Edito da Fabbrica dei Segni nel 2017 • Pagine: 196 • Compra su Amazon
I bambini non nascono cattivi cerca di rispondere, anche attraverso storie di vita vera, ai tanti dubbi che investono i genitori nella crescita dei figli.
Centrando l’analisi su entrambi i genitori e, in particolare, sulla coppia, la maternità, i diversi tipi di genitori ed esamina quelle che vengono definite disfunzioni familiari che troppo spesso vengono trascurate.
Il libro cerca di rispondere a tante domande, tra cui: Come nasce un genitore?
Perché per un uomo “divenire padre” assume un significato molto più laborioso e difficile rispetto alla donna?
Il “senso materno” esiste in natura o è il frutto di una costruzione sociale?
Il libro tratteggia le caratteristiche delle disfunzioni emotive, che un rapporto non rispettoso dei bisogni di un bambino potrebbe generare nei figli, da adulti.
Nella considerazione che i figli sono sempre, nel bene e nel male, il risultato dei propri genitori.
Non è facile definire le caratteristiche in cui una donna può riconoscer-si, per potersi dare una connotazione accettabile che le consente di sentirsi una “Buona madre”.
Una donna non nasce madre, ma viene educata alla maternità sin da bambina.
Il suo primo giocattolo, quasi sempre, è un bambolotto, poi arriva la carrozzina, la cucina in miniatura, il biberon e i vestitini per vestire il bambo-lotto, poi il tavolo da stiro e così di seguito, tutti giocattoli che riproducono le attività, che una cultura votata al patriarcato ha assegnato alla figura femminile, nell’iconografia sociale stereotipata della donna.
Le aspettative rispetto al ruolo che dovrà ricoprire sono davvero tante.
Per fortuna, col passare degli anni, questo stereotipo culturale è stato accantonato, anche se non del tutto eliminato, dalla coscienza sia maschile che femminile.
Storicamente il mandato che la donna in Italia doveva assolvere, era in funzione del suo status di mamma e di ruolo materno, rimandando indietro tutto ciò che esulava dal sillogismo donna=madre.
Il mito della grande madre delle società arcaiche, quale prototipo di una visione di femmina che genera e riproduce, ha fatto da sfondo ad una cultura che esaltava la capacità generatrice della donna in quanto femmina, riservandole un ruolo di assoluto rispetto e di preminenza, proprio in virtù del compito generativo a cui era stata demandata a svolgere dalla natura stes-sa.
Col susseguirsi delle trasformazioni sociali e culturali, questo concetto è andato via via dissolvendosi, fino ad essere completamente abbandonato.
Per cui da una visione della donna, preminentemente considerata per il suo ruolo generante, si è passati ad una visione utilitaristica della donna, con la conseguenza di ridurne sempre di più il suo valore umano e sociale.
Evitando di soffermarci sulle modificazioni antropologiche e culturali della figura femminile, è possibile comunque riconoscere che al centro dell’interesse dell’uomo è stato e resta tuttora il corpo della donna.
Un corpo che è stato e rimane la fonte dell’oggettivizzazione maschile, trasversale alle società e alle culture di ogni tempo.
Quale punto cruciale di un atto politico radicale, in grado di sovvertirne gli ordini e condizionarne gli eventi della stessa storia umanitaria.
Basti pensare alla funzione generatrice della donna considerata preminentemente come femmina, messa in risalto tra le mura domestiche a svantaggio della sua capacità di donna, messa in ombra per la società.
Collocata in una zona oscura della casa, molto spesso abbastanza in-visibile, in quanto grembo contenitivo senza parola.
Questo è quanto ci tramanda la storia delle donne; una storia fatta di ombre e di castighi, da subire ed accettare. Un destino a cui difficilmente era possibile sottrarsi.
Del resto basti ricordare che nella Roma Antica, la donna veniva considerata una creatura irresponsabile per natura, e dunque da tenere continuamente sotto tutela .
La stessa parola “matrimonio” deriva dall’unione dei due termini latini, mater e munus, ovvero madre e compito , quindi l’etimologia stessa della parola fa riferimento al “compito di madre” più che a quello di moglie, ponendo maggiore enfasi sulla sua finalità procreativa all’interno del legame di coppia.
Col “contratto matrimoniale” l’uomo si garantiva l’eredità della sua progenie, disponendo della donna come di un oggetto, da cui prendeva i servigi attraverso il suo corpo.
