
Edito da Dark Zone nel 2018 • Pagine: 195 • Compra su Amazon
Che relazione c'è tra la 'ndrangheta milanese e l'assassinio di Suzana Obradovic, giovane cameriera che si era trasferita nel silenzioso e isolato borgo di Fainazza, in provincia di Gorizia? La ragazza, una forestiera arrivata da poco, era considerata da molti un ostacolo alla routine del villaggio. Ma quando a indagare giunge il commissario Umberto Fabbri, della DIA di Milano, anche gli abitanti capiscono che dietro quel delitto si nasconde qualcosa di spaventoso e sconcertante. Dopo attente valutazioni, Fabbri radunerà tutti i sospettati nell'unico bar del paese, per rivivere con loro la notte dell'omicidio e svelare la soluzione del mistero, tra rancori celati e trappole ben oliate.

Era sera. Parenzo si crogiolava nella primavera con la dolcezza di un neonato nella culla. Il Levante spirava mansueto, spruzzando sulla città e sul porto un aroma floreale fresco
e inebriante. Aveva smesso di piovere, la temperatura era di poco sopra ai dieci gradi e l’hotel Rainbow, isolato in periferia e ancora bagnato, era proprio sulla rotta della brezza. Se avesse potuto, avrebbe rabbrividito.
Domagoj, seduto al bancone del bar accanto alla hall, osservava Zlatan contare i soldi al centro della stanza e rimuginava con un brandy sulla sua sorte. Sul groppone quarantasei anni,una guerra civile e quattro uomini a cui aveva ficcato una pallottola in corpo; quattro cadaveri, senza contare quelli durante la grande burrasca in Bosnia.
Era stato fortunato e sfortunato allo stesso tempo. Fortunato perché, a differenza di amici e parenti, era riuscito a scamparla e a prosperare al sicuro in una località tranquilla davanti al mare. Poi, di fronte al suo attuale datore di lavoro al tavolo con i due italiani, si sentiva irrimediabilmente tagliato fuori.
Zlatan aveva la metà dei suoi anni, parlava tre lingue ed era direttore dell’hotel, un impiego onesto e rispettabile, svolto tra il più sincero consenso sociale e sotto la sua spassionata tutela.
Domagoj assaporò il peso della pistola sotto la giacca. Se non fosse stato nel posto sbagliato al momento sbagliato, a quest’ora forse avrebbe goduto della stessa importanza e, magari, a casa lo avrebbero atteso una moglie e dei figli. Ma lui era a Monstar durante l’assedio e, dopo aver trascorso la giovinezza a seppellire genitori e sorella e a impratichirsi nell’arte del combattimento senza quartiere, non se la sentiva più di invertire la rotta e mettere su famiglia. Inoltre, la sua occupazione aveva il vantaggio dell’indipendenza. Zlatan poteva non soddisfare più le aspettative della clientela e sarebbe stato liquidato in fretta, lui avrebbe messo a disposizione i suoi servizi a un altro compratore con lo stesso appannaggio e gli stessi privilegi. Poi, nella sua posizione si beneficiava della possibilità di rinunciare alle luci della ribalta. Anche allora rimaneva in disparte a sorseggiare un liquore, al capo la seccatura di esibire agli italiani in visita salamelecchi difficili da somatizzare.
L’intrattenimento era dovuto, poiché grazie a quegli ospiti, gli unici del weekend e all’apparenza turisti di Pasqua, l’albergo aveva incassato in un sol giorno la bellezza di cinquantamila euro, un record per un «tre stelle» durante la bassa stagione. Sull’origine del denaro era meglio non indagare, però sugli italiani qualche supposizione era germogliata.
Tornando indietro all’anno prima, il Rainbow non faceva onore al suo nome, essendo una stamberga tetra e fatiscente con il fiato della demolizione sul collo. Poi si erano presentati loro e, con una mano di vernice e con mobili e insegne nuovi, avevano generato sorprendenti attrattive. I profitti erano stati ragguardevoli e Zlatan degno delle lodi di un qualunque proprietario. Ma chi era il proprietario? Chi aveva pagato la ristrutturazione? Forse era il quarantenne trasandato seduto accanto al direttore. Strano. Perché più che riscuotere proventi, sembrava essere venuto a portarli. Giungeva alla fine di ogni mese con una valigia piena di biglietti di banca, che Domagoj doveva sorvegliare fino alla loro partenza per lidi sconfinati.
