
Edito da Edizioni Il Ciliegio nel 2019 • Pagine: 320 • Compra su Amazon
Torino, parco del Valentino. In una nevosa notte d’inverno, il commissario Tommasi incontra una donna affascinante e misteriosa. Nello stesso momento, a pochi metri da loro, viene compiuto un rito satanico che si conclude con la feroce uccisione di una giovane. Il commissario si ritroverà suo malgrado a capo di un’indagine nella quale rischia di essere il principale indiziato. Dovrà indagare su famiglie ricche e potenti legate al satanismo e contemporaneamente affrontare le incongruenze tra logica e magia che lo portano a un lontano passato. In un’ambientazione che si alterna fra XXI e XVII secolo, ricca di suspense e mistero, l’indagine si snoderà fra intrighi e fatti inspiegabili, collegati a eventi passati narrati in un antico manoscritto. Potenti avversari sono decisi a eliminare il commissario, costringendolo addirittura a una discesa agli Inferi per trovare una risposta all’impossibile.

Il riflesso tremulo del castello sulla superficie nera del Po, che scorreva placido ai suoi piedi, ricordava i fotogrammi di una pellicola di un film che scivolavano lentamente verso il mare e l’oblio.
Ero seduto da tempo sulla mia solita panchina, fumando l’ennesima sigaretta. Guardai l’orologio. Le due: meglio tornare a casa, anche se non c’era nessuno ad aspettarmi. Aspirai l’ultima boccata, quasi che quel fumo potesse riempire il vuoto che avevo dentro, poi mi alzai e gettai a terra il mozzicone. Lo sfrigolio della brace sulla neve mi svelò come tutto intorno il silenzio fosse totale. Nessun suono proveniva dalla città, neppure quello ovattato delle auto sul corso Moncalieri poco distante. Provai una strana sensazione, come se mi trovassi in un limbo, così restai immobile per qualche istante, godendomi quell’inspiegabile senso di inquietudine e, al tempo stesso, di pace.
Improvvisamente il grido di una donna lacerò il silenzio. Un urlo di terrore che sembrava uscito dall’aria stessa e che mi fece gelare il sangue. Aguzzai lo sguardo e l’udito alla ricerca di un suono, una luce o un movimento che tradisse la presenza di qualcuno. Mi guardai attentamente intorno, poi osservai con attenzione l’altra sponda del fiume ai piedi del castello, ma non vidi nulla. Non c’era nessuno, nessun movimento, nessun rumore.
Cercai di convincermi che si fosse trattato di un sogno, oppure che qualche spiritoso avesse voluto farmi uno scherzo. Se così fosse stato non gli avrei dato la soddisfazione di fuggire terrorizzato, per cui mi avviai lentamente, come se non avessi udito nulla, verso il vialetto poco distante.
Prestando attenzione a ogni passo per non inciampare in qualche ostacolo nascosto, continuavo a ripetermi che forse avrei dovuto chiamare la questura per far arrivare una volante. Sarebbe stato corretto richiedere comunque un controllo, ma il pensiero di dover spiegare cosa ci facessi nel parco a quell’ora me lo impedì: potevo accettare che in ufficio mi considerassero un tipo strano, ma non potevo permettere che arrivassero a ritenermi uno svitato.
Dovevo tutelare la mia credibilità o almeno quel poco che ne restava, per cui lasciai perdere.
Una volta giunto al vialetto, finalmente al sicuro, alzai lo sguardo. Fu allora che la vidi.
Avanzava avvolta in un domino scuro e la prima cosa che notai fu il suo incedere elegante, nonostante il tappeto di neve. La ragazza sembrava fluttuare sulla superficie candida come su di una nuvola, mentre il mantello nero che l’avvolgeva lasciava intravedere a ogni passo un vestito che le arrivava fino ai piedi, da cui uscivano ritmicamente scarpette bianche come la neve in cui affondavano appena. Quel movimento lento e ritmato rifletteva sul tessuto verde cangiante dell’abito la luce dei lampioni, creando strani e affascinanti ricami capaci di avvolgerla in un’aura di lampi colorati.
Avanzava a capo scoperto e i fiocchi che si depositavano sui lunghi capelli, imprigionati tra quelle onde corvine, parevano perle di un’acconciatura.
La guardavo ammirato e al tempo stesso intimorito dalla sua bellezza, sfrontata come il suo comportamento. Incurante della mia presenza camminava lentamente, con la testa alta e lo sguardo fisso davanti a sé, le labbra vermiglie inarcate in un sorriso inquietante. A ogni passo il suo splendore era sempre più evidente. Mi domandai cosa ci facesse una ragazza così, da sola e in quel parco deserto, anche se quegli abiti facevano pensare a una
modella di ritorno da qualche festa in maschera. Però la sua sicurezza era fuori luogo, persino capace di farmi provare un brivido di paura nonostante la Beretta d’ordinanza che tenevo infilata nella cintura sotto al cappotto.