Lo stesso contratto matrimoniale gli garantiva di poter disporre dell’esclusività dell’utero di quella donna, procreatore di figli legittimi e la garanzia di poter amministrare, come un dio in terra, il diritto di vita e di morte, non solo della donna generatrice, ma anche dei figli che venivano dal suo ventre partoriti .
Nel Mezzogiorno d’Italia, almeno fino agli anni sessanta, ovvero fino a-gli anni della crescita economica e della rivoluzione culturale femminile che ne è susseguita, le cose per la donna non andavano meglio.
Educata al patriarcato e all’ubbidienza, lei stessa considerava il matrimonio come qualcosa che avrebbe cambiato la sua vita, anche se si trattava semplicemente di passare dal dominio del padre alla potestà del marito, com’era nell’antica Roma.
Una cultura patriarcale che esautorava la donna di ogni facoltà sia nell’ambito della famiglia che nel sociale. Una cultura che si è protratta in molti contesti familiari fino ai giorni nostri, dove ancora le mogli e le figlie subiscono la volontà del marito e del “padre”.
Le donne schiave di una cultura della similitudine, che riduce l’uno all’altro senza il rispetto per la diversità del proprio sé.
Una forma di pensiero che purtroppo non si esaurisce con le genera-zioni passate, ma che , come un sottile strato di tessuto connettivo , collega, sostiene e nutre la vita di molti, troppi uomini e donne.
Fare la madre è stato un compito assegnato alla donna prima dalla na-tura e poi dalla civiltà, ma sentirsi madre è ben altra cosa, è una scelta di consapevolezza, che le donne hanno cominciato ad assumersi quando han-no avviato il lungo cammino per liberarsi dalle catene degli stereotipi, a cui le società degli uomini le avevano destinate.
Le donne, dal canto loro, ancora non riescono a prendersi quella parte di visibilità culturale e sociale anelata, e anche quando sono presenti nei posti importanti socialmente, non vengono adeguatamente ascoltate, né riconosciute nel confronto tra pari, nonostante siano mutate le forze in campo.
Non riconoscendosi più nell’assioma del rimando naturale alla materni-tà, fanno più fatica ad individuare e a conciliare la femminilità con le funzioni sociali, che vivono come esperienze acerbe e in divenire, rispetto agli uomini, abituati ad esercitare la forza sociale da millenni. Restano vincolate al desiderio di similitudine all’uomo piuttosto che al bisogno di differenziarsene, in un’inevitabile corsa a contrapporsi l’una con l’altro, ed è in quest’opposizione innaturale che prende corpo la loro ambivalente fragilità.
Esiste ancora un ordine patriarcale lungo il quale i desideri femminili non riescono a passare, se non filtrati attraverso l’ordine ontogenetico di appartenenza.
Il “Senso Materno” in natura non esiste.
Si tratta di una costruzione sociale, sapientemente messa a punto dal genere maschile, per delimitare gli ambiti di azione della donna e per relegarla in un ruolo precostituito. Il Senso Materno riguarda una costruzione culturale, creata dagli uomini per vincolare la donna, ad una disposizione prestabilita a cui essa stessa non può sottrarsi, se non esponendosi al giudizio di merito di buona parte della cultura dominante.
Senza dubbio, possono esserci donne, che hanno una maggiore predisposizione verso l’atteggiamento materno ed altre che non ne hanno affatto, o ne hanno nella misura in cui si assumono la responsabilità di dover assolvere un compito, quindi, lo accettano e ne sentono il peso.
L’apertura della donna verso ruoli sociali più diversificati, ha creato inevitabilmente un allentamento del carico emotivo che il termine porta con sé, a beneficio della realizzazione di un’immagine femminile sempre più coerente con i tempi, che la vede impegnata nei ruoli sociali più disparati.
L’ esito è stato quello di una maggiore consapevolezza da parte delle donne, di operare la scelta di divenire madre e di allevare un figlio, con sempre maggiore cognizione di causa del proprio costrutto materno.
Una presa di coscienza che ha apportato una nuova definizione del ruolo materno, più sensibile e responsivo, con una migliore affidabilità an-che rispetto ai tempi della progettualità di avere un bambino.
