
Edito da Scatole Parlanti nel 2019 • Pagine: 205 • Compra su Amazon
La vita di Bertrand, quarantenne da poco rimasto disoccupato a causa del fallimento della ditta per la quale lavorava, è fortemente influenzata dal demone della balbuzie. Un problema che lo ha limitato nelle relazioni con gli altri, a partire da una famiglia poco comprensiva fino all’impossibilità di trovare l’anima gemella. Il parziale riscatto è arrivato grazie ai computer: è un abile hacker, impegnato nella lotta contro gli jihadisti.
Un viaggio attraverso la Provenza lo porta a visitare il castello di Baux, costruzione medievale che nel suo immaginario rievoca gli spensierati giochi d’infanzia. L’audioguida permette a Bertrand di immedesimarsi negli oggetti più importanti della fortezza, che attraverso la loro voce raccontano, con rigorosa precisione, gli eventi che hanno caratterizzato la storia di quel luogo leggendario.
Tra rievocazioni epiche e incontri speciali, Bertrand si ritrova al centro di vicende molto particolari, dove in ballo c’è il suo futuro. E la necessità di prendersi alcune rivincite.

La rupe mi separa dalla valle e dal mare e quassù, in alto, ho protetto la mia gente da briganti e pirati, saraceni e catalani. Ora sono ridotto a un insieme di ruderi, simile a un vecchio che si trascina cieco e claudicante, gobbo e lento, come colui che lentamente attende la fine. Ma resisto ancora. Sono stato costruito per essere segno di potenza e fino all’ultimo lotterò contro le forze dell’uomo e della natura: gli assalti, gli assedi, le guerre, il vento, la pioggia, i terremoti che scuotono il suolo. Fino all’ultimo lotterò perché sono stato costruito per preservare, per custodire, per proteggere; continuerò il mio compito finché di me resterà un solo mattone, una sola pietra, un grammo di polvere.
Hugues di Baux è stato il primo signore di questo luogo e colui che decise di costruirmi. Gli serviva un castello solido, infatti, per ripararsi dai suoi nemici.
Ero allora poco più di una roccaforte, quando dal mare arrivò l’emiro di Costantina. Veniva dall’altra parte del Mediterraneo, quella terra che ora voi chiamate Algeria. Era sbarcato a Nizza con i suoi pirati e poi si era introdotto nell’interno. I Saraceni erano predoni crudeli e padroni del mare Mediterraneo, quel mare che gli antichi romani chiamavano mare nostrum e che invece ora era mare loro. Le navi cristiane da tempo ormai non veleggiavano più in mare aperto, ma si tenevano strette sulla costa. E così, rari erano i capitani e gli equipaggi che avevano il coraggio di partire. I pochi traffici che si svolgevano in Europa erano lungo le strade, le antiche strade romane e le vie dei pellegrinaggi. Altre vie non c’erano e già quelle erano piene di insidie.
Così ogni terra cercava di produrre ciò di cui aveva bisogno, senza dipendere da altri. Rocche e castelli furono costruiti sui monti, per racchiudere la popolazione dei borghi e delle campagne in caso di pericolo. Io fui uno tra i tanti. Molte torri furono costruite sulla costa, e alcune anche nell’interno. Le torri erano allineate lungo le spiagge e le falesie, in modo tale che da ogni torre si vedesse la successiva, per poter lanciare l’allarme. Delle sentinelle erano sempre in cima alle torri, ma esse non erano un sistema di difesa, solo di avvistamento.
Una volta viste da lontano le navi saracene, le sentinelle davano l’allerta alla popolazione, le campane suonavano e tutti cercavano riparo nei castelli, portando con sé ciò che serviva per sopravvivere. Anch’io ero provvisto di torri di avvistamento. Ma dopo che i saraceni erano stati avvistati, ben poco si poteva fare, oltre a scappare o rinchiudersi.