Zlatan aveva il permesso di chiamarlo Francesco, ma per gli attendenti era il «signor Renda». Era un tipo quantomeno eccentrico. Non toccava mai alcool e tabacco e si ritirava presto nella sua stanza. Non voleva saperne né di conoscere altre persone, né di uscire dall’albergo, nemmeno per una breve sgambata. Quando aveva bisogno di qualcosa, era Zlatan a preoccuparsi di inviare un cameriere al più vicino supermarket. Renda parlava poco e vantava un’incrollabile corazza di serietà. Vestiva inoltre senza sfarzo: jeans sfilacciati e logori, una camicia sportiva al profumo di amatriciana fuori dai pantaloni e scarpe da ginnastica macchiate. Però ci teneva al fisico: longilineo e prestante, segno di una dieta opportuna e di un salutare movimento. L’unico estro erano le auto; sempre cilindrate non esuberanti, ma ogni volta un modello diverso: Opel Corsa, Seat Ibiza, Renault Clio, Ford Fiesta, Skoda Fabia.
Mentre le banconote frusciavano nelle mani di Zlatan, si sforzava di mantenere vivo l’interesse nel giovane accompagnatore spaparanzato al suo fianco. Questi si chiamava Gionni: ventidue anni, capelli neri e lunghi quanto bastava per un codino, ispida peluria di due giorni sul volto, t‑shirt bianca attillata, buona per mettere in risalto i pettorali e gli addominali. Invece di ammuffire al chiuso avrebbe preferito una dolce compagnia
e non smetteva di distrarsi lanciando occhiate a Marija, la ragazza alla reception, di cui aveva preteso di sapere il nome.
C’era anche un numero tre, Giuseppe, se non aveva capito male. Domagoj lo riteneva il più simile a lui. Su per giù stessa età e stessi metodi spicci; moro, espressione enigmatica, glabro, dozzinale completo grigio. Era in piedi in un angolo, poiché odiava stare seduto durante gli incontri ufficiali. I presenti dovevano rammentare in ogni istante i novanta chili di peso e l’atteggiamento predisposto all’aggressione. Domagoj alzò il tumbler verso di lui, e lui contraccambiò con un flebile cenno di assenso.
A quanto pareva venivano da Milano, ma non si sarebbe stupito se avessero avuto origini differenti. Li vedeva lui i lombardi veri in vacanza da quelle parti, tutta gente contegnosa e intimamente triste, che spendeva senza frignare e che si lamentava
delle multe per divieto di sosta.
Le banconote avevano risposto tutte all’appello. Con l’aiuto di Visnja, una segretaria grassoccia dal trucco pesante e le unghie lunghe, Zlatan le aveva separate secondo il valore e aveva provveduto a formare delle mazzette tenute insieme con una coppia di elastici. Il tutto era stato scaraventato in una ventiquattrore e gli animi poterono rilassarsi. La donna addentò un Bajadera e sigillò la valigetta. Si accarezzò i capelli folti e ramati e suggerì al direttore di tirare fuori dal retrobottega una bottiglia della riserva per le occasioni speciali.
«Domagoj!» sviò l’attenzione Marija alla reception. «Ovdje,
odmah!»1
All’uomo non piaceva prendere ordini in quel modo, ma il tono della voce era sospetto. Percorse senza fretta pochi metri, con le mani nelle tasche dei calzoni, e superò la porta spalancata che immetteva nella hall. Annusò nell’aria una sensazione di pericolo. La ragazza lo fissava algida e non chiedeva di meglio che mettersi a gridare. Domagoj si piantò a tre passi da lei e inviò uno sguardo preoccupato a Giuseppe, che non l’aveva perso di vista un attimo. Tra i due l’intesa fu perfetta. Il bestione mise le dita sul grilletto della Walther PPK sotto l’ascella e avanzò strisciando lungo il lato nascosto della stanza. Gionni fu il primo ad accorgersi della tensione crescente e fece per aprire bocca. Giuseppe lo ammutolì puntandogli contro il palmo sinistro.
Zlatan ripose il malloppo sotto il tavolino e incoraggiò Marija con un leggero ammiccamento. Renda aveva attaccato a cianciare di questo e di quello, e aveva calamitato l’attenzione su di sé. Tutto dava l’impressione di essere nella norma.
«Zaboravio sam nešto!» avvertì all’improvviso Domagoj, regalando alla ragazza un sorriso storto. Girò su se stesso e camminò veloce verso i quattro al tavolo, portandosi fuori dalla visuale dell’impiegata.
«Domagoj!» implorò quest’ultima.
Giuseppe estrasse l’arnese dalla giacca e uscì allo scoperto. Vide Marija con un braccio intorno al collo e un’automatica alla tempia; dietro di lei una calzamaglia avara di trattative.