Quando le donne riescono a raggiungere un’istruzione medio alta, il tempo della maternità viene diluito, dai tempi legati al raggiungimento degli obiettivi di studio e di realizzazione lavorativa.
L’età in cui le donne arrivano alla maternità si è elevata superando anche i quarant’anni.
Anche se purtroppo permangono ancora fasce sociali in cui si diventa madre in età adolescenziale. Senza che questa scelta venga fatta consapevolmente.
Sono quelle giovani donne che non hanno un’ adeguata educazione sociale, i cui i bisogni legati alla realizzazione di sé non sono presenti. Hanno, in genere, una bassa scolarizzazione e provengono da modelli fa-miliari in cui la maternità in età precoce non è considerata un’eccezione ma una possibilità per una ragazza.
Un figlio in età adolescenziale rappresenta un azzardo sia per la giovane vita, che si trova ad essere dirottata verso responsabilità troppo gran-di da sostenere e minacciata nel suo naturale sviluppo di crescita emotiva, sia per il bambino, in quanto l’ adolescente madre rappresenta un rischio per il suo sviluppo affettivo.
Quando i bisogni del bambino vengono vissuti in conflitto con quelli materni, determinando frequentemente vulnerabilità e disagi a livello psicologico, tra i quali depressione, scarsa autostima e diffusione dell’identità.
Nel 70% dei casi le giovani donne abbandonano gli studi, con conseguente frustrazione e allontanamento dal gruppo dei pari.
Le madri adolescenti, nella maggioranza dei casi, svilupperanno atteggiamenti emotivi negativi rivolti al bambino, con una scarsa condivisione e disponibilità emotiva nei suoi confronti, manifestando tendenze punitive, ostili e negligenza nel suo accudimento, fino a giungere anche al maltrattamento.
Il legame che costruirà il bambino, in molti casi risulta di tipo insicuro evitante e disorganizzato, come conseguenza della mancanza di sensibilità della madre nei suoi confronti, sarà un legame fondato su una rappresenta-zione di madre non disponibile a soddisfare i suoi bisogni.
La maternità in età adulta, consapevolmente raggiunta, non è più considerata come la sola modalità di affermare l’individualità della donna, bensì come valore aggiunto rispetto alle sue molteplici possibilità di affermarsi nel mondo.
Non più quindi unica condizione per vedersi riconosciuto un ruolo sociale, ma la scelta di potersi dare una possibilità , quella di ricevere amore e di poterne dare.
La scelta della maternità non si chiude dunque nel farsi madre, ma, al contrario è la donna che si apre al mondo con la maternità, rivelando e offrendo quanto di buono sente di avere dentro di sé.
Divenuta una scelta consapevole, assume un ruolo ad essa favorevole in un ambito di autorevolezza e affermazione, rispetto a se stessa e al mondo.
Ma al riconoscimento della voglia di maternità di una donna, vissuta per un altro che è dentro di sé, segue il riconoscimento sociale del ruolo da svolgere, all’interno e fuori del proprio nucleo familiare.
Assumere un ruolo riflette sempre un riconoscimento da parte di un “altro”.
L’ altro è il mondo, che pensa già di avere l’idea di come deve essere “una Madre” o meglio “una Buona Madre”. E’ il mondo che sta a guardare, col suo modello precostituito di maternità.
Che giudica, che commenta e condiziona l’agire materno, ed ecco che allora essere una buona madre o al contrario una cattiva madre, sono a-spetti che assumono un valore determinante per la qualità della vita e la stabilità emotiva della donna e della coppia, ma ancora di più per la crescita sana del bambino.
Considerata la risonanza sociale che il termine assume già all’interno del gruppo famiglia, rispetto al quale c’è un’ investimento emotivo notevole.
Il carico di aspettative è forte, gravoso, e non sempre risulta facile da sostenere.
Storia di Piera
Piera ha 37 anni ed un bambino di tre mesi.
Soffre di attacchi di panico, non riesce ad uscire di casa per la paura che al bambino possa succedere qualcosa di brutto in sua assenza, o di sentirsi male quando è col bambino per strada.
Chiede aiuto alla madre per la cura del bambino ( cambio, bagnetto etc) e per la passeggiata quotidiana del bambino che non riesce a fare da sola.
La madre si mostra disponibile verso al figlia e volentieri si reca presso la sua abitazione per aiutarla, anche più volte durante il giorno.