Erano guerrieri feroci, saccheggiavano città e campagne, e rapivano le donne. Sapevamo che, per aumentare la loro ferocia ed essere in grado di compiere le più grandi crudeltà, prendevano una sostanza, hashish la chiamavano, che dava la forza di cento leoni e la crudeltà delle tigri più efferate. Poiché consumavano hashish, vennero chiamati
assassins e lo erano veramente.
Fu dunque in un freddo gennaio, mentre il vento e le tempeste si accanivano sulla mia copertura di legno e io resistevo, stringendo le travi come gli uomini stringevano i denti, che i saraceni arrivarono, guidati da un emiro assatanato: Girofle. Le sentinelle dalle torri vicino al mare fecero segnali verso le torri dell’interno, finché anche a me giunse la notizia dello sbarco. Hugues, il mio signore, fece suonare le campane per circa venti minuti. I contadini che erano nei campi sollevarono il volto per udire meglio il segnale: sì, erano proprio le campane! Dall’alto li vidi correre nelle case a riempire i sacchi con le provviste e le conserve preparate per l’inverno; in una borsa, chi li aveva, mise gli spiccioli, risparmi di una vita, poi presero le bestie.
Chi aveva un carretto vi mise sopra le sue cose e attaccò gli animali al carro. Molti bambini che non sapevano ancora camminare furono messi per pietà sui carri. Anche alcuni vecchi riuscirono a trovare posto. Così, uomini, donne, vecchi, bambini e animali si incamminarono verso la rupe, dove mi trovavo. Hugues diede ordine ai servi di aprire la mia grande porta di ferro e di far entrare la gente. Quando, nel pomeriggio, finirono di arrivare, erano più di duecento persone e altrettante bestie. Le mie mura non avevano mai accolto tanta gente e mi domandai se sarei stato in grado di assolvere il mio compito: proteggere tutti e non far morire o disperdere nessuno. Era un compito arduo per me, che allora non ero ancora costruito tutto in pietra, ma avevo la copertura di legno e alcune pareti di semplici mattoni cotti al sole. Ero giovane e dovevo ancora imparare a resistere e a proteggere.
Per quello ero stato costruito.
Quella sera dunque, Hugues, il mio padrone, magnanimo, lasciò la grande sala del consiglio a disposizione di quella gente che era arrivata, che vi stese per terra le proprie coperte. Così, tutti insieme stipati là dentro, non avrebbero avuto bisogno di fuoco per la notte, avrebbe fatto abbastanza caldo. Le bestie furono ricoverate nelle stalle, ma non tutte, molte rimasero nel cortile, cercando l’erba che in quella stagione non c’era. Lui, Hugues, il mio padrone, si ritirò in una delle mie torri. Alla base della torre, c’erano, all’epoca, un magazzino con le scorte di cibo e la legna e una cucina con il focolare. Sotto il magazzino c’era anche una cantina. Le stanze della torre, però, erano fredde e umide, e spesso Hugues dovette dormire nella cucina con i servi.
L’assedio durò sette mesi. Per sette lunghi mesi, i saraceni rimasero nelle loro tende, fuori del mio muro di cinta. Inizialmente, ogni mattino posavano le scale sul muro per tentare di scavalcarlo, ma dall’alto piovevano olio bollente e frecce. Perciò, dopo qualche settimana, i saraceni, per non ferirsi, smisero di appoggiare le scale addosso a me
e rimasero fermi nelle tende ad aspettare.
Io ebbi così il tempo di riprendermi dalle ferite che mi avevano inferto, grazie all’aiuto di alcuni muratori che erano in mezzo a tutta la gente radunata al mio interno. Mentre il mio muro veniva riparato, vedevo dall’alto ogni giorno alcuni saraceni che partivano a cavallo per fare razzie nelle zone vicine. Recuperavano sempre farina e sale, a volte anche frutta e verdura. Cacciavano anche nei boschi vicini e la legna per il fuoco non mancava loro. Era a coloro che erano dentro che pian piano mancava tutto. Era chiaro il piano dei saraceni.
Non aspettavano altro che questo: quando i rifugiati avessero finito le scorte di cibo, avrebbero dovuto arrendersi e loro mi avrebbero conquistato. Le mie fondamenta tremavano come se stessero subendo delle scosse telluriche al solo pensiero che i saraceni si potessero impossessare di me. Conquistare un castello in Provenza, per loro voleva dire accaparrarsi una buona base e un territorio ricco e fertile.
Da qui avrebbero potuto spingersi ancora più nell’interno, oppure verso ovest, ricongiungendosi con i loro fratelli nella penisola iberica.
Era proprio ciò che i cristiani più temevano. Se i saraceni avessero vinto, avrebbero passato per la spada tutti coloro che non si fossero convertiti alla loro religione: la religione di Allah.
All’inizio dell’assedio, mentre i saraceni aspettavano all’esterno, la gente che io raccoglievo passava il tempo giocando, suonando strumenti musicali, cantando e ballando, raccontando storie di guerra e d’amore. Anche Hugues e le sue guardie stavano insieme alla gente del contado. Ma dopo qualche mese, vedendo che i saraceni non desistevano e che le scorte diminuivano, l’umore del popolo cambiò. Ora si cantavano nenie tristi e si raccontavano storie paurose: di lupi e di streghe, di maghi e di orchi. Il curato, anche lui rifugiato con gli altri, sollecitava tutti alla preghiera. Tre volte al giorno, una piccola campana suonava, invitando la gente nella mia cappella. E, se all’inizio partecipavano alla preghiera per lo più donne e bambini, mentre gli
uomini giocavano a dadi, man mano che il tempo passava, anche gli uomini abbandonavano i loro passatempi e si toglievano il cappello per entrare al cospetto del Signore. Io non ero un uomo e non portavo il cappello, ma il mio basamento era inginocchiato sulla rupe e la mia preghiera era perenne, sorgeva dalla terra e si stagliava alta e chiara verso l’orizzonte marino.
L’unica cosa di cui c’era abbondanza in quei giorni era l’acqua: una fonte di sorgente era, infatti, in un mio piccolo cortiletto interno e a nessuno mancava né per bere né per cucinare. Lavarsi era un’occupazione di cui molti facevano a meno.
Ma quando anche l’ultimo uomo si convinse a entrare nella cappella, a battersi il petto, invocando perdono e pietà a colei che guida il popolo cristiano, fu allora che la farina finì e finirono anche le scorte di carne insaccata e di fichi secchi. Hugues, da accorto signore qual era, ordinò che tutti portassero ciò che era rimasto in cortile. Era ormai agosto e faceva caldo. Le scorte erano state preparate per durare un inverno e non di più. A quell’epoca si avrebbe dovuto già aver mietuto il nuovo grano ed era ormai ora per la vendemmia. Le bestie erano state tutte mangiate prima che morissero di fame. Che fare?
Nessuno portò niente nel cortile, anche perché non c’era niente da portare. Ma Hugues mandò le guardie a rovistare nei sacchi e negli involti di ognuno, negli anfratti e nelle stanze di ogni torre e corridoio.
E alla fine, le guardie trovarono una vecchia che aveva con sé un
maiale e un sacco d’orzo: niente per tutte quelle persone. Allora Hugues prese una decisione: fece mangiare l’orzo al maiale. Quando gli uomini videro il maiale mangiare, capii che il loro stomaco si stringeva e il loro cuore moriva d’invidia. Che aveva fatto il loro signore?
Arrabbiati, presero la bestia e volevano scuoiarla, ma Hugues fece di nuovo intervenire le guardie e disse loro di prendere il maiale. Poi ordinò che il maiale venisse gettato dall’alto del mio muro, giù dov’era l’accampamento dei saraceni. Così fu fatto. Gli uomini piansero a vedere l’unica speranza di saziarsi finire in campo nemico.
Quando i saraceni videro piombare giù dal muro il maiale, rimasero perplessi per un po’. Poi, da lontano, sentii che si consultavano fra di loro. Credevano che la bestia si fosse persa e caduta per sbaglio. Ma anche per i predoni la fame era tanta, poiché nessun contadino aveva mietuto per loro il grano e il caldo non permetteva più di cacciare, perciò decisero immediatamente di uccidere la bestia. La scannarono e le aprirono le interiora. Che meraviglia! Il ventre del maiale era pieno di orzo non ancora digerito. Sentii l’emiro Girofle dire ai suoi uomini:
«Se i cristiani hanno così tanto orzo da nutrirne finanche le bestie, è inutile che stiamo ancora qui ad aspettare che, affamati, si arrendano».
I saraceni, dunque, smontarono le tende, li vidi felici andar via da quella landa calda e assolata e dirigersi verso le proprie navi. Hugues, il mio padrone, aveva vinto i saraceni con l’astuzia. La mia porta fu travolta dal popolo che in fretta si precipitò fuori. Tornarono alle case e ai campi e fecero in tempo a raccogliere qualcosa per l’inverno seguente. Dalla rupe li osservavo e seguivo il loro affaccendarsi.
Ero stato costruito per quello: vegliare costantemente sulla campagna e i contadini al mio esterno e sui padroni e i servitori che accoglievo nel mio interno.
La primavera successiva, Hugues fece fare molti lavori per migliorare il mio aspetto. Tolse le coperture di legno e le fece rifabbricare in muratura. Alzò il muro di cinta e lo fornì di merli. Restaurò la parte esterna del muro che aveva subito crolli a causa dell’assedio. Allestì il locale delle cucine vicino al salone principale. Quando, sul finire dell’estate, i lavori terminarono, io ero diventato un castello maturo, possente, bello e attraente. Allora di nuovo Hugues fece suonare le campane, a festa, però, questa volta. Diede ordine di abbellire con fiori la cappella e imbandire la tavola più lunga che si fosse mai vista lungo l’asse mediano del cortile. Stendardi furono appesi sulle mura e le torri. I cuochi e gli inservienti cucinarono vivande per tre giorni.
Vennero i signori dei luoghi vicini, da tutta la Provenza, e vennero gli artigiani e i contadini del luogo vestiti a festa. Hugues sposò Enaurs, figlia di Artaud, visconte di Cavaillon.
Dalla sua sposa Hugues ebbe due figli e da allora in poi, io, il castello, rimasi sempre con i nobili della casata di Baux e li protessi da ogni insidia.

Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea di questo libro è nata, naturalmente, visitando il castello di Baux.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
È stato difficile portarlo a termine, perché c’è un’accuratissima ricerca storica dietro le ambientazioni e i personaggi.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
L’autore di riferimento è il grande Pamuk, uno dei primi a far narrare gli oggetti in un romanzo.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Io sono nata e ho sempre vissuto a Roma, dove vorrei, sicuro, morire.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Il mio progetto futuro è uno Young adult storico, ambientato a Roma durante l’occupazione tedesca.
Il libro è ricco di personaggi molto avvincenti, a cui fanno da contorno amori e guerra. Sicuramente appassionante.
Il libro è molto avvincente, ricco di personaggi, di avvenimenti storici e di un filo conduttore, è originale e si legge di un fiato
Le rievocazioni epiche vissute attraverso gli oggetti parlanti, si intrecciano con le vicende del protagonista, attore suo malgrado delle problematiche del nostro tempo e si svolgono in un’ altalena di momenti e situazioni, che rendono il romanzo dinamico, di piacevole lettura e ricco di spunti di riflessione.
Avvincente, affascinante e coinvolgente. Da non perdere
Il dinamismo delle vicende epiche che s’intrecciano, alternandosi, con quelle del protagonista figlio del nostro tempo, stimola alla lettura ed alla riflessione.