Quando giunse a pochi passi da me il suo sguardo mi paralizzò.
Non avevo mai visto occhi così: due smeraldi dal taglio obliquo, simili a quelli di una gatta. L’attaccatura dei capelli, che formava una piccola punta in mezzo alla fronte, enfatizzava il suo sguardo rendendolo quasi magnetico.
A un tratto sembrò finalmente accorgersi della mia presenza, così sollevò ancora di più il mento e la sua espressione altera e determinata mi fece capire che lei, al contrario di me, non aveva alcun timore.
«Fate luogo, messere!» ordinò, mentre un lato del domino le scivolava dalla spalla sinistra scoprendo un’ampia scollatura e un torchon di smeraldi al collo. Distratto dal ritmico sollevarsi del suo petto, costretto in un busto che pareva volerlo sospingere fuori a
ogni respiro, restai in silenzio a fissarla. Con un sorriso provai a dissimulare il mio imbarazzo e l’inspiegabile paura che mi stava suscitando, quindi abbozzando un goffo inchino mormorai: «Salve…»
L’ovale perfetto del suo volto si inclinò appena, come se mi stesse studiando, mentre i suoi occhi mi scrutavano socchiudendosi leggermente.
«Allora messere, volete farvi da parte?» chiese, dopo aver scostato con un gesto aggraziato della mano una ciocca ribelle che le era scesa gocciolante sulla fronte. Con quel movimento il domino si aprì del tutto, svelando il vestito di seta verde trapunto d’oro e la vita sottile che si apriva in un busto a calice. Mi sforzai di replicare, alla disperata ricerca di una frase di senso compiuto nel marasma dei pensieri che mi si accavallavano in testa. Incapace di parlare continuavo a contemplarla in silenzio, come un perfetto idiota. Volevo replicare in modo tale da fare colpo, sembrarle brillante e simpatico, ma il fluire dei
ragionamenti nella mia testa sembrava imbrigliato da una forza aliena, come un’energia che mi scandagliava il cervello e che sembrava scaturire proprio da quegli occhi felini. Mi sentivo come Alice al cospetto dello Stregatto o un topo ipnotizzato dal serpente pronto ad avvolgerlo nelle sue spire, ma proprio questo pensiero mi fece reagire: non ero un topo, lei non era un gatto e soprattutto avevo una pistola e nessuna valida ragione per temere una ragazza che poteva avere la metà dei miei anni. Si trattava senza dubbio di una “cabinotta”, una di quelle giovani snob della collina che passavano le serate a bere e impasticcarsi, grazie ai soldi di papà.
…
La carrozza entrò nell’ampio cortile del castello. Il rumore degli zoccoli sul selciato, rimbombando tra le mura del palazzo, attirò l’attenzione del capitano Jean Claude Martinat, che si voltò a guardare chi stesse arrivando tanto di fretta. Riconobbe subito la vettura della duchessa Maria Cristina grazie allo stemma sulla portiera, ma gli sembrò strano che nessuno lo avesse avvertito per tempo del suo arrivo.
Lanciò un urlo ai soldati di guardia alla porta principale e il suo comando si confuse con il richiamo gutturale del postiglione, intento ad arrestare la corsa dei quattro murgesi. Rapidamente i soldati si disposero in linea davanti alla vetrata di ingresso del palazzo, mentre lesti due valletti si avvicinarono per abbassare il predellino. La porta si aprì e la duchessa si affacciò, così Jean Claude le si fece incontro di corsa per offrirle il braccio. La donna lo guardò e gli sorrise poi, afferrata saldamente la mano del soldato, scese con un movimento lento e studiato, in modo da non inciampare nell’ampia gonna. Era ancora bella, nonostante le quattro gravidanze e i lutti che l’avevano afflitta, ma il suo sguardo era velato dalla tristezza e dal fardello del suo ruolo, che le donavano una particolare maestà. Era la sorella del re di Francia Luigi XIII ed era destinata a un futuro da regina, ma la Ragion di Stato l’aveva limitata in quel piccolo ducato. Nonostante
ciò non aveva mai accettato ingerenze altrui negli affari di Stato, che fosse Richelieu, il ministro plenipotenziario del fratello, oppure i cognati Tommaso e Maurizio che perciò si erano alleati con la Spagna. Il ducato però stava pagando il prezzo di quella sua indomita arroganza, diventando il campo di battaglia su cui si affrontavano i due giganti d’Europa.
Martinat fece un passo indietro e si inchinò, togliendosi il cappello piumato e accompagnando l’omaggio con un ampio movimento del braccio. «Non vi attendevamo così presto duchessa; spero vorrà perdonare la pessima accoglienza» esordì visibilmente imbarazzato.
«Nessuno sapeva di questa mia fuga da Torino, Jean Claude, quindi siete perdonato.»
Il capitano, rialzatosi, aggrottò le sopracciglia guardando la carrozza. «Avete viaggiato senza scorta, Madama! Mi pare una grave imprudenza di questi tempi.»
