
Edito da Eva Mori nel 2020 • Pagine: 212 • Compra su Amazon
Quando Claudia e Michela s’incontrano per la prima volta, chine sul parapetto di un balcone, di una cosa sono certe entrambe: dietro quella facciata d’indifferenza si nasconde il cuore di un sopravvissuto. E un sopravvissuto vive come viene, fatica a stare in equilibrio.
Michela trova le parole giuste nell’amore.
Claudia vi trova il modo di arginare un senso di solitudine che non le dà respiro.
Ciò che entrambe non sanno, però, è che l’amore può rivelarsi una scintilla pericolosa.
E se distruggere fosse un atto più puro e caritatevole dell’amare stesso? Come si fa a lasciar andare il proprio carnefice?


Come è nata l’idea di questo libro?
Quando una storia d’amore arriva al termine, spesso seguono domande che non trovano risposta. Le mie protagoniste sono l’una lo specchio dell’altra, intrappolate nell’incapacità di amare e di farlo nel modo giusto. Michela rappresenta la passività, l’inettitudine di fronte alla vita. Claudia l’abbandono. La prima scrive, la seconda fotografa. Muovendosi tra i confini di una Roma esacerbata, Chi distrugge non ama ripercorre una dolorosa parte del mio vissuto in cui «le parole sono come succhi gastrici indispensabili alla digestione». La volontà di raccontare e raccontarmi nasce dal bisogno di dire. Non c’è mai una storia più giusta dell’altra, piuttosto quella più giusta per noi in quel momento. I miei personaggi sono a tutti gli effetti degli antieroi caratterizzati da scelte sbagliate, pensieri e azioni incomprensibili e spaccati di vita. Hanno una madre, come noi, padri distanti o immobili, un lavoro, mille case, molti amori di cui pochi giusti. Durante la creazione del romanzo non mi sono mai seduta a tavolino con un’idea prestabilita, sapevo semplicemente con chi avevo a che fare. Ho trattato i miei personaggi come persone reali, mai tarato le loro scelte. I finali sono spesso scontati, ma quello che conta è come la vita ci plasma nel mentre, e vale lo stesso per Claudia e Michela.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Portare a termine il romanzo è stato un po’ come sedersi nello studio di un terapeuta, non so se rendo l’idea. La difficoltà non è mai scrivere, ma «vedere quello che c’è sul fondo, vicino ai piedi». È una di quelle cose che prendono respiro da sole; la vera difficoltà è stata alla fine, nella pulizia, l’editing, la paura di non aver fatto abbastanza. Il lavoro più grande, come sempre, lo si fa alla fine. Ma ad oggi posso dirmi soddisfatta: ho detto quello che avevo da dire, e ho avuto il coraggio di dirlo.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Adoro Carver, la Mazzantini, Palahniuk, Sally Rooney (e molti altri). Non c’è un filo logico tra gli autori che seguo: leggo di tutto. Amo la pesantezza e la leggerezza e credo che da ogni storia si possa trarre riferimento per qualcosa di diverso. E’ questo quello che mi piace della letteratura, la sua eterogeneità.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Attualmente vivo a Roma, ma proprio come Michela, la mia protagonista, vengo da un piccolo paese a sud del Lazio. La differenza tra le due realtà è immensa, ma direi che una città variopinta e negligente come Roma mi calzi a pennello.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
I miei progetti per il futuro? Sopravvivere e scrivere; l’una non esclude l’altra. Magari farmi una valigia e andarmene. Scrivere ancora, di altro. Per il momento mi concentrerò sulla promozione del romanzo e poi, appena pronta, metterò le mani sul mio secondo lavoro in cantiere. Mi piace raccontare le storie degli altri; mi sento un dio e una mosca.
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