
Edito da Matisse Nigraterra - Amazon kdp nel 2021 • Pagine: 203 • Compra su Amazon
A seguito di un omicidio, un rione andino diventa l’ambientazione di segreti d’essenza morbosa e violenta, che unisce i suoi abitanti in una spirale che prima li vede diversi, divisi per poi connettersi con legami malati e indistruttibili.
Il passato doloroso, il lutto, la malattia mentale, la propria provenienza e la ricerca di sé stessi diventano con i vari personaggi dei reali protagonisti, intessendo tra le parole tematiche come la violenza di genere, l’immigrazione e il razzismo.
Includendo un personaggio d’eccezione, un cane, la lettura diventa diretta e più ampia, dando la possibilità a chi lo legge di conoscere un punto di vista differente, oggettivo, fuori dalla scena. Forse, anche più umano.
L’autore catapulta il lettore in una terra esotica e diversa dalla nostra, lo immerge nei profumi andini e nella bipolarità della globalizzazione, lo spinge a farsi un autoesame e a guardare la società con un occhio critico e consapevole.Finalista de IoScrittore 2021

Ma chi riderebbe così
della pioggia?
Trenta giorni prima dell’omicidio
Kuki zampetta scodinzolante al fianco di Sebastián. Non ama gli estranei nella sua strada, ma deve almeno scortarlo, è questione di gentilezza ed educazione. Gli anziani vanno rispettati e dopotutto lui conosce Naira, la sua preferita qui nel barrio.
Il vecchio zoppica sulla terra polverosa, che scema in un asfalto ruvido e piano. Tante cose da quando è nato sono cambiate, come le strade, la campagna che via via si è sempre più delimitata all’esterno del centro urbano. Se adesso una leggera brezza di eucalipto investe il suo naso, nella sua giovinezza chi viveva nei dintorni non sapeva cosa fosse il raffreddore per il profumo asfissiante delle foglie.
Il sole gli cuoce lentamente la pelle imperlata dall’amarezza provocata dalla reazione di Cortés, la ragazza che ama da quando ha diciotto anni. Ricorda ancora la prima volta che la vide: i corpi giovani, le giornate estive di duro lavoro presso i campi di tuberi. Quel giorno il sole scottava e asciugava il sudore che grondava costantemente dalla fronte di Sebastián. Non è mai stato bello, ma il suo fisico, caricato dal duro lavoro, era plasmato con forme marmoree, che con l’età sono mutate in linee morbide da fioraio.
Si sono persi di vista, direbbe qualcuno. Ma l’uomo che cammina lentamente esclude questa definizione. Il loro rapporto non è mai stato uno di quelli normali; di certo non era una semplice sbandata adolescenziale dettata dagli ormoni, ovvio! Quelli c’entrano sempre a quell’età, ma anche se la sua voce grave e profonda si è trasformata in flebile e soffocata, ciò che provava in quel periodo non è affatto cambiato. Forse è l’età che avanza, un po’ di quella demenza senile sulla quale da giovane aveva sempre scherzato. Pure adesso ci scherza, quasi ignorando completamente il fatto che potrebbe esserne affetto. Però ne è certo: qualsiasi cosa sia quello che sente è forte ed è maturato col tempo, anche quando erano separati. Persi di vista.
Gli occhi di Naira, pochi minuti fa, lo hanno raggirato, offeso. Non ricorda appieno ciò che si sono detti, ma non era solo sorpresa quella massa scura invalicabile che lo ha guardato. C’erano rabbia, rancore, sofferenza in essa. Non erano i grandi occhi di tanti anni fa che lo avevano ammaliato e rapito. Ricorda ancora le danze serrane di quella ragazza, che sotto sotto sa essere nascosta da qualche parte. Chissà se ama ancora l’archeologia come un tempo; comunque sia, lui ha coltivato questa passione tramite i documentari del mercato, quei maledetti DVD pirata che la sua caserita gli vende a uno o due soles. Gli piacerebbe, proprio come allora, incontrare Naira e raccontarle tutto quello che ha imparato, per recuperare gli anni persi.
Essendo un fioraio, più di una volta gli hanno chiesto quale fosse il suo fiore preferito e ha sempre risposto che è la buganvillea, soprattutto quella fucsia. Non tanto per il suo significato, piuttosto perché era il fiore arrampicato su un albero di eucalipto quando vide per la prima volta Naira.
Era una giornata torrida e calda come oggi. Il sudore bruciava letteralmente sul corpo madido di fatica. Quello di suo padre era uno dei primi campi che spuntavano fra gli alberi di eucalipto. Insieme al cugino spesso passava lì le mattine e i pomeriggi per preparare il terreno ai prossimi raccolti. Il miracolo di vivere a 3.259 metri sotto l’equatore è che il clima è secco e mai né troppo freddo, né troppo caldo. Non esistono stagioni, il ciclo annuale scorre in ventiquattr’ore, tra piogge torrenziali, venti primaverili e raggi cocenti. Fin da piccolo aveva colto in sé una strana propensione verso i fiori, era come se osservandoli riuscisse a regalarsi un po’ di pace nell’animo in tumulto.
Ora aveva quell’età nella quale non si è né bambino e né uomo, in quell’età in cui da una parte si è capaci di procreare e dall’altra non si è pronti per essere padre. Una via di mezzo, intervallata e agonizzante. Era proprio in bilico come un fiore della buganvillea che si arrampicava sul fusto di un albero. L’esposizione al sole e le ore d’ombra permettevano a quei fiori rossastri di rinvigorirsi. Sebastián li osservava spesso nelle pause che si concedeva dal duro lavoro; amava sedersi sulla terra appena lavorata, togliersi le scarpe e calpestare il suolo umido e sabbioso. Come radici, le dita penetravano il terreno e acquisivano energia vitale per quell’animo da diciottenne.
I capelli appiccicati alla testa ospitarono le dita del vento secco, provocando in lui un brivido freddo che percorse tutta la sua schiena, promotore di altro tipo di stimolo. Si alzò e credendo che oltre a lui non ci fosse nessuno – infatti il cugino era andato a fare una scappata dalla ragazza che corteggiava da mesi – si alzò e si diresse verso un albero colmo di foglie dal profumo forte e nauseabondo. Aprì la patta e orinò contro la corteccia come un cane, come gli aveva insegnato il padre. Sospirò stanco, si asciugò le mani ai pantaloni lisi e si rivestì. Fu lì che la vide. Nulla di così romantico alla fine, ma nonostante puzzasse di sudore, ormoni e piscio, riuscì a scorgere con lo sguardo il ballo di una ragazza. Lo rapirono la gonnella che mimava una pollera variopinta e quelle mani aggraziate dal vento. Nascosto dietro a un albero, osservava le movenze sensuali di un huaylas in piena regola. I versi acuti che faceva per darsi il ritmo furono un tuffo al cuore. Non erano le solite smorfie, era qualcosa di soave, energico. Il ritmo che si dava da sola era come gocce di un liquore caldo nell’esofago, di quelli che rubava dalla dispensa di suo zio.
All’improvviso riuscì a sentire il clamore degli strumenti e di una voce strozzata e frammentaria. Respirò l’atmosfera festiva giungere al suo culmine con un ultimo acuto di Naira. Le lunghe e corpose trecce caddero pesanti sulla sua schiena. Sebastián aguzzò la vista, che avesse finito di ballare? No, nell’aria, insieme al vento, si respirava elettricità che non prometteva di trasformarsi in qualche altro tipo di energia. Di certo sembrava proveniente da qualche altra parte, non era un huaynos. Infatti i suoi piedi iniziarono a muoversi con grazia, con un ritmo sostenuto, ma più lento; lasciarono spazio al suono della musica. Lo sguardo perso della ragazza, diretto a un pubblico naturale, che comprendeva anche un ragazzo nascosto in preda ai bollori, era tenue e seducente, un’arte che, nonostante la giovane età, brandiva con tecnica.
La saya è un ballo grazioso, quanto scenografico. I protagonisti non sono i corpi né tantomeno le note musicali. I vestiti sono ciò che catturano l’attenzione degli occhi, i colori e il movimento che creano donano agli spettatori una visione caleidoscopica. Ma quello che vedeva Sebastián era tutt’altro: il corpo femminile era lo spettacolo.
Un tuono. La pioggia iniziò a cadere dal cielo, ma non fermò la ragazza. Le sue forme, le linee e i capelli neri continuarono ad essere i protagonisti. Lo scrosciare fu sovrastato dalla sua voce dolce e melodiosa. Quando i vestiti iniziarono ad aderire al corpo di Naira, Sebastián si voltò di scatto, il cuore gli batteva all’impazzata e si sentì una ragazzina constatando con felicità la sua condizione. Respirò l’aria colma dell’energia che propagava quel corpo danzante, che a qualche metro da lui sembrava libero da ogni laccio sociale. Si voltò e cercò gli occhi di Naira. Nonostante fossero chiusi si sentì penetrato dal suo sguardo. Rideva. Forse di lui o della pioggia? Ma chi riderebbe così della pioggia? Una persona libera, si rispose da solo.
Alzò lo sguardo, ma di lei nessuna traccia. Che fosse un’altra delle sue storie? Che se la fosse immaginata insieme alla pioggia? No… era tutto bagnato, da capo a piedi. Non se l’era immaginata e l’unica cosa che poteva sperare era quella di trovarla un’altra volta lì a danzare.
Naira, davanti al suo portone, cura una buganvillea, pensa Sebastián sorridendo.
Kuki si ferma soddisfatto, finalmente può lasciare Sebastián. All’angolo gli dà un’ultima occhiata di sfuggita e vede un sorriso disegnato dalle rughe di quel viso. Cos’avrà mai da sorridere tanto?
Le auto spadroneggiano sulla strada, seguendo il vento secco in un torrido ciclone. Il cane ringhia alla brezza, non sopporta quando gli scompiglia il pelo già di per sé sporco. Lo chiamano el blanco, anche se di bianco ormai non ha più nulla.
