Edito da Tuga Edizioni nel 2020 • Pagine: 276 • Compra su Amazon
Nel profondo sertão baiano, le sorelle Bibiana e Belonísia, figlie di lavoratori di una fazenda, trovano sotto il letto della nonna un vecchio coltello d’argento nascosto in una valigia. Incuriosite, pagano a caro prezzo l’audacia di volerlo toccare, con un incidente che cambia per sempre le loro vite e le costringe a diventare l’una la voce dell’altra. Con il passare degli anni, quella vicinanza finisce però per dissolversi e la diversa prospettiva con cui osservano il mondo che le circonda le allontana progressivamente. Mentre Belonísia si dedica volentieri al lavoro nei campi e al sostegno al padre – Zeca Cappello Grande, curador dello jarê – immerso tra candele, incensi e preghiere, Bibiana si rende conto ben presto della condizione di servitù a cui la sua famiglia è sottoposta da decenni e decide di lottare in difesa del diritto alla terra e contro lo sfruttamento dei lavoratori.
Con una trama intessuta di antichi segreti che ha quasi sempre le donne come protagoniste, e all’ombra delle disuguaglianze che si estendono fino all’odierno Brasile, Aratro ritorto è un’opera polifonica, epica e commovente che racconta una storia di vita, morte, lotta e redenzione.
Un romanzo lirico, realista e magico, degno della migliore tradizione letteraria baiana. Un vero e proprio atto di ribellione sociale, razziale e di genere.
Mia madre arraffò coperte e tovaglie dai letti e dal tavolo per cercare di assorbire il sangue. Gridava il nome di mio padre, che raccoglieva erbe con mani tremanti intorno alla casa, impaziente, trasmettendo la sua disperazione nella voce, che divenne più acuta, oltre allo sguardo spaventato. Le erbe sarebbero state usate nel viaggio fino all’ospedale, in preghiere ed encantos. Gli occhi di Belonísia erano rossi per tutto quel piangere, i miei io non li sentivo nemmeno più, e mia madre chiedeva perplessa cosa fosse successo, con cosa stessimo giocando, ma le nostre risposte erano lunghi gemiti difficili da interpretare. Mio padre teneva la lingua avvolta in una delle sue poche camicie. Perfino in quei momenti, il mio timore era che l’organo strappato si mettesse a parlare da solo tra le sue braccia, raccontando quello che avevamo fatto. Che raccontasse della nostra curiosità, della nostra ostinazione, della nostra disubbidienza, della nostra mancanza di premura e rispetto nei confronti di Donana e delle sue cose. Ma soprattutto, della nostra irresponsabilità nel metterci un coltello in bocca, sapendo che i coltelli servono per far sanguinare gli animali selvatici e quelli del cortile e per uccidere gli uomini.
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