Edito da VJ Edizioni - Milano nel 15 Febbraio 2020 • Pagine: 126 • Compra su Amazon
Quale potere è racchiuso in uno sguardo? Secondo gli antichi lo sguardo, quando ha raggiunto tutta la forza di penetrazione e di influenza di cui è capace, diventa un'arma terribile. E' un giorno cupo per la dottoressa Carla Barbieri, psichiatra presso la clinica Villa dei Gigli. Undici Febbraio 2019. Se il marito Luciano fosse stato ancora in vita, avrebbero festeggiato il loro ventitreesimo anniversario di matrimonio. Il destino però ha voluto che un'incidente d'auto se lo portasse via quasi due anni prima e da allora è sprofondata in una profonda depressione dalla quale non riesce a riemergere. Ma Carla non può immaginare l'incontro che l'aspetta in quella già infausta giornata. A seguito di un tentativo di suicidio, quella mattina arriva in clinica una nuova paziente Beatrice Marconi. La donna possiede uno sguardo dotato di poteri soprannaturali: è in grado di far dire o fare cose contro la volontà della persona che ne diventa vittima. Carla, incaricata del colloquio d'ingresso, ne sperimenta gli effetti e, sconvolta e stupefatta, decide di indagare su di lei per capire chi è e, soprattutto, cos'è. Si tratta di un'aliena? Di una creatura soprannaturale? Di una strega moderna? Investigando scopre che Beatrice ha tentato di togliersi la vita in seguito alla depressione subentrata dopo la morte per cancro dell'unica figlia Eleonora di soli quindici anni. Apprende anche che che la donna è responsabile della guarigione miracolosa di un'altra ragazza affetta dalla stessa malattia della figlia. Beatrice nel frattempo si rende responsabile dell'orribile morte di un paziente della clinica, un uomo accusato in passato di essere uno stupratore seriale. A quel punto, pur consapevole di dover sfidare i suoi stupefacenti poteri, Carla decide di confrontarsi con lei, imparando che, a fronte di straordinarie facoltà, fanno da contraltare enormi limiti imposti alla sua vita: l'impossibilità di poter usare il suo potere di guarigione su se stessa o sui consanguinei, di avere più di un figlio, l'essere costretta a vivere senza fissa dimora per non destare sospetti, la preclusione a potersi costruire una rete sociale di conoscenze e di amicizie. Alla fine però Carla riesce a farle capire che, pur non potendo riavere sua figlia, le sue facoltà sono in grado di ridare una speranza di vita a tante persone, e che questo può donarle comunque la felicità che deriva dall'aiutare il prossimo oltre ad un valido motivo per continuare a vivere. Beatrice, dal canto suo, guarirà Carla dalla sua depressione ridandole la possibilità di ricominciare una nuova vita. BeatriX è un thriller soprannaturale dal ritmo incalzante, ma è anche un'allegoria per raccomandare a ognuno di noi di usare le proprie capacità al servizio degli altri, unico modo per salvare se stessi.
A metter ancor più in evidenza gli occhi contribuiva il biondo grano dei capelli, lisci e raccolti accuratamente in uno chignon. Sembrava una diva del cinema, una Catherin Denueve con gli occhi verdi. Carla di fronte a donne del genere provava sempre, suo malgrado, un senso di inferiorità. Con il suo metro e sessanta di statura, le gambe arcuate, i fianchi un po’ troppo larghi e un seno quasi inesistente, si sentiva al confronto una delle sorellastre di Cenerentola. La donna indossava un vestito nero di velluto ricamato, dall’aria costosa, lungo fino al ginocchio e stretto in vita da una fascia elastica dello stesso colore. Portava pochi gioielli che Carla catalogò subito come autentici: un bracciale in oro bianco con quelli che sembravano geroglifici in rilievo, un orologio dello stesso metallo con il quadrante contornato da brillanti, un paio di anelli abbastanza vistosi e, al collo, un grosso medaglione, finemente lavorato, che rappresentava il simbolo egizio dell’occhio di Horus con al centro uno zaffiro grande come una nocciola. In mano teneva un portasigarette e un accendino in argento.
“Ad occhio e croce indossa l’equivalente di almeno sei mesi del mio stipendio” calcolò, promettendosi di dire alla caposala, finito il colloquio, di farsi consegnare tutta quella mercanzia, poiché a Villa dei Gigli la cleptomania era piuttosto diffusa e non faceva distinzione di sesso, etnia o età. Nel complesso aveva un’aria fine e aristocratica. Poteva essere la moglie di qualche facoltoso industriale o di un avvocato di grido.
– Buongiorno signora Marconi, sono la dottoressa Barbieri. Si accomodi, prego – esordì, indicando la poltroncina davanti alla scrivania. La donna non rispose al saluto, ignorò la mano che lei le tendeva e si sedette in silenzio. Carla notò che da quando era entrata non l’aveva degnata neppure di uno sguardo. Continuava a girare quegli smeraldi verdi che aveva al posto degli occhi da un lato all’altro dello studio. L’espressione del viso tradiva una profonda sofferenza. Stava per dare inizio al colloquio quando l’altra la sorprese con una domanda inaspettata: – Posso fumare?
– Signora, siamo in uno studio medico. Non è consentito, lei capisce – rispose in modo diplomatico – può farlo dopo, in giardino. Oppure nella saletta appositamente adibita. Quando avremo terminato la nostra chiacchierata l’infermiera gliela mostrerà, insieme al resto della struttura.
Quello che accadde dopo fu a dir poco sconcertante. La donna alzò di colpo gli occhi, puntandoli dritti nei suoi. Carla prima ebbe l’impressione che ne scaturisse una sorta di bagliore, poi provò la sensazione di avere una rete di artigli sottili che si andavano a conficcare nella corteccia cerebrale, prendendone possesso. Per pochi, terrificanti, istanti si ritrovò con il cervello vuoto, privo di volontà sul resto del corpo. E con agghiacciante stupore udì uscire dalla sua bocca parole che, in una circostanza del genere, non avrebbe mai pronunciato:
– Be’! Penso che un’eccezione si possa fare. Fumi pure se vuole. La donna distolse lo sguardo ed immediatamente quella sensazione di dominio passò. Le sinapsi tornarono al loro posto lasciandola sconvolta ed in preda ad una forte emicrania che le trasmetteva onde di dolore dalla fronte alla nuca. Lentamente riprese il controllo di sé, mentre la donna, dopo aver acceso una sigaretta, aveva iniziato a fumare, buttando la cenere a terra con noncuranza, e continuando a guardarsi intorno con quell’aria sofferente. Carla, ancora incapace di elaborare l’accaduto, non si sentiva in grado di impostare qualsiasi tipo di colloquio, né tanto meno di affrontare nuovamente quello sguardo. Non riusciva a credere di aver detto quella frase. “È come se avesse voluto farmi dire che la Terra è piatta e io l’avessi assecondata pur sapendo il contrario.” A quel punto decise di aprire la cartella per leggere la lettera d’invio alla struttura, nella speranza che questo servisse a farle dimenticare, almeno temporaneamente, quanto le era appena accaduto, pur sapendo che era impossibile. La paziente, secondo quanto era riportato, proveniva dal reparto di Diagnosi e Cura dell’Ospedale Civile dove era giunta una settimana prima in seguito a un T.S.O.1 Da una prima ricostruzione, redatta dai vigili del fuoco e dalla polizia, aveva tentato di dare fuoco al suo appartamento. Con lei dentro. Era quasi riuscita nel suo intento suicida se non fosse intervenuto a dare l’allarme un vicino che aveva sentito odore di fumo nel pianerottolo. Quando la trovarono era svenuta per le esalazioni, ma fortunatamente non aveva subito ustioni. Una volta ripresa conoscenza si era, però, rifiutata di fornire spiegazioni in merito al suo gesto, sia ai poliziotti che agli psichiatri del reparto dove era stata ricoverata. Nell’anamnesi non era riportata nessuna terapia farmacologica in corso. L’unico particolare degno di nota, trascritto dal medico che l’aveva vista per prima, era costituito dal pianto nel quale era scoppiata subito dopo aver ripreso conoscenza, accompagnato dal ripetere ossessivo della stessa litania: – Voglio andare da lei. Voglio andare da lei. In base a quest’ultimo indizio e alla sua esperienza, Carla dedusse che poteva trattarsi di una grave forma depressiva legata forse alla mancata elaborazione di una perdita o di un abbandono e sfociata in un episodio acuto di autolesionismo. Decise pertanto di adottare un approccio molto cauto, sia per ottenere altri elementi, sia perché si sentiva ancora scossa dall’accaduto.
– Signora Marconi, da quanto è riportato nella sua lettera di ricovero, lei si trova qui in quanto ha cercato di farsi del male. Io, se possibile, ho il compito di aiutarla. Ma per fare questo ho bisogno della sua collaborazione. Non le chiedo di fidarsi subito di me. Vorrei solo che mi aiutasse a capire. Se la sente di raccontarmi qualcosa di sé? Della sua famiglia ad esempio, se ne ha una. O di cosa si occupa nella vita.
La donna non rispose subito. Buttò a terra il mozzicone della sigaretta e, dopo averlo spento con il tacco della scarpa, tornò a piantarle gli occhi nei suoi. Carla si ritrovò nuovamente in balia di quella tremenda sensazione che un gatto le fosse entrato nelle testa, conficcando i suoi artigli nella preda per poi manipolarla in un sadico gioco. Peccato che la preda in questione fosse il suo cervello. Come in precedenza il tutto durò alcuni interminabili istanti, lasciandole come strascico una forte emicrania. Mentre si stava riprendendo, la donna finalmente parlò:
– Lei dice di volermi aiutare. E come pensa di riuscirci dal momento che, per la stessa cosa, non è in grado di fare niente neppure per se stessa? – Quelle parole lasciarono Carla talmente stupefatta e scioccata, da impedirle qualunque tipo di replica. Tutto quello che voleva adesso era liberarsi di lei, di quegli occhi dal potere oscuro e di rimanere sola per riappropriarsi della sua lucidità mentale. Evitando accuratamente il suo sguardo, con la mano che le tremava in modo convulso, prese a fatica la cornetta dell’interfono e chiamò la capo sala.
– Patrizia? Il colloquio è finito. Per favore, puoi venire a riprendere la paziente. Dopo aver riagganciato rimase in silenzio a fissare il vuoto nella cartella davanti a se, le mani intrecciate sulla scrivania per tentare di placarne il tremore e la testa impegnata inutilmente a trovare spiegazioni plausibili cui aggrapparsi.
Come è nata l’idea di questo libro?
Tutte le mie opere, pur spaziando nei vari generi del fantastico, hanno una peculiarità non facile da trovare in questa tipologia di narrativa: hanno lo scopo di accompagnare il lettore a riflettere su temi reali e concreti. BeatriX non fa eccezione. L’idea è nata dalla riflessione sul fatto che l’uomo, da sempre, si è posto la domanda di come sia meglio utilizzare le proprie capacità, i propri talenti. In una parola: il proprio potere. Proprio per questo le due protagoniste di questa storia, sembrano proprio l’incarnazione del potere – occulto o palese – che l’essere umano ha a disposizione, a volte inconsapevolmente, altre con piena coscienza di esso. Un potere, che se indirizzato nella giusta direzione, può portare beneficio agli altri, ma anche a chi lo detiene usandolo. BeatriX vuole essere anche questo: un’allegoria per raccomandare a ciascuno di noi di usare le proprie capacità a servizio degli altri, unico modo per salvare se stessi.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
BeatriX era partito dalla lettura di alcuni articoli scientifici sulle straordinarie proprietà dello sguardo. Gli occhi infatti, oltre ad essere l’organo di senso che maggiormente influisce sulla percezione che abbiamo del mondo che ci circonda, sono la parte più espressiva, a livello emozionale, del viso. Nel contempo, volevo scrivere qualcosa che affrontasse le difficoltà che crea sul senso della vita, l’elaborazione del lutto.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nato e ho vissuto da sempre nella provincia di Modena. Sono particolarmente legato alla città di Carpi, sia per la bellezza del suo centro storico, sia perché è dove vive mia figlia Eleonora, il mio più grande capolavoro.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Attualmente sto lavorando ad un’ altro romanzo breve che affronta il tragico e sempre attuale problema della tossicodipendenza.
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