
Edito da Round Robin Editrice nel 2020 • Pagine: 333 • Compra su Amazon
Cosa faresti se tuo figlio di 16 anni si chiudesse in camera e non volesse aprirti la porta, opponendo il suo silenzio adolescenziale alle tue richieste di dialogo?
Potresti raccontargli i tuoi, di 16 anni. Della tua epoca, delle tue passioni, dei tuoi amori, delle tue delusioni, dei tradimenti, delle scoperte, della politica, della musica, delle scelte che ti hanno fatto diventare la persona che sei.
È la scelta che fa Lorenzo, padre cinquantenne, di fronte alla porta chiusa di quella cameretta, bastione e fortezza eretta contro il mondo degli adulti, che si trasforma in una riflessione su un’epoca che ha lasciato segni profondi nella nostra.
Sono gli anni ‘80. Anni frivoli e pacchiani, ma anche densi di avvenimenti e tragedie, in cui vinse un modello estetico, culturale e politico con cui ancora oggi facciamo i conti.
“Il Club degli Ultimi” è la storia di un gruppo di ragazzi che, come tanti, non è allineato alle etichette del periodo. Non integrati e indipendenti, dovranno affrontare le scelte e le sfide della crescita, in momenti tragici e comici, commoventi ed esilaranti, come lo è la vita di ognuno di noi.
Una mano tesa al proprio figlio e il racconto di quegli anni. “Stupidi, burrascosi, violenti, appassionati. Come sono poi i 16 anni di tutti”.

1. SBAM! – conversazione dietro a una porta
Look at me standing Here I’m on my own again Up straight in the sunshine No need to run, and hide It’s a wonderful wonderful life No need to laugh, and cry, It’s a wonderful wonderful life
Guardami Sono qui di nuovo solo Di fronte al sole Non c’è bisogno di correre, e di nascondersi È una vita meravigliosa, meravigliosa Non c’è bisogno di ridere, e piangere È una vita meravigliosa, meravigliosa
Black, Wonderful life
Ecco, l’hai fatto di nuovo.
Sei entrato in casa, hai gettato lo zaino all’in-gresso, hai biascicato un ciao! sbrigativo e poi, dopo aver inghiottito due bocconi di insalata e un po’ di pane, hai risposto appena ai patetici tentativi miei e di tua madre di rompere il muro del tuo silenzio.
«Tutto bene?».
«Huhu».
«A scuola?»
Questa è tua madre, per me lo sai che è un argo-mento tabù – io a scuola facevo schifo, a che titolo ti posso fare le prediche?
«Al solito».
«Il resto?».
«Al solito».
Tua madre e io siamo rimasti a fissarci per qual¬che minuto, indecisi su chi dovesse prendere la paro¬la. Poi, come sempre, è toccato a me.
«Ah, dimenticavo…», ho detto con aria fintamente indifferente. «Sai, stavo sfogliando il giornale. Ho visto una foto di quella manifestazione sull’ambiente».
«Fridays for Future».
«Quella. Nel corteo, se non sbaglio, mi pare di aver visto una foto in cui ci sei tu».
«Ah», hai detto. E mi è sembