
Edito da Enrico Valente nel 2020 • Pagine: 157 • Compra su Amazon
Assoggettati a una macchina produttiva che fa dell'ambizione e dell'ansia da riconoscimento il suo eterno motore la condizione esistenziale dell'uomo moderno appare mai come prima d'ora inautentica e priva di senso. Il bisogno di trovare un rimedio spinge il nostro essere ad attivarsi in direzioni apparentemente opposte: da una parte alla ricerca del piacere ammaliante dell'amore che consente di liberarci dal peso della nostra dimensione individuale annichilendo i sensi ed evocando dolci e rassicuranti vissuti infantili, dall'altra verso un percorso di inconcludente affermazione personale voluto da un Io ipertrofico affamato di apprezzamenti e di conferme del proprio valore. Due condotte a prima vista antitetiche ma che attingono nutrimento dalle stesse radici: quelle del bisogno dell'altro, della impossibilità di farne a meno per nutrire la nostra autostima, per sentirci appagati e realizzati come individui. Ma un'esistenza che miri ad espandersi e che voglia fare della gioia lo scopo supremo nella vita, non può restare per sempre aggrappata alle proprie certezze, ancorata ad un presente senza futuro dove a farla da padrone è solo il nostro bisogno inesauribile di conferme. Ed è proprio nella dialettica tra bisogno di stabilità e desiderio di cambiamento che entra in gioco la relazione con l'altro che lungi dal costituire la risposta alle mie insicurezze mi offre un'opportunità di trascendenza che spezza le catene del bisogno e spiega le ali del desiderio.

Eppure, la possibilità di liberarsi dalla dipendenza soverchiante del bisogno esiste, anche senza per questo rinunciare a vivere. Per farlo dobbiamo però uscire dalla logica esistenziale ermetica dentro la quale ci costringe a muoverci proprio la condizione stessa di bisogno. Perché in questo Schopenhauer aveva ragione: la volontà nutre il bisogno e questo impoverisce la nostra vita, ne oscura gli orizzonti, la rende un non senso, ma fare della nostra esistenza un oscillare tra un bisogno e l’altro significa non cogliere l’aspetto più caratterizzante dell’essere uomo ed equipararlo in sostanza (come già ha fatto Freud) a qualunque altro animale. Se l’animale, infatti, impegna il suo tempo a nutrirsi, a difendersi dai predatori, ad accoppiarsi e a lottare per mantenere il controllo del territorio, tende, insomma, solo all’autoconservazione, nell’uomo la volontà può portare verso sentieri mai battuti e schiudere scenari di cambiamento. A condizione, però, di non lasciarla soffocare rinchiusa negli spazi angusti del bisogno e spalanchiamo le porte del nostro essere all’incommensurabilità del desiderio.
Finora abbiamo parlato di bisogno e desiderio quasi indistintamente, senza evidenziare la differenza sostanziale che distingue i due concetti. Una distinzione che nella filosofia di Levinas è essenziale ed è colta molto bene. Il bisogno mi spinge a mangiare il pane per saziarmi, a bere l’acqua per placare la sete, oppure a coprirmi con abiti per non avvertire il freddo. Questi alcuni esempi. Ma non sono soltanto le necessità fisiologiche ad alimentare i nostri bisogni. Se, infatti, allarghiamo lo sguardo e guardiamo l’uomo nella sua interezza, possiamo riscontrare come molte abitudini comportamentali siano motivate da bisogni. E succede ogni volta che agiamo mossi dall’esigenza di garanzie, di certezze, di basi solide sulle quali edificare la nostra vita e il nostro futuro. Per Levinas ci troviamo di fronte al bisogno, sia in senso fisiologico sia metafisico, ogni qual volta la nostra condotta è mossa dalla volontà di cercare qualcosa che non abbiamo e che avvertiamo come indispensabile per preservare il nostro essere e vivere meglio. Ad alimentare i bisogni è, quindi, la volontà di conservarci, di restare ciò che già siamo, di perpetuare il nostro essere contro le minacce del cambiamento e dell’ignoto. Per questo motivo, il bisogno si rivolge sempre a qualcosa di determinato, qualcosa che conosco, di familiare e che mi offre stabilità e sicurezze. In amore si chiama la ricerca dell’anima gemella, cioè della persona adatta a me, l’altra metà della mela, qualcuno, insomma, che mi completi, pronto a offrirmi tutto ciò che mi serve per sentirmi protetto e vivere sereno. Il bisogno d’amore proietta nella persona amata l’immagine di nostra madre, perché è da lei che torniamo quando cerchiamo conforto, quando vogliamo essere riconosciuti, apprezzati per ciò che siamo ed ogni volta che nella fragilità nutriamo dubbi sul nostro valore. Un’infantile condotta di comodo che, però, finisce poco per volta, quasi a non rendercene conto, per condannarci all’immobilismo.