«Qualcuno si è occupato della mia sicurezza, non temete. Anzi, spero che d’ora in poi collaborerete a tal fine, perché mi siete entrambi preziosi.»
Jean Claude si inchinò nuovamente in segno di obbedienza. «Comunque vi supplico di avvisarmi la prossima volta: provvederò a fornirvi una scorta sicura e, se vorrete mantenere il riserbo sui vostri spostamenti, la comanderò personalmente. Vi supplico di non far più certe imprudenze» protestò il capitano, scrutando all’interno della carrozza per vedere chi fosse l’uomo che l’aveva accompagnata, domandandosi chi potesse essere così
valoroso da garantire da solo la protezione necessaria.
«Mon cher, so bene quanto ci tenete alla mia persona e, a parte i miei figli e il conte Filippo, non ho persona più cara di voi» chiosò Maria Cristina. Poi il suo sguardo si fece improvvisamente duro: «Ma non permettetevi più di sgridarmi, anche quando potreste avere ragione: le vite del Duca e delle sue sorelle sono ben più preziose della mia e voi siete l’unico che li proteggerebbe fino alla morte».
Martinat, gratificato da quel riconoscimento, anche se accompagnato da un severo rimprovero, si rasserenò. «Posso sapere il nome del vostro protettore, Madama?» chiese voltandosi nuovamente verso la carrozza.
«Se non vi conoscessi penserei che siete geloso» rispose dolcemente la duchessa. «E le dame della mia corte, che fanno a gara per farsi notare da voi, si sprecheranno in pettegolezzi
malevoli.»
Il capitano arrossì visibilmente. «Altezza, non fraintendete le mie intenzioni, siete una donna bellissima ma io…»
«Vi sto celiando, Jean Claude: siete un uomo di incredibile valore, lo testimoniano le ferite che avete rimediato per proteggere la vita del mio compianto marito, ma nei duelli d’amore siete un vero disastro!» concluse Maria Cristina divertita.

Come è nata l’idea di questo libro?
Mentre passeggiavo al Valentino, di notte, durante la nevicata da record del 15 febbraio 1987. Nel silenzio ovattato all’improvviso udii un urlo di una donna, non ho mai saputo cosa lo avesse causato, ma da quell’urlo e dalle leggende della “dama bianca” del Valentino è nata la trama de La chiave di smeraldo.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
La trama è stata abbozzata quella notte stessa, poi ha riposato in un cassetto per alcuni mesi fino a diventare una prima stesura. Avevo poco più di 20anni all’epoca, e non la scrissi per pubblicarla ma solo per una sorta di necessità. Lasciai il libro in un cassetto per molti anni, e quando lo ripresi in mano mi resi conto che i personaggi e la tecnica di scrittura erano acerbe, sgradevoli, ma la storia era buona, per cui decisi di riscriverlo da zero. Poi da una seconda stesura ne uscì una terza, e così via per numerose volte. Alla fine provai a farlo leggere a degli amici, i quali mi spinsero a provare la via della pubblicazione. Via che tentai senza nutrire speranze, per il solo gusto di mettermi alla prova. Tra le varie offerte di pubblicazione che ottenni, scelsi quella de Il Ciliegio perché mi parve da subito la più professionale, quella che mi garantiva il risultato migliore, come infatti è stato.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Leggo molto, non ho autori preferiti, anche se adoro Camilleri e Manzini per quanto riguarda i “gialli” più classici. Amo in particolare le storie più gotiche, quindi Anne Rice per quanto riguarda vampiri e streghe, e i classici gotici e horror ottocenteschi (Poe, Shelley ecc.). I romanzi però che più mi hanno intrigato sono stati Il codice Da Vinci (e solo quello) di Dan Brown e Il pendolo di Foucault di Eco. Il mio romanzo preferito però resta I cacciatori delle tenebre, di Barbara Hambly.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Ho vissuto per tanti anni a Torino, di cui conosco ogni angolo e storia, poi alla tenera età di 51 anni ho tentato l’avventura trasferendomi all’isola d’Elba e ora, da qualche mese, vivo vicino al lago di Garda, in provincia di Brescia.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
La chiave di smeraldo era il mio primo romanzo completo, e come tale ho voluto lavorarci su fino alla versione definitiva. Ne ho altri nel cassetto, perché scrivo da sempre (anche se mi dedico più a racconti brevi che a romanzi completi), e sto già lavorando al secondo che è sempre un paranormal thriller ma stavolta affronta tematiche molto diverse, decisamente più horror (ma pur sempre “reali”). Diciamo che il tema de La chiave di smeraldo è un tema più metafisico, una specie di viaggio spirituale e un percorso di crescita del protagonista, mentre quello su cui lavoro adesso ha delle implicazioni più tipicamente “gialle” e horror. Il mio vero timore però, essendo molto soddisfatto del risultato ottenuto con il mio primo lavoro, è che il secondo non sia alla sua altezza e questo davvero mi spaventa.
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