«Tu, fermo lì, pistola a terra», disse l’intruso in un italiano stentato. Giuseppe ubbidì diffidente. «Domagoj!»
Il bravaccio non rispose, tirò fuori la sua arma e tentò di aggirare la minaccia inserendosi nella porticina a fianco del bar. L’impugnatura di una doppietta a canne mozze lo bastonò sulla fronte, buttandolo sul pavimento. Un secondo impiccione, altrettanto irriconoscibile, irruppe nell’ambiente saturo di adrenalina, spianando lo schioppo sui presenti.
Gionni provò ad alzarsi e a dire qualcosa.
«Začepite gubice!» ascoltò, e ritornò al suo posto.
Un calcione e la pistola di Domagoj, caduta lontano dal possessore, scivolò verso la hall. Giuseppe fu costretto a sedersi a terra accanto al collega gorilla. L’altro estraneo raggiunse il gruppo facendosi scudo con la segretaria, sul cui volto scorrevano lacrime e mascara.
Nessuno fiatava. La canna del gingillo si mosse da un volto all’altro degli ostaggi fino a scegliere quello di Zlatan.
«Money!»
Il direttore si strinse nelle spalle, una maschera d’ingenuità su un viso d’agnello, e indicò la reception.
«Kofer!» insistette l’uomo, picchiandolo sul naso con il fucile.
Era bene informato, chissà da quanto tempo li stava spiando. Francesco Renda gli diede il permesso di mettere sul banco la valigetta.
«Sapete a chi appartengono questi soldi?» provò a dissuadere l’italiano nella sua lingua, certo di essere compreso. «Andatevene adesso e la storia finisce qui.»
La conseguenza fu una botta in testa che lo fece sbilanciare.
Gionni non attese altro. Sollevò con entrambe le mani il tavolino e lo scaraventò contro l’avversario. Fu esplosa dalla doppietta una rosata di palettoni, che sforacchiò il soffitto, e due colpi dalla pistola accanto a Marija. Giuseppe provò ad avventarsi contro di lui, ma una pedata sul mento lo sbatté schiena a terra.
Francesco era al tappeto, giusto in tempo per vedere Visnja
contorcersi con un buco al braccio e la ventiquattrore recuperata dall’avversario. Gionni era stato tirato giù dal corpo di Zlatan e si raccapezzò solo quando riuscì a scostarselo di dosso. T-shirt imbrattata di sangue non suo e il direttore sforacchiato alla spalla. Brutta faccenda. Le due calzamaglie ripiegarono una dopo l’altra verso il bureau, trascinandosi dietro l’ostaggio semi-svenuto. La prima passò al compagno il bottino
ed ebbe l’accortezza di intascarsi le armi ancora a terra. Poi aprì la strada verso l’uscita secondaria.
Troppo ben informati, meditò Francesco, dedicando a Zlatan un broncio torvo.
Gionni sputò per terra, Domagoj accennò ad alzarsi.
«Ostani miran ili ćeš prestati disati!» ringhiò l’uomo con la ragazza, e la guardia del corpo ritornò con le natiche sul pavimento.
La polizia giunse sul posto dieci minuti dopo, convocata da Marija tra un pianto e una soffiata di naso. I tre italiani erano spariti, tanto non erano nemmeno registrati. La cassaforte nell’ufficio di Zlatan era stata svuotata. I piedipiatti scrissero nel loro rapporto di una rapina conclusasi con due feriti per il pugno di spiccioli, opera di disperati o di balordi.

Come è nata l’idea di questo libro?
Sono molto legato sia al Friuli Venezia Giulia, sia a Milano in cui sono nato. Sono sempre rimasto sorpreso dalla grande diffusione dell’ndrangheta che è stata capace di arrivare in luoghi impensabili. Inoltre volevo ambientare un thriller in un paese di provincia in cui tutti si conoscono e si ritrovano al bar. Unendo le due cose è nato il libro.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Ho svolto un’opera di ricerca avvalendomi della collaborazione dei miei parenti che abitano ancora in Friuli e leggendo saggi sull’ndrangheta. La difficoltà è stata ricostruire una “società maggiore” (nome di un’organizzazione di rilievo all’interno di una locale di ‘ndrangheta) plausibile.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Stephen King (per le sue capacità di ambientare storie fantastiche nella comune provincia), Marco Malvaldi e Massimo Carlotto per l’abilità di caratterizzare una provincia e per descrivere scene d’azione.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Adesso vivo a Milano ma ho trascorso infanzia e adolescenza a Corsico (MI).
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Mi piacciono i thriller, i gialli e la fantascienza. Continuerò su questa strada.