Edito da Streetlib nel 2020 • Pagine: 113 • Compra su Amazon
Perché si racconta? Mi piacerebbe poter dire per raccontare una storia, riagganciarmi ad una delle esigenze fondamentali degli esseri umani, narrare e sentir narrare. Ma ogni storia semplice, lineare, sia pure gradevole e profonda, non fa parte di me. E allora lotto con il linguaggio, ciò che esso può o non può dire, sperando di spingere ogni volta più in là il mite del dicibile, quasi ad avventurarsi in una lingua completamente straniera. Questo gruppo di storie a volte non sono storie, a volte lo sono. Il più delle volte sono battaglie fra il dire e il meglio non dire, con il costante dubbio di aver rotto il perfetto silenzio di una pagina bianca senza averne il diritto.
C’era solo il treno al di là del primo piede posato a terra; o meglio c’era solo la sveglia, la corsa in una città spenta e sempre fredda ad ogni stagione, e poi il treno sul binario, che fischia nella frenata. Le ripetizioni quotidiane delle azioni, sempre uguali, le avevano consumate, e cancellate dalla memoria della giornata in corso, ed era molto meglio così, altrimenti ogni sorso di caffè a stomaco vuoto, ogni mattonella fredda, ogni fiotto d’acqua bollente tardiva, sarebbero stati riluttanti e indigeribili.
Al di là dei vetri la campagna grigia pareva coltivata a cemento, e gli sparsi fiori rosellini aggrappati alle croci di pietra aggrappate ai sostegni di metallo erano solo gomme rimasticate color bambola, appiccicate a casaccio. Passava la nebbia, fuori dal finestrino, passavano le auto con assonnati guidatori in attesa ai passaggi a livello, passava l’oggettistica sempre uguale dei cortili delle case a ridosso della ferrovia. Un diorama della noia, un presepe invertito che lui guardava da dentro i doppi vetri dello scompartimento; mentre era lui nel treno a fare la parte del pastore e dell’immancabile panettiere di plastica dura, con i lineamenti scolpiti da un nero volgare e ancora l’etichetta col prezzo sotto la sua personale zolla gommosa verde scuro. Quasi avrebbe guardato sotto le suole per cercare il codice a barre grattato via dalle unghie e dai riccioli di carta che si attaccano al pollice, perché tanto i suoi eventi non superavano di molto il panettiere e il pescivendolo con pani e pesci in caucciù, a malapena comprimari di una natività che non raggiungeranno mai. Era intento quindi a sgranare i ricordi plastici degli oggetti, senza alcun significato particolare, dondolando un po’ la testa ubriacandosi del suo sonno residuo, per non pensare.
Per un pendolare il treno è una forza naturale da cui dipendere, a cui chiedere il miracolo di (per piacere, per favore, ti scongiuro) concederti di muoverti con lei, di farti trasportare nel sonno nei suoi sedili filacciosi e nel suo fracasso sudato fino a casa. Quel che ti chiede in cambio è rimanere costantemente in bilico e convivere con un rivolo di tensione perenne, con l’ora che scatta, con la corsa frenetica per aggrapparsi alla sua motrice. Di ferro secco sapeva la mattina presto, il treno; di stoffa rancida e fumo, la sera, sperando che questi inutili giochetti verbali, che queste metafore sarcastiche potessero indebolire quello che in realtà altro non è che una cosa brutta brutta. E chi non la vive non sa quanto brutta sia. La salvezza dei rimandi mentali, delle immagini senza senso, delle parole con cui giocare come i cubi dei bimbi, tutte insieme lo tenevano quasi addormentato per non soffrire; e i suoi malanni ruvidi lo cullavano in pericolo su di un filo tirato dalla cima del capo. Un filo fragile e screpolato.
Nel suo ipnotismo mattutino evitarla non era stato possibile, e lei si era seduta affianco, ed era chiaro che non era finita lì. Almeno parlare, almeno afferrare con quella manina il suo ginocchio per farsi ascoltare meglio. Era così vulnerabile, con le narici bollenti, e un pennone di fragile corda tirato dalla base delle scapole alla nuca. Avrebbe voluto a tutti costi tenersela lontano. Era forse rimasta l’ultima donna che conosceva a vestirsi ancora in gonna, una versione più bambolesca e sensuale di una comare di paese: un corto vestito, ma nero e pieno di pieghette, e scarpette di stoffa scura con fettuccia sulla caviglia. Una cascata rinascimentale di quasi ricci nerissimi, occhi spalancati e truccati in modo dignitosamente pesante, un sorriso surreale, pupille molto dilatate. Il modo di camminare era un po’ incerto, coi talloni divaricati a distanziare le sue polpose caviglie e, inutile evitare di dirlo, come se fosse occupata a trasportare qualche importante ingombro inserito umidamente nel suo sesso.
Come è nata l’idea di questo libro?
Non c’è un’idea precisa alla base. Mi sono ritrovato con l’esigenza forse completamente egoistica di vedere tutte le parole in un luogo solo. E farlo mi ha parzialmente pacificato con alcuni degli spigoli che la scrittura mi pone ogni volta.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Sono scritti molto distanti come tempo di scrittura, qualcuno uscito di getto, altri meno, altri con la vergogna di aver esagerato appiccicata addosso a ogni parola.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Calvino, e in particolare il più grande libro che abbia mai letto, che caso vuole sia anche quasi il primo libro che ho letto, “Marcovaldo”. Franz Kafka, nei suoi racconti brevi, ma anche con quella ardua rocca da scalare che è “Il castello”. Poi altri, a volte vicini, a volte lontanissimi dal mio modo di scrivere, a volta moderni, a volte no: David Foster Wallace, Grabriel Garcia Marquez, James Joyce, James Ballard, Ennio Flaniano…
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Mi sposto poco, non mi piace traferirmi. Sono sempre stato in Romagna, non credo che ne varcherò mai i confini (se non per svago…)
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Capire cosa voglio scrivere. Recentemente una delle cose che ho scritto che ha una lunghezza relativamente simile ad un romanzo, è stato giudicato, per la prima decina di pagine, da degli anonimi lettori/scrittori in un concorso piuttosto interessante come meccanismo. I loro giudizi, anche fortemente critici sulla mia spesse volte esasperante cripticità, mi hanno fatto molto riflettere. Senza snaturarmi, sto tentando una specie di “traduzione interlineare” di una dei miei più ingarbugliati pasticci, per capire se davvero desidero fino in fondo comunicare con gli altri. Se mi riconoscerò ancora, se rimarrò comunque “io” al termine di questo procedimento così stravagante, vorrei riprovare a rimettere in circolo la mia voce.
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