
Edito da Marta Brioschi nel 2020 • Pagine: 446 • Compra su Amazon
Mae Son-Jun è un autore di gialli franco-coreano di trentatré anni. Quando ne aveva solo quattro, la madre abbandonò la famiglia a Seoul all'improvviso. Anni dopo, l'uomo ritrova per caso una foto che la ritrae da giovane di fronte ad una chiesa di Parigi; decide così di partire per l'Europa alla sua ricerca. Dalla Francia, le tracce raccolte lo condurranno fino alla campagna toscana, dove il mistero del suo passato si intreccerà con il destino di un'altrettanto misteriosa famiglia.

Finalmente realizzava il suo sogno; anzi no, si trattava piuttosto di una scommessa con se stesso. Partiva senza (quasi) un soldo in tasca per l’Europa e senza nemmeno sapere esattamente quando sarebbe tornato. Tutto per rivedere lei, una madre di cui riusciva a malapena a ricordare il volto.
“Non ti permetterò di lasciare la Corea. Sai che posso farlo.”
Nella luce fioca di quell’ultima sera estiva, il volto del padre aveva un che di grottesco.
“Non ti sembra assurdo minacciarmi come fossi un liceale? È anche un po’ tardivo questo tuo discutibile senso paterno, non credi? Direi che a trentatré anni posso andarmene a pieno titolo da questa casa e–“
“Quando ti sarai tagliato i capelli e ti sarai trovato un lavoro decente, ne riparleremo. Fino adesso sono stato più che generoso con te. Ho lasciato che scorazzassi libero e facessi le tue esperienze, mentre tuo fratello si occupava delle cose serie. Ma ora basta!”
Sang-Woo batté con forza una mano sulla scrivania, rischiando di danneggiare ulteriormente le sue dita, che avevano iniziato a deformarsi per l’artrite.
“A trentatré anni suonati, è tempo che abbandoni quei tuoi sogni infantili e diventi un uomo. Non ti chiedo di lavorare in azienda – fossi matto! – e nemmeno di restare in questa casa. Trovati una moglie, metti su famiglia e occupati di loro come un buon padre dovrebbe. Senza troppi grilli per la testa…”
A Son-Jun – o meglio, a Jean, come preferiva essere chiamato – ronzavano le orecchie. Provava una strana sensazione di estraneità. Strana, perché aveva sentito quei discorsi già mille volte, eppure ora gli sembrava appartenessero ad altri, e nelle sue orecchie risuonavano appena, come un’eco lontana e indecifrabile; semplicemente non lo raggiungevano più. Presto, non ne sarebbe rimasta traccia nella sua memoria. Strano che fosse suo padre, quell’uomo dai lineamenti severi, sempre accigliato, con una figura imponente che rimpiccioliva la stanza. Strano che le sue parole avessero persino smesso di ferirlo. Non nutriva più alcun dubbio, era tempo di partire. Mentre il soliloquio dell’anziano proseguiva, Jean roteò un’ultima volta gli occhi, si passò una mano sul petto, ad alleviare le tracce residue di un peso sopportato troppo a lungo, e abbassò la testa e il torso in segno di commiato. L’unica concessione alle rigide tradizioni del suo Paese che intendeva permettersi ancora.
“Addio, padre. Fattene una ragione!”
Con un gesto plateale che rischiò di trascinare con sé i portaritratti sulla scrivania paterna, si buttò sulle spalle la sacca di pelle che aveva appoggiato accanto ai piedi e uscì dallo studio con le due sole falcate di cui le sue lunghe gambe sottili avevano bisogno. Non si sarebbe mai più voltato indietro.
CAPITOLO PRIMO
Aprire gli occhi su una nuova città lo aveva spaventato, in un primo momento. Lo smarrimento che aveva seguito il riscoprire alla luce del giorno particolari sconosciuti nell’angusta stanzetta di un affittacamere di periferia era stato vieppiù caricato di una dose di inadeguatezza di fronte ai panorami cittadini che gli si aprivano innanzi ora, mentre percorreva le strade di Parigi in una sferragliante R4. La verità era che non aveva la minima idea di dove iniziare le sue ricerche e questo aggiungeva ansia alle tante emozioni che gli si stavano accumulando in petto. Dentro un cassetto chiuso a chiave nello studio del padre, aveva trovato, tempo prima e per caso, una vecchia foto della madre. Era ritratta davanti ad una chiesa cattolica. Era bellissima e giovanissima, ancora inconsapevole delle amarezze che, di lì a poco, avrebbero invecchiato il suo volto e fiaccato la sua fanciullesca esuberanza. Si trovava in Francia, il suo paese natale. Sul retro della foto era scritto a mano il nome della Parrocchia e poi quello della città: Parigi. Se avesse trovato la chiesa, si ripeteva ormai ossessivamente quella mattina, forse avrebbe trovato il sacerdote e quindi, allora, anche una traccia e con essa la speranza di ritrovare presto sua madre.
Jean si sporse oltre la curvatura del volante per osservare il cielo plumbeo sopra di lui. Non prometteva niente di buono e nemmeno il vento, che faceva danzare in tondo le prime foglie cadute ai bordi della strada. Istintivamente, si strinse meglio intorno al collo la sua sciarpa preferita – una larga striscia di lino e seta di un arancione sbiadito da tanti lavaggi – che custodiva sin da bambino come oggetto portafortuna e si sistemò gli occhiali sul naso. Presto avrebbe iniziato a piovere a dirotto ed egli,
purtroppo, già sapeva che dei due tergicristalli disponibili, solo quello di fronte al sedile accanto al suo si sarebbe attivato. La sua caccia avrebbe dunque subito un arresto; tanto valeva cercarsi un caffè dove mangiare qualcosa di caldo, mentre fuori il temporale faceva il suo corso. Non fu difficile trovare un locale accogliente, ma il passo successivo rappresentò invece una vera e propria sfida. Era abituato infatti alla pronuncia inglese degli asiatici di diversa provenienza, ma quella dei locali (quando mostravano di saper parlare la lingua!), era talmente ostica da impedirgli non solo di comprendere, ma anche di essere compreso. Fu quindi con non poco sudore, che riuscì a conquistarsi il conforto di una zuppa di cipolle e di un boccale di birra alsaziana.
***
Il temporale aveva imbiancato le strade di grandine e tenuto lontani gli avventori dal locale. Jean avrebbe voluto parlare con qualcuno, ma il ragazzo dietro al banco non sembrava affatto interessato ad avviare una conversazione, tantomeno con uno straniero. Tuttavia, quest’ultimo si alzò ed infilò una mano nella tasca interna della sua giacca di fustagno verde smeraldo. Lo sguardo interrogativo del barista gli fece supporre che si aspettasse di vederlo sfoderare un mazzo di fiori, o forse una colomba, invece lo prese alla sprovvista estraendo la semplice foto di una giovane donna bionda che gli ficcò proprio sotto la punta del suo lungo naso affilato, accompagnando il gesto con il sorriso studiato di un affabulatore, che avrebbe fatto capitolare il più arcigno dei misantropi. Il barista si rivelò comunque assai più arrendevole.
“Non conosco questa donna.”
Fu la sua laconica, seppur amichevole replica. Jean sorrise indulgente.
“Lo so. È lo sfondo che mi interessa. Conosci per caso la chiesa? Dovrebbe essere da queste parti.”
Il barista ricominciò a lucidare il bicchiere che aveva tra le mani.
“Mi dispiace. Non vado più in chiesa da quando ero bambino e non sono un esperto di architettura. Dovresti chiedere a un prete.”
La campanella appesa sopra all’ingresso tintinnò.
“… Oppure alla signora che sta entrando ora. Viene qui sempre a chiedere contributi per le iniziative di beneficenza che organizza nel quartiere. È una baciapile di prim’ordine. Purtroppo, è però anche una svitata e la sua memoria non è più molto affidabile.”
Quest’ultima osservazione la fece sottovoce, naturalmente.
Jean si voltò e vide, nell’arco della porta, una matrona vestita interamente di rosso vermiglio. Vermigli erano anche il rossetto e le unghie affilate e curate. La veste le stava stretta sul petto e sui fianchi ed era di fattura mediocre, ma il cappello che la sormontava era sicuramente un accessorio inusuale, non tanto per la foggia ardita che lo faceva assomigliare ad un vascello adornato di frange, né tantomeno per il lusso che avrebbe voluto ostentare, bensì soprattutto per il contrasto cromatico che opponeva al fulvo argentato della di lei capigliatura, ovvero proprio ciò che un cappello degno di tal nome avrebbe dovuto invece armoniosamente complementare. Nell’insieme, una visione non certo adatta ai deboli di cuore. Jean tuttavia non batté ciglio e fu lesto nel precedere il tentativo della donna di dar voce ad una sua probabile richiesta di attenzioni indirizzata al gestore. La prese dunque sotto braccio e la condusse al tavolo più vicino, poi, con un elaborato inchino, le chiese il permesso di offrirle un caffè in cambio di una domanda. La donna sembrò aver frainteso la cavalleria del giovane e affascinante uomo al suo cospetto e il suo sguardo carico di sottintesi certo non gli lasciò alcun dubbio circa il tipo di interesse che era riuscito a risvegliare in lei. Per dovere di chiarezza, si spinse comunque ad allungare una mano verso di lui, per ghermirgli un avambraccio.
“Mi chieda pure tutto quello che vuole… bel ragazzo d’Oriente. Mi chiamo Renée, a proposito.”
Purtroppo per la donna, la conversazione terminò non appena anche lei si trovò costretta ad ammettere di non conoscere la chiesa parrocchiale della foto e di non ricordarne neppure il nome. Tentò ancora di intrattenere il suo ospite, prima strattonandogli il braccio e poi deviandone l’attenzione sulla procacità della scollatura, ma non ottenne neppure un’occhiata furtiva di sguincio. La delusione la costrinse allora ad incurvare le spalle ed abbassare lo sguardo e, per un istante, sembrò che il vascello stesse per inabissarsi.
***
Il sole aveva nuovamente fatto capolino tra le nuvole ed il locale si stava riempiendo di parigini ciarlieri e rumorosi. Dopo un ultimo sorso di caffè, Jean era pronto a ripartire alla volta di Montmartre, il quartiere dove avrebbe cercato il vecchio fotografo, conosciuto dall’altrettanto vecchia proprietaria dell’R4 che l’aveva miracolosamente portato sin lì, nonché della stanzetta generosamente offertagli in cambio di piccoli lavori di manutenzione. Stava aspettando il resto di una banconota da cinquanta euro, quando entrò un ragazzo sui vent’anni, zuppo fino al midollo, con gli occhiali di sghimbescio e il fiatone. Iniziò a parlare fitto fitto in modo concitato con il ragazzo del locale. Jean intuì che il primo fosse in ritardo per qualcosa e necessitasse la collaborazione del secondo. Improvvisamente, però, qualcosa attirò la sua attenzione. Un nome, pronunciato dal gestore…
“La prossima volta, di’ a Monsieur Bernard che gli porto io il pranzo al negozio. Sono ancora in debito con lui. Le foto del mio matrimonio valgono più di tutti i panini che potrei mai preparargli.”
Un fotografo… Monsieur Bernard…
Jean entrò a gamba tesa nella conversazione.
“Scusate se interrompo. Monsieur Bernard aveva forse un famoso studio fotografico a Montmartre?”
Il giovane garzone rispose senza indugio.
“Sì. Per molti anni. Ma ora le foto sono quasi tutte digitali e lui non ha voluto aggiornarsi. Si accontenta di fare ancora qualche matrimonio e per lo più mette a disposizione vecchie foto della città per eventi speciali o per delle mostre. Ne ha fatta una poco tempo fa sulle chiese di Parigi. Peccato sia già finita. Sono venuti anche dall’estero, per vederla.”
A Jean sembrò di scorgere la famosa luce in fondo al tunnel, proprio alle spalle del garzone.
“Ecco il tipo che fa per te. Dev’essere il tuo giorno fortunato!”
interloquì il terzo uomo, ma Jean non fece caso alle sue parole e si rivolse nuovamente al suo inconsapevole salvatore.
“Giuro che se non fossi tanto bagnato ti abbraccerei! Io ho davvero bisogno di incontrare il tuo capo! Se ti accompagno in auto, mi porteresti da lui?”
Il giovane scosse su e giù la testa con grande entusiasmo, scrollando acqua dai suoi ricci biondi ancora fradici. Accennò anche un ringraziamento, ma gli morì subito in gola. Eruppe invece all’improvviso dalle narici uno starnuto, che minacciò di colpire in volto il suo interlocutore, ma questi, di riflesso, con un rapido rinculo, dimostrò in un battito di ciglia come lo scatto di muscoli allenati possa fare la differenza tra una giornata gloriosa ed una giacca rovinata.

Come è nata l’idea di questo libro?
Da due anni a questa parte traduco dall’inglese sottotitoli per le serie tv asiatiche, soprattutto i cosiddetti K-Drama, a cui mi sono appassionata. Dall’amore per questo genere, e per la campagna Toscana è nata l’idea del libro.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Il lockdown mi ha offerto una favolosa opportunità. Ho iniziato a scriverlo in maggio e l’ho terminato a settembre. Direi che è uscito di getto. I personaggi mi hanno semplicemente raccontato la loro storia.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
I miei autori preferiti di sempre sono Calvino, Yourcenar, Elsa Morante, ma anche Agatha Christie, Jerome K. Jerome e P.G. Wodehouse (ho citato loro perché hanno segnato momenti importanti della mia vita, ma potrei citarne molti altri.)
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Bolzano da 6 anni. Sono nata a Milano e ho vissuto per 20 anni sul Lago Maggiore. Per studio e lavoro ho però trascorso gran parte della mia vita adulta in viaggio.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
La Casa Gialla è il mio primo lavoro. Ho moltissimo da imparare ancora, ma mi diverte molto scrivere e lo trovo anche terapeutico, perciò vorrei continuare. In particolare ho una storia molto personale che vorrei raccontare, e che anzi ho già iniziato due anni fa e che racconta di come un viaggio in Colombia e l’incontro con alcune persone ha avviato una serie di cambiamenti assolutamente imprevedibili.
Non mi è stato consentito dal sistema di aggiungere tutte le stelle che avrei voluto, Ho potuto quindi inserire solo una stella, il che NON corrisponde alle mie intenzioni. Intendevo infatti dare 5 STELLE.
Ci scusiamo per il disagio, abbiamo rettificato il voto manualmente. :)