Edito da Robin Edizioni nel 2020 • Pagine: 216 • Compra su Amazon
Con un viaggio in Africa, Michele vorrebbe prendere le distanze dalla realtà di uomo solo che lo affligge a Bologna. In un luogo esotico e lussureggiante spera di ritrovare se stesso, ma la sua vita si intreccia alle vicende di Nick, un inglese idealista, Jürgen, un tedesco alla disperata ricerca del fratello, e Sonia, la passionale direttrice dell’albergo dove i tre soggiornano. Dimentico dei suoi propositi iniziali, si lascia trascinare nel mistero che avvolge la scomparsa del fratello di Jürgen, gettandosi in una avventurosa e pericolosa ricerca; i sentimenti però non si sopiscono a comando e l’uomo rimane preda dei propri tumulti interiori. Nel corso delle sorprendenti vicende che lo coinvolgono, Michele continua infatti, fra delusioni e speranze, a tormentarsi e a chiedersi se sia per lui ancora possibile a cinquant’anni costruirsi un nuovo destino di uomo, padre e amico.
Mentre l’aereo rullava ancora sulla pista, notai che l’aeroporto era molto piccolo. Gli arrivi e le partenze erano due modesti edifici bassi che avevano conosciuto anni migliori e, a parte i piccoli aerei da turismo usati per le escursioni, solo tre aerei erano fermi in sosta nello scalo. Non c’erano né i pontili d’imbarco né la navetta e bisognava raggiungere a piedi l’aerostazione.
Uscendo dall’aereo, una vampata di caldo africano mi investì all’istante e la camicia si inzuppò subito di sudore. Mi incamminai comunque sull’asfalto rovente e, pur soffrendo sotto il sole infuocato, mi misi a guardare con piacere sia la lussureggiante vegetazione che lambiva l’aeroporto sia il bel cielo sereno, cosparso solo qua e là da nuvolette basse e innocue. Ero ingenuamente contento di aver messo piede in Africa: calore… serenità… quanto mi erano mancati nell’ultimo anno!
Raggiunsi la palazzina degli arrivi.
La sala che mi accolse era di una semplicità disarmante, sembrava un vecchio hangar, con al soffitto appesi alcuni grandi ventilatori a pale che, pur girando all’impazzata, mitigavano appena l’afa insopportabile di quello stanzone semichiuso.
Per fortuna il controllo passaporti non creò problemi, ma non così il ritiro dei bagagli. Valige, zaini, pacchi e quant’altro venivano portati all’interno dell’edificio e semplicemente buttati a terra alla rinfusa. I passeggeri, smarriti, si aggiravano fra loro come gabbiani fra l’immondizia cercando di rintracciare in fretta i propri bagagli prima che questi sparissero in altre mani. In quella bolgia, per ben due volte mi illusi di aver individuato le mie valige, ma mi dovetti ricredere. Ci riuscii solo al terzo tentativo e a quel punto le afferrai con orgoglio, come un trofeo, per poi avviarmi spedito verso l’uscita.
Una volta fuori, fra la folla di uomini in attesa, scorsi un tizio magro con un cartello in mano sul quale c’era scritto a grandi lettere Stefanini.
Corsi da lui.
– Mi chiamo Azizi! – disse subito il mio autista, un bell’uomo sui trent’anni, stringendomi la mano.
Senza attendere un minuto di più, nessun altro turista andava all’albergo White Sands quel giorno, aprì la portiera del pulmino facendomi salire, mi prese le valige riponendole nel bagagliaio, si sedette al volante e partì.
Il viaggio durò una buona mezz’ora e lo trovai affascinante.
Appena uscito dalla zona aeroportuale, il pulmino imboccò un largo viale asfaltato ai bordi del quale si susseguivano casupole basse poste fra la striscia di terra battuta che fungeva da marciapiede e la foresta pluviale. All’interno di quei modestissimi edifici, si trovavano negozi di vario tipo. C’erano l’alimentari, il barbiere, il macellaio, il calzolaio ma anche il gommista e il meccanico. Una folla eterogenea – uomini in camicia e calzoni, donne con vestiti variopinti e altre con l’hijab nera, bambini seminudi – si affollava davanti alle botteghe, saliva o scendeva da vecchi minibus, attraversava la strada senza guardare, mentre galli e galline razzolavano sul ciglio della strada.
