
Edito da Mariano D'Angelo nel 2021 • Pagine: 240 • Compra su Amazon
"Il bastardo" è una storia tra il giallo e l'avventura, ambientata nella Roma antica. Per la precisione nell'epoca della repubblica.
È ispirata ad una storia vera, un magistrato romano avendo messo gli occhi sulla figlia di un eroe e approfittando che questi era in guerra, grazie ad un inganno, ne rivendica la proprietà.
Pur partendo da questi fatti, la storia del libro se ne discosta totalmente.
Nel romanzo l'eroe è Apollonio, figlio di una greca e di un romano, per legge riconosciuto cittadino, ma mai accettato fino in fondo e per questo chiamato da tutti Spurio (il bastardo, appunto). Per farsi amare dai romani, diventa un combattente eccezionale.
Quando Claudio (l'antagonista) rapisce la figlia, Spurio inizia una guerra personale per riconquistarla.
La storia è scritta volutamente come fosse un film, infatti il ritmo sostenuto e i continui colpi di scena ne caratterizzano la prosa. Nessuno dei protagonisti è totalmente positivo o negativo, in ognuno di essi albergano più anime, così come avviene nelle narrazioni più moderne.
La società rappresentata è il mondo talvolta aspro dei primi secoli di Roma.
Corruzione alternata a gesta eroiche, tradimenti a slanci passionali, sangue a pietas.
Spurio inconsapevolmente combatte una guerra anche contro se stesso e i demoni che albergano dentro di lui.
Figlio di un'infanzia rubata, analogamente al suo nemico.
Niente è escluso né nella battaglia né nella vita dei personaggi.
Infatti per questo è più adatto ad un pubblico adulto per la crudezza delle descrizioni.

Il giorno prima tutti gli uomini in grado di combattere erano stati obbligati a radunarsi in Campo Marzio. Al mattino erano partiti dalla città e con una marcia forzata avevano raggiunto la montagna, dove gli Equi, da tre giorni, tenevano sotto assedio i loro commilitoni.
Tra poco ci sarebbe stata una battaglia e tutti, benché a migliaia, erano soli ad affrontare la morte.
Nei pensieri di ognuno si affacciavano sentimenti difficili da dominare. Cercavano nei loro cuori la fiammella del coraggio, oscurata dal muro della paura. Qualcuno si sorprendeva a pensare alle cose che aveva trascurato, alla porta di casa con l’asse di legno da sostituire, al figlio lasciato a dormire senza un saluto. Altri progettavano già il futuro, quando tutto sarebbe finito.
Tra i Romani c’era un uomo taciturno, la cui audacia era quasi incoscienza, nonostante sembrasse quieto.
Il suo nome era Apollonio, ma tutti lo chiamavano Spurio per ricordargli sempre chi fosse: un bastardo. Figlio di un romano e di una greca, romano per legge, ma non bastava. Per questo era diventato un guerriero, per meritarsi il rispetto. Ed era uno tra i migliori combattenti, temuto dai nemici che non volevano incontrarlo e cercato dai compagni che lo volevano al proprio fianco. Ma non era sufficiente per essere considerato un vero romano.
Lui invece si sentiva profondamente romano, ma ogni volta che la Grecia si affacciava nella sua vita ne avvertiva il richiamo nel sangue, forse perché di nascosto sua madre gli aveva insegnato ad amare gli dei greci.
La madre era stata il centro del suo mondo. Era un bambino quando lei seguì il padre per andare a prendere il carico di una nave che avrebbe rivenduto, e vide il mare per la prima volta. La mamma era bellissima: la sua carnagione al sole era diventata ambra e i capelli neri splendevano. Eppure negli occhi di lei Apollonio lesse una grande tristezza.
“Non ti piace il mare?”
“Amore mio, la prima volta che vidi il mare fu per lasciare per sempre la mia terra.”
“Non sei felice con noi?”
Accarezzandolo dolcemente rispose: “Certo, lasciami solo versare un po’ di lacrime.”
Apollonio sentiva anche lui quella terra dentro. Anche se non c’era mai stato l’aveva vista mille volte nei racconti della madre, e giurò, a se stesso e a lei, che un giorno ci sarebbero tornati per sempre.
Ma forse questo suo desiderio non corrispondeva a quello degli dei. Pochi anni prima aveva offerto olio ai culti romani nel tempio sacro dell’Urbe, e la collera degli dei greci era stata immediata: a Roma non si era ancora spenta la fiamma votiva che i Siculi distruggevano la città della madre, la sua città, Morgantina, lasciando un cumulo di macerie e di morte.
Apollonio aveva trascorso l’intera vita ad allenare il corpo e la mente alla battaglia, perché era convinto che attraverso le vittorie in guerra avrebbe conquistato il rispetto e la devozione dei suoi concittadini. Il suo tormento non lo faceva più debole, lo fortificava, gli accresceva la determinazione.
Non conosceva la paura, né dei nemici né degli amici, ma temeva la collera degli dei, che non combattevano con armi che lui comprendeva. Non poteva ignorare gli dei greci, né quelli romani: era prigioniero di entrambi.