Il bisogno di preservare la nostra identità si traduce, sul versante opposto, quello della volontà di affermazione personale, nell’esigenza ostinata di primeggiare fino a sopraffare i nostri pari, nello spirito caparbio di onnipotenza e di esclusione di ogni alterità. Anche qui mi servo dell’altro non per crescere, per espandere il mio essere, ma per confermare il mio valore, per giustificarmi e difendermi dal rischio di scoprire di esser meno o semplicemente qualcos’altro rispetto a cosa sono convinto di essere.
Questo il bisogno. Il desiderio è qualcosa di radicalmente diverso. Mentre abbiamo parlato del bisogno come del tentativo di trovare esattamente quello che mi serve, ciò di cui in un dato momento avverto la mancanza ed ho necessità per continuare a vivere felice e stare bene, nel desiderio, invece, il movimento è opposto. Chi desidera non insegue qualcosa a sua immagine, di adatto a lui e che gli manca per completare ciò che vorrebbe essere, perché ciò che desidera è qualcosa che non sa, che non si sforza a immaginare perché non è intenzionato a sapere. “L’idea dell’infinito è il desiderio”1 dice Levinas. Se il bisogno è un meccanismo difensivo, è ritornare a sé, alla propria terra, a quel luogo da dove provengo e dove sono nato, in quel mondo che conosco e che m’infonde sicurezza, il desiderio è tutt’altro. Il desiderio è esplorare l’ignoto, andare verso qualcosa che non sono io, d’intangibile, irrappresentabile; è una fuga che non è uno scappare dalle proprie inquietudini (ci troveremmo ancora nel bisogno) ma ci va incontro, perché è, fondamentalmente, un allontanarci da noi stessi, dalla nostra terra e dalle nostre certezze, per intraprendere un viaggio senza una meta verso qualcosa che non abbiamo ancora visto. Il desiderio è senza oggetto, libero vagabondare.
Se il desiderio è la mancanza di stelle (lo dice il suo significato etimologico: Desiderium: ’de’, mancanza di, e ‘sideris’, stella) irretiti dal bisogno, la più parte di noi dimora sotto un cielo troppo piccolo per ospitare le stelle, e, sballottato tra passato e presente vive d’inerzia naufragando nei ricordi sovrastati dalla nostalgia. Si resta nell’ombra, lasciando decidere gli altri per la paura di sbagliare o per non assumersi la responsabilità delle scelte. E chi è un sognatore, inseguirà il sogno nel cassetto convinto che quella meta possa essere il suo destino, altrimenti cercherà affannosamente la sua strada provandole tutte salvo poi realizzare di non riuscire ad arrivare molto più lontano da dov’era partito.
Perché liberare il desiderio non significa rincorrere un obiettivo, scegliere una strada o avere uno scopo nella vita, questo semmai è il comportamento del bisognoso. Il desiderio, scrive Lacan, è desiderio di nulla di nominabile. Vivere nel desiderio, vuol dire andare sempre oltre se stessi esponendosi ogni giorno a qualcosa di diverso da sé senza il timore di ricominciare ogni volta da capo. È spirito d’avventura. Un’avventura che però non è il viaggio di Ulisse che dopo infinite peripezie ritrova se stesso e la propria patria ma quella che non sa dove si potrà arrivare perché nulla è già deciso. E, come la danza di Shiva, metafora della continua danza di creazione e distruzione del cosmo, impariamo a ridefinire ogni momento noi stessi, le nostre certezze, la nostra identità, abitando un tempo senza telos dove in piena libertà il nostro essere possa cambiare e crescere libero dalle catene del bisogno.

Come è nata l’idea di questo libro?
1) Diciamo che è nato prima il libro che l’idea. Mi sono reso conto di ciò che stavo realizzando e di dove sarei arrivato solo un po’ alla volta, pagina dopo pagina, pensiero dopo pensiero.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Credo che la cosa più difficile per uno scrittore non sia iniziare un libro, svilupparlo, rileggerlo e correggere gli inevitabili errori ortografici, ma, proprio portarlo, a termine. Non nel senso di trovare una conclusione adatta al contenuto dell’opera, bensì di riuscire a convincersi che la tua creatura è nata, che devi lasciarla andare, consentire il distacco. Quel momento è stato terribile… ma meraviglioso.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Senza dubbio Nietzsche e Leopardi, ma anche, tra gli altri, Sartre, Levinas, Fromm. Per non dimenticare il nostro Umberto Galimberti. Sono i filosofi che più hanno contribuito alla realizzazione dell’opera. Ognuno di loro mi ha dato qualcosa di importante, ha plasmato non solo il mio essere scrittore, ma anche la mia personalità, la mia visione delle cose.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Ho sempre vissuto a Torino, una città che amo, attiva, intensa e culturalmente dinamica.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
In ambito letterario, per lo meno secondo quella che rappresenta la mia visione, non è opportuno programmare. La scrittura non è pianificabile. Non sei tu a scrivere un libro, è il libro a uscire fuori, in modo naturale e spontaneo. Il vero scrittore non ha fretta, non pensa al risultato, ai tempi di realizzazione di un’opera. E questa, se mi consentite, è una delle cose più belle dell’essere scrittori.