Piera dice di sentire il peso della responsabilità di crescere suo figlio.
“ Non avrei mai pensato quanto fosse difficile crescere un bambino, credevo di essere pronta e invece non ce la faccio, ho paura per tutto e penso di non essere all’altezza e mi pesa anche non poterlo dire perché non vorrei passare per una cattiva madre. Ne ho parlato col mio compagno, ma lui minimizza, dice che è normale, ma io non mi sento capita…”
Questo è lo stato d’animo di una donna, che si sente soffocata dalle aspettative familiari e sociali del ruolo che deve assumersi. Una donna che è crollata sotto la scure del giudizio sociale.
La sua richiesta di aiuto alla madre, non fa altro che aumentarne il senso di incapacità e di inadeguatezza rispetto al ruolo che essa stessa pensa di dover sostenere.
La madre, con la sua disponibilità avvalora la credenza di Piera che da sola non può farcela, inoltre con la paura di lasciarla da sola col bambino, provoca in lei uno sgomento ancora più grande, poiché rinforza l’opinione di incapacità che ha di se stessa.
Ma Piera vuole dimostrare a tutti di potercela fare e cerca di non pensare alle cose peggiori che potrebbero accaderle, si sforza di fare le cose per sé e per il bambino, col solo risultato di sentirsi ancora più debole e inadeguata, poiché il non voler pensare deliberatamente a qualcosa, porta, inevitabilmente, a pensarci ancora di più e ad essere sopraffatti dall’inquietudine che quello stato mentale provoca.
“Amo mio figlio, ma forse non è abbastanza, perché mi sento così fragile nei suoi confronti. Quando mi guarda con quegli occhietti sento una morsa al petto, sento che lo sto tradendo, sto ingannando la fiducia che lui ha in me. Lui si affida a me, ma non sa che io sono fragile, lui si fida di me completamente, senza sapere che non sono all’altezza, che ho mille paure, che non ce la farò …”
Piera è un ingegnere informatico e sul lavoro è molto stimata e determinata. Riesce a tener testa i colleghi durante le riunioni e si sente molto sicura di sé. Ha raggiunto una buona posizione in Azienda, ma in questo momento anche il lavoro non ha più importanza per lei, non riesce ad immaginarsi lontana dal figlio.
La sua vita affettiva ha visto un matrimonio fallimentare, una nuova convivenza e solo dopo qualche mese scopre di aspettare il bambino.
La madre di Piera è stata sempre molto presente nella vita della figlia, “ Con mia madre ho sempre avuto un bellissimo rapporto, le ho sempre detto tutto e lei mi ha sempre consigliato proprio come un’amica …”
La madre “come un’amica”, non è un ruolo funzionale rispetto al rapporto materno, la vita affettiva passa attraverso la gerarchia genitoriale, dove i ruoli dei genitori devono essere ben definiti per poter esercitarne l’autorevolezza, altrimenti si crea confusione e commistione di ruoli.
L’ amore e l’ attenzione per i figli deve essere mediata da una gerarchia, che non prevede un rapporto “alla pari”, ma dove il rispetto del ruolo è definito dal confine della considerazione genitoriale del figlio verso il genitore e di quest’ultimo verso la responsabilità che deve assumersi.
La madre di Piera ha instaurato con la figlia un rapporto fusionale, anticipandone anche i desideri, ha sempre cercato di proteggerla e di tenerla lontana dai pericoli con atteggiamenti iperprotettivi, col risultato di generare nella figlia un’ affettività di tipo insicuro.
Con la maternità di Piera la madre si sente maggiormente in dovere di sostenerla, dimostrandole, in modo ancora più pressante, “come deve essere una buona madre”.
Il padre di Piera , al contrario è definito “assente” dalla figlia. Taciturno, e distante, non si è mai interessato alla vita di Piera. Un uomo dedito al suo lavoro e a null’altro. Col padre Piera ha un rapporto formale.
“Per mio padre sono sempre stata trasparente”, “ Tutte le volte che gli chiedevo qualcosa, anche di accompagnarmi da un’amica a studiare, lui si negava sempre, aveva qualcosa di più importante da fare, poi non gli ho più chiesto nulla, c’era mia madre”.
La madre, quindi, cerca anche di sopperire alle mancanze paterne, dimostrando un atteggiamento esageratamente proteso verso la figlia, che diventa il suo unico motivo di vita.
