, finanziamenti e contro-finanziamenti a tribù e fazioni dai nomi improponibili, tangenti in entrata da sotto le ascelle e tangenti in uscita dal buco del culo, trattative internazionali che i leader americani avevano vissuto come appassionanti gang bang fino all’ultima erezione, ma soprattutto il diversivo Number One per mille e una malefatte nazionali e internazionali: la fine dei conflitti nella zona più calda del pianeta aveva stretto in una morsa di ghiaccio i cuori e i testicoli dell’intera classe politica e lobbystica americana.
A quel punto il vaso di Pandora era stato scoperchiato, e l’inferno stava per inghiottire il futuro del bravo popolo a stelle e strisce. Così l’idea del muro con la Russia era sembrata l’idea più coraggiosa e audace, in pieno stile americano, per mostrare al mondo che… niente, per mostrare qualcosa al mondo.
A nessuno interessava esattamente cosa, purché si dimostrasse che l’America e la libertà erano ancora vive. Senso non ce n’era molto, ma oggigiorno cosa ne ha? Questo avevano pensato oltre trecento milioni di yankee.
Quando in tutto questo marasma era venuta a mancare sua madre, dopo due anni di sofferenza e sedute di chemio, al dolore era seguita la consapevolezza che era arrivato il momento di tornare in patria, nella terra natia. Sembrava quasi la conseguenza di un invisibile cerchio cosmico, lo stesso che alla morte del padre aveva spinto sua madre a partire per gli Stati Uniti e adesso lo riportava indietro, dove era nato e dove era iniziato il suo percorso in questo strano e pazzo mondo.
Un ritorno a casa era anche opportuno, oltre che cosmico, poiché avrebbe dovuto eseguire il testamento di cui lui era unico erede, in quanto figlio unico. Non si trattava di molto, in realtà: un appartamento non molto grande nel centro storico di Vespuccio e una piccola casa di campagna circondata da un modesto appezzamento di terra incolta. Ma stando a quanto sua madre gli aveva sempre raccontato, la burocrazia in Italia è un organismo a sé stante che digerisce lentamente e tortuosamente qualsiasi pratica o problematica che le si metta tra le fauci.
Gli venne in mente che gestire la questione a distanza, da un capo all’altro dell’oceano, avrebbe potuto rivelarsi più difficile che interpretare un dogma millenario della Torah. E poi un ritorno a casa sarebbe stato anche catartico. Guarire dal vuoto lasciato dall’unica persona di famiglia con cui fosse in contatto praticamente da quando aveva dieci anni, non era facile. Rivedere i luoghi dell’infanzia e i parenti che abitavano i suoi ricordi avrebbe potuto lenire il dolore, riempire la voragine della sua solitudine e magari aiutarlo a ricominciare da capo. Già, perché quando avevano lasciato il Belpaese, oltre a rompere i ponti con i luoghi e le abitudini dell’infanzia di Willy, sua madre, Jennifer, aveva rotto anche quelli con il resto della famiglia di suo marito Paolo: due sorelle e un fratello, oltre ai genitori. Lui era italiano, nato e cresciuto a Vespuccio. Lei invece lo era per metà, solo da parte di padre, mentre sua madre esattamente come lei era nata e cresciuta a Boston. Si erano conosciuti in occasione del master universitario che lui aveva frequentato al MIT, si erano innamorati, sposati e poi trasferiti in Italia, per il bel clima e il buon cibo e tutta la trafila di cliché. E anche perché lei non aveva rapporti granché idilliaci con i propri genitori, ed era figlia unica.
Fine della digressione genealogica. Di solito le digressioni stancano.
Il perché se ne fossero andati via subito dopo la dipartita paterna, Willy non l’aveva mai capito, e sua madre non aveva mai voluto dirglielo. Faccende da adulti, gli rispondeva. Faccende assurde e poco piacevoli di cui era inutile parlare. Poi era cresciuto, e pian piano aveva smesso di chiedere. Nuovi amici, nuova scuola, nuova lingua, nuove usanze, nuovi giochi. Tutte queste novità l’avevano sopraffatto e poi conquistato.
E gli interrogativi avevano velocemente fatto spazio a nuove nozioni, nuove emozioni, nuove idee, nuovi progetti. Poi le domande erano diventate quasi un tabù, o un cadavere freddo e fatiscente che nessuno sentiva l’esigenza di riesumare. Adesso però aveva l’occasione di capirci qualcosa, e rimettere a posto alcuni tasselli del suo puzzle esistenziale che erano finiti fuori posto. Anzi, che erano letteralmente andati perduti, caduti a terra dal tavolo del gioco e mai raccolti.
Cos’altro l’avrebbe trattenuto a San Francisco? Non aveva né una moglie né una fidanzata, e i suoi amici erano ormai sposati e ammanettati alle loro responsabilità, nonché al grasso delle loro chiappe, sempre più pigre e incollate al divano di casa dall’ineluttabilità dei doveri da capo famiglia.
Il lavoro di traduttore, poi, non lo entusiasmava affatto. Certo, l’atmosfera alla Mynawell era rilassata, l’ambiente gradevole e gli orari per niente stressanti, ma tradurre manuali, pubblicità e siti internet dall’inglese all’italiano e viceversa, con tutto il rispetto nei confronti delle due amate lingue, lo annoiava fino a rinsecchirgli le palle come quelle di un opossum in procinto di crepare. Però gli aveva garantito ottimi guadagni, e quindi un bel gruzzoletto di risparmi da reinvestire in uno stravolgimento della propria vita.