Non voleva più irritarli, perciò aveva atteso tutta la notte ai piedi di un albero, lì sul monte Algido, un segno che gli indicasse il loro desiderio.
Proprio in quel momento, mentre pensava al proprio destino, quattro uccelli notturni si fecero sentire. Trasalì, consapevole del presagio funesto.
Una mano forte gli toccò la spalla, spazzandogli via questi pensieri dalla testa: era Cincinnato. Il comandante non era alto, eppure svettava su tutti. Non era più giovane, ma ne aveva la vitalità. Non te lo chiedeva, eppure l’avresti seguito dovunque, fino agli inferi a sfidare Plutone.
Non si dissero nulla, non c’era bisogno. In realtà non si erano quasi mai parlati, né prima combattendo fianco a fianco, né ora alla vigilia di un nuovo scontro, né mai si sarebbero parlati in futuro.
Il comandante si incamminò lentamente verso il campo, preceduto da Spurio. Non portava l’elmo per poter mostrare i suoi capelli riccioluti, cui doveva il proprio soprannome, perché sapeva che in battaglia gli uomini con lo sguardo lo avrebbero sempre cercato e sempre trovato, e per questo avrebbero dato ancora di più.
Lucio Quinzio Cincinnato era un uomo di grandi capacità, capiva che cosa piaceva alla gente, sia al popolo di Roma che lo aveva acclamato, che ai suoi uomini. Li raggiunse che erano già schierati e quando parlò, chiamò per nome tutti quelli che riconosceva, ed erano tanti, perché sapeva che mostrare loro di amarli valeva di più che amarli e basta, anche se amandoli li portava a morire.
I soldati erano felici. Felici di essere stati anche per un solo istante negli occhi e sulla bocca del loro condottiero. L’uomo che, chiamato a difendere Roma, aveva lasciato il lavoro dei campi senza consegne, certo di ritornarci a breve; che li aveva fatti preparare con armi e viveri necessari ad una guerra rapida, per infondere loro maggiori certezze. Quell’uomo rappresentava la promessa di tornare alle proprie famiglie.
Gli uomini si abbracciarono prima di combattere, sicuri che, al fianco di quel guerriero, sarebbero tornati a casa. Ma pregando gli dei che, se proprio qualcuno doveva cadere, che fosse un altro, anche il compagno che stavano abbracciando in quel momento.
Per Spurio gli istanti che precedevano la guerra erano eccitanti, lui la aspettava, la desiderava, voleva stare lì, aveva dedicato tutta la vita fin dall’infanzia a prepararsi a combattere.
Cincinnato invece dimostrava sempre una serenità che nasceva dalla consapevolezza di chi sapeva che cosa fare, in qualsiasi occasione. Era partito da Roma con un piano preciso ed ora era il momento di metterlo in pratica.
Divise il suo esercito. Mise una squadra a costruire una barricata e tenne gli altri uomini pronti a combattere. Chiese poi a tutti di urlare e fare clamore, più che potessero. Le urla arrivarono fino ai loro commilitoni assediati dagli Equi, che, eseguendo un ordine mai impartito, urlarono anche loro.
La notte amplificò il terrore nelle menti del nemico, che cercava di organizzare in poco tempo una difesa difficile: da assalitori ad assaliti.
Era il momento di iniziare la battaglia: le truppe di Cincinnato e i romani assediati iniziarono a combattere sotto un unico comandante, prendendo il nemico in mezzo.
Le urla continuarono per molto tempo e insieme ad esse risuonarono le spade e gli scudi e le lance e le frecce. Ad ogni voce di queste armi rispondeva un grido disperato degli uomini che stavano combattendo per rimanere in vita.
I romani, nonostante l’impervio terreno, avanzavano, costringendo gli Equi ad indietreggiare fino a trovarsi schiena contro schiena con i loro compagni, la parte dell’esercito che aveva dovuto girarsi ed affrontare gli assediati.
Il monte, quella notte, divenne la tomba di centinaia di uomini: non era possibile camminare senza calpestare cadaveri, mentre al buio gemevano e piangevano i feriti. I lamenti erano gli stessi di tutti gli uomini, Equi e Romani, e ti entravano dentro fino a scuotere l’anima e nessuno poteva rimanere indifferente, neanche Spurio, che pure aveva vissuto molte volte questa angoscia.

Come è nata l’idea di questo libro?
Come il protagonista del mio romanzo, anche io sono un bastardo. Sono nato in una terra che amo ancora e ho scelto di vivere in un posto che altrettanto amo. Questi sentimenti generano conflitti interni che Apollonio pensa di gestire diventando il più forte, il più bravo, nel desiderio di sentirsi amato.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
È stato un lavoro meticoloso che ha dovuto armonizzare la creatività con la ricerca storica. In questo ho avuto al fortuna di avere un editor, Maria Teresa Bilancia, molto scrupolosa e competente.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Tutti. Io sono un lettore bulimico e da ognuno dei libri letti imparo qualcosa.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Roma, per scelta convinta eppure nel mio cuore sono rimaste la Campania e la Puglia dove ho vissuto in precedenza.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Il Bastardo ha un naturale prosieguo, spero di poterlo portare a termine.