Ancora oggi la madre si sostituisce a lei nel compito di provvedere ai bisogni del suo bambino. Piera le chiede aiuto e si sente quasi in obbligo di farlo, perché avverte l’ intervento della madre imprescindibile dalla sua quotidianità.
Un rapporto madre/figlia a doppia mandata, completamente interdipendente.
Le fragilità di Piera si erano già fatte sentire durante tutto l’arco della gravidanza, ma i numerosi disturbi che lei riferiva venivano attribuiti alla normale situazione emotiva dovuta alla gestazione.
Piera aveva nascosto molti dei suoi sintomi al compagno e alla madre, evitando di parlarne, per non apparire ai loro occhi, “ Una donna lamentosa e impreparata ad avere un bambino”.
Intanto continuava a passare le notti in bianco, con continui pensieri di cose orribili che potevano accadere a lei e al bambino. Pensieri che erano diventati delle vere ossessioni e di cui non riusciva a liberarsi.
Spesso si scopriva a fare gesti propiziatori per scongiurare il peggio, e questa era diventata una modalità per riuscire ad uscire di casa.
In realtà Piera stava sviluppando un disturbo di tipo ossessivo – compulsivo, ma non lo sapeva ancora. Gli attacchi di panico erano solo la punta dell’ iceberg che aveva originato la sua inquietudine, non riconosciuta ed affrontata per tempo.
Piera non ce l’ha fatta più, ha chiesto aiuto, dandosi la possibilità di uscire fuori dalla gabbia che lei stessa ha creata attorno alla sua vita.
Ha imparato ad accettare i suoi limiti, le sue fragilità, le sue paure legittime, concedendosi anche la possibilità di poter sbagliare, questo le ha dato la forza di affermare il proprio ruolo materno agli occhi dei familiari e di costruire il suo “senso materno”, scevro da qualsivoglia emulazione.
Ha imparato a guardare in faccia le sue paure, evitando di volerle fuggire, perché quando si cerca di scappare dalle proprie angosce queste inseguono e aggrediscono senza lasciare vie di fuga, senza dare la possibilità di potersene difendere.
La forza interiore che ha acquisito ha restituito fiducia nelle sue capacità, e si è potuta finalmente liberare dalla morsa materna che non le consentiva di vivere la sua vita.
Come è nata l’idea di questo libro?
In un momento storico di deriva sociale dei ruoli genitoriali, ho sentito l’esigenza di scrivere un libro che potesse essere di supporto ai genitori, ma anche a coloro che sono attenti all’infanzia e interessati allo sviluppo e alla crescita sana ed equilibrata di un bambino. La mia attività di ricerca mi ha fortemente aiutata in questo progetto, e la spinta mi è stata fornita proprio dai genitori, dalle mamme e dai papà, che in maniera confusa mi chiedevano aiuto, per districarsi nel difficile cammino di crescita dei propri figli.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
La stesura mi ha richiesto un impegno notevole, perché gli argomenti sono tanti e per la trattazione ho ricercato un linguaggio che potesse arrivare a chiunque, pur trattando argomentazioni di natura scientifica
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Gli autori di riferimento sono quegli stessi che hanno permesso la mia formazione clinica. Sono una psicoterapeuta ad indirizzo breve strategico, pertanto il mio autore primario è certamente il Prof. Giorgio Nardone, a cui si affiancano Paul Watzlawick e gli autori della Scuola di Palo Alto, ma anche Donald Winnicott, Melanie Klein,John Bowlby.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo tra il verde dei Castelli Romani, ma le mie origini sono campane. Ho vissuto per gran parte della mia vita nella città del sole e del mare, Napoli.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
È di prossima uscita in libreria “Il genitore strategico. Vincere le sfide con i figli senza combattere”. Come naturale evoluzione di “I bambini non nascono cattivi”. Ma a breve sarà pubblicato anche il mio primo romanzo, “Vulìa, l’altra me. Tutto quello che ho fatto per amore, l’ho voluto”, dove la prosa e la poesia si rincorrono senza superarsi mai.
Questo libro mi ha offerto riflessioni importanti sul mio modo di essere genitore, ma soprattutto mi ha dato suggerimenti da mettere in atto con i miei figli. Lo consiglio perché è veramente un manuale utile per imparare a gestire i bambini in modo efficace e con amore.