Quindi perché non rischiare? Mandi al diavolo un lavoro che non ti fa sentire realizzato, ti liberi da una cazzo di società prossima all’harakiri e all’implosione culturale e sociale, dai un cazzotto ben assestato sul muso di un dolore che ti atterrisce come eroina tagliata male, e inizi una nuova avventura alla riscoperta delle tue origini e di te stesso. Boia, meglio che in un romanzo o in un benedetto film. A proposito di cinema, poteva essere anche l’occasione perfetta per allontanarsi dal rumore della città e nella quiete di un paesino concentrarsi sulla stesura di una sceneggiatura da proporre un giorno a Quentin Tarantino o a Clint Eastwood. Figo. Fighissimo, cazzo.
Perché sì, un giorno immaginava che ci sarebbe tornato in America. Magari quando il ciuffo arancione si fosse sgonfiato. O quando fosse stato mutilato dalla coscienza di una Lorena Bobbitt1 in versione eroina civica.
O semplicemente quando si sarebbe stancato della tranquillità del piccolo borgo, poiché lo sapeva: il silenzio lo desideri con tutta l’anima e le viscere finché sei immerso nel rumore, ma dopo un po’ inizia a essere assordante e opprimente. E la noia, sua più grande nemica da sempre, l’avrebbe spinto violentemente verso la sua seconda casa, San Francisco. O Cisco, come la chiamava Sal Paradise. Non troppo lontana da Hollywood appunto.
Cribbio, più ci aveva pensato, più tutto era sembrato un disegno divino, oppure una serie di coincidenze orgasmicamente concatenate che gli mostravano la via verso l’Italia e verso Vespuccio.
Ok, in realtà non credeva né in alcuna divinità del cazzo né tantomeno nelle fatalità che spingevano poveri fessi a rivolgersi a maghi, santoni e fattucchiere, ma lasciarsi andare ogni tanto alla parte più irrazionale della propria mente era affascinante, e liberatorio, e romanzesco. Se ogni tanto non scappi nemmeno da te stesso, resti intrappolato nel tuo DNA, nella cultura che ti ha formato, e nel dannato sentiero che hanno disegnato per te i tuoi vecchi. Ogni tanto uscire dal proprio cervello aiuta a conoscere la parte più originale di sé stessi e a far luce sull’ignoto che ti vive esiliato nel cuore o che ti popola in cattività le viscere. Perciò ecco che, bando a ciance e stronzate, si trovava su quell’avventuroso aereo che l’avrebbe condotto da un lato all’altro dell’oceano. Un volo quasi fantascientifico che dalla sua nuova vita l’avrebbe riportato indietro verso quella vecchia, e viceversa, in un turbine spazio-temporale che avrebbe gasato anche quel matto di Christopher Nolan.
Daje! Si era già calato nella parte.

Come è nata l’idea di questo libro?
Difficile a dirsi. Probabilmente è nata da un vortice di esperienze, belle e brutte, che mi ha portato a riflettere in profondità su tante delle contraddizioni culturali e delle fratture civili che tengono in ginocchio il nostro Paese. Una cascata di decadenza che mi ha violentemente spinto al largo di un oceano di nonsense che non lasciava in pace nè la mia mente nè la mia anima. Immagino di aver reagito a questa inquietudine e a questa rabbia mettendole nero su bianco, per esorcizzarle ma anche “gridarle” a chiunque avesse orecchie per sentire attorno a me. Il romanzo è di natura ironica e grottesca, ma tra una risata amara ed una riflessione onesta, tra un’iperbole concettuale e una fantasia caustica, non perde occasione di prendere a schiaffi il lettore e la sua coscienza in quanto “italiano del nostro tempo” al fine di risvegliarli entrambi. Qualora questo dovesse in qualche modo avvenire, potrei considerare compiuta la sua missione.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Non troppo, onestamente. Si è praticamente scritto da solo. Io stesso sono stato quasi un osservatore del romanzo che si scriveva da solo. Io ho fatto da tramite tra la storia che premeva nella mia testa per venire alla luce sotto forma d’inchiostro e lettere e il mondo reale. E’ stato un turbine, una tempesta, una valanga che ha travolto – e divertito, e incuriosito – anche me.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Probabilmente questo mio romanzo d’esordio è (positivamente spero) contaminato dal mio amore per autori come Chuck Palahniuk, Irvine Welsch, Charles Bukowski, Alejandro Jodorowsky. Non che questi siano gli unici miei scrittori di riferimento, anzi. Semplicemente si tratta di un’opera tutt’altro che classica, e il suo taglio contemporaneo esclude le influenze di autori che amo alla follia – come Dostoevskij, Bulgakov, Garcia Marquez, Rice, Yalom, etc. – ma che sono lontane dal suo linguaggio naturale.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Questa è forse la domanda più complicata alla quale rispondere. Si può dire che io viva nomadicamente sull’asse Milano-Bari-Roma. Ma ho vissuto anche a Venezia, Belgrado e in vari paesini disseminati da nord a sud della penisola.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Certamente continuerò a scrivere. E quasi certamente, lo percepisco in maniera abbastanza chiara dentro di me, ogni opera sarà profondamente diversa da quelle che l’hanno preceduta. Per genere, tematica, stile. Sono una persona poliedrica e con svariati interessi e passioni, perciò la mia natura non potrà che riversarsi anche nella mia produzione letteraria. Staremo a vedere, ad ogni modo.
Splendido. Libro che si legge tutto d’un fiato.. Fantasia e possibile realtà si fondono mirabilmente. Stile e linguaggio graffianti, con ironia e iperboli che caratterizzano il libro. Notevole capacità narrativa dell’autore. Da leggere e consigliare agli altri
Un romanzo molto accattivante e coinvolgente. Fa sorridere e anche riflettere. Consigliato