I sogni a occhi aperti ultimamente sono aumentati, e spesso ritraggono la sua vita. Di certo ne avrebbe tante da raccontare se solo parlasse, ma non è nel suo stile. Si considera un cane piuttosto silenzioso.
Rolando esce dalla porta d’ingresso. Kuki gli va incontro scodinzolando. L’uomo lo scaccia irritato. Deve andare al lavoro e, nonostante non ci farebbe caso nessuno, non vuole andarci con i vestiti che sanno di cane. Kuki non si offende, riconosce che non porta con sé la fragranza floreale della chacra ma che, aggrappato alla sua pelliccia, trasporta l’odore di strada. Vásquez è ormai scomparso e a el blanco non spetta più nessuna mansione da “padrone” di strada. Sulle sue spalle non porta il peso del mos maiorum, forse perché neanche sa che cosa sia, ma di sicuro la vita gli ha insegnato che certe gentilezze non possono che portare benefici, come pasti sempre presenti e una carezza sulla testa ogni tanto.
Torna indietro per accoccolarsi sotto l’ombra della buganvillea di Naira, ma una voce attira la sua attenzione.
«Kuki?»
Sulla porta di Rolando, dopo svariati anni, vede Abigaíl. Il fantasma della madre di David e Rolando Vásquez. Non gli sembra reale, ha un che di ectoplasmatico. La donna sorride con i suoi occhi pezzati da porcellino d’India, mentre continua a chiamarlo. I capelli con una lunga ricrescita grigia ondeggiano insieme alla polvere. Si piega sulle ginocchia, strusciando la vestaglia bianca a terra.
«Vieni qui», lo chiama.
El blanco si avvicina con titubanza alla donna.
«Entra», lo invita alzandosi. Lo fa come se stesse ospitando una persona illustre. Iniziano a salire insieme le scale che si affacciano sull’entrata.
«Scusami, stiamo ancora ristrutturando».
Il cane poco capisce certi convenevoli e sale con curiosità gli scalini osservando la casa che non aveva mai visitato. Il disordine regna sovrano in tutti i vani.
«Qui un giorno ci faremo una grande sala, tanto non ci sta nessuno», gli dice indicando la stanza dove poco fa Rolando e David stavano discutendo sulle notizie.
Salgono una seconda rampa, il famigerato secondo piano. Non ha mai visto la finestra aperta dalla strada.
«Ecco, accomodati». Kuki osserva la gettata di cemento che funge da pavimento, gli ricorda l’asfalto che copre la tratta del viale poco lontano, eppure non sente neanche la traccia dell’inebriante odore di cane. Abigaíl accende una luce debole zigzagando fra i piatti e i vestiti sparsi a terra. Non pare aspettasse visite.
Guardandola qui nella stanza non sembra più uno spettro, bensì una creatura selvaggia che si sente nel suo habitat, quando si trova in cattività. La donna, invecchiata dal buio e dalla puzza di depressione che sfoggia l’oscurità, si adagia sull’angolo del letto, poi si piega verso il cane; muovendo i piedi – come una bambina che non sa come chiedere una caramella – calcia una birra cusqueña, che va in mille pezzi. Kuki si spaventa, mentre la posa e l’animo della signora Vásquez rimangono invariati.
«Mi crederai pazza», esordisce ridendo. Perde il suo aspetto da roditore sornione e adotta un tono serio e cauto. I suoi occhi si puntano in quelli de el blanco, che si immobilizza davanti a uno sguardo severo di un condor colmo di vita e portatore di morte.
«Voglio farti una domanda e qualunque sarà la tua risposta deve rimanere tutto molto confidenziale».

Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea è nata a seguito di un viaggio intrapreso in Perù nel 2019. Entrare in contatto con una nuova cultura e assaporare la vita del Sud America mi ha cambiato profondamente, devo ammettere di aver lasciato là un pezzo del mio cuore. Ho deciso di scrivere questo romanzo lasciandomi ispirare da un cane che vive nel quartiere nel quale ho pernottato. L’ho fatto per poter finalmente tornare alla quotidianità italiana e, in qualche modo, lasciar andare i ricordi legati a quella terra meravigliosa. Come dicevo, è un romanzo nato dalla voglia di trasportare i miei sentimenti in qualcosa di scritto, con il desiderio di estraniarmi da questi e quella di condividerli con altri.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Non è stato semplice, nonostante la prima stesura sia avvenuta in appena tre settimane. È stato doloroso, ma necessario.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Se devo esser sincero non ho proprio degli autori di riferimento, ma di sicuro Donato Carrisi, Oriana Fallaci e Franca Sebastiani hanno influenzato la mia scrittura e lo stile tagliente che mi caratterizza.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nato a Carrara e ancora vivo in provincia, in una frazione di Fosdinovo, un paradiso immerso nella natura.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Al momento ho in progetto un sequel de “Il barrio dei fiori”, ma non nego che fra poco svelerò una sorpresa preistorica per i più piccoli. In futuro, terminato il liceo, ho intenzione di studiare qualcosa di inerente al mondo della scrittura e dell’editoria, poi ovvio! Appena si potrà voglio tornare a viaggiare, prima tappa: Perù, poi il resto del mondo!