Più avanti, però, la foresta prese il sopravvento, intercalata solo da qualche capanna ogni tanto, mentre il mare rimaneva invisibile e sembrava irraggiungibile. Quando gli alberi cominciarono nuovamente a diradarsi, capii che la meta era ormai prossima e, non appena il pulmino raggiunse il vialetto sterrato che conduceva all’ingresso dell’albergo White Sands, mi sentii ormai pronto per una nuova esperienza di vita, mentre Bologna e il suo gelo di quei primi giorni di Gennaio sembravano già un ricordo lontano.
Entrai nella reception. Mentre la ragazza addetta all’accettazione effettuava la registrazione, mi guardai intorno. L’ampia sala, dalle alte pareti bianche e dall’imponente soffitto di paglia, si apriva verso l’interno dell’albergo, dove si intravedevano tanti piccoli bungalow, anch’essi col tetto di paglia, seminascosti fra le palme e i banani. Nel mezzo, c’era una piccola piscina dalle forme irregolari e, al di là di un edificio più grande, composto solo da grandi pali e da un tetto, che fungeva da sala ristorante, si intravedeva l’azzurro chiaro del mare. Era uno scenario meraviglioso e mi sentii subito meno stanco.
– Buongiorno – disse in italiano una suadente voce femminile alle mie spalle, interrompendo quel momento magico.
Mi girai di scatto, sorpreso.
Come è nata l’idea di questo libro?
In primo luogo, ho voluto continuare il mio percorso d’indagine sull’uomo contemporaneo. Nel mio primo romanzo, narrato in terza persona, i protagonisti erano due ragazze e due ragazzi che, prima di partire per un lungo viaggio, si sentivano molto sicuri di sé. Con questo secondo libro, invece, ho voluto porre al centro della scena un uomo maturo, ma in forte difficoltà, che si racconta in prima persona. Ho quindi operato un totale rovesciamento di prospettiva. Per quel che riguarda la trama, che in ogni caso è di fantasia, questa trae origine da un paio di piccoli episodi che ho avuto durante un mio soggiorno in Africa nel Dicembre 2017. Infine, pur essendo anche questo secondo romanzo la storia di un viaggio, ho voluto deliberatamente sfumare i luoghi ed evitare di fornire indicazioni precise, per lasciare correre liberamente la fantasia del lettore.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
A parte la fase di limatura finale, che è un lavoro che richiede sempre molto tempo, non è stato molto difficile. La trama riuscii a elaborarla molto velocemente, nelle sue grandi linee già in Africa nel 2017. Siccome, però, nel 2018 lavoravo al primo romanzo, la stesura definitiva è del 2019.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Non posso dire di avere un autore di riferimento al quale mi ispiro. Cerco semplicemente di essere me stesso. Amo però molta letteratura americana, da Fante e Hemingway, da Williams a Lansdale e la loro capacità di scrivere storie profonde di gente comune con un linguaggio essenziale e efficace. Ultimamente sono stato però fortemente attratto da Eshkol Nevo.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Prima del Covid-19 sono sempre stato una persona molto “mobile”. Stare fermo quasi tre mesi è stata un’esperienza assolutamente nuova per me. Vivo a Frascati, ma sono nato a Genova, cresciuto in Lombardia e ho vissuto all’estero per buona parte della mia vita. Ho avuto esperienze importanti in Olanda, Germania, Polonia, Turchia, Giappone, America e giungla sudamericana, e non si contano i paesi che ho visitato.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Scrivere, scrivere e poi ancora scrivere. Sto lavorando alla trama di un romanzo che parla di alcuni aspetti che mi stanno a cuore della realtà umana e sociale italiana. Sul mio sito, Fulviodrigani.com, trovate anche alcuni racconti che ho nel frattempo pubblicato. Vi invito a visitarlo.
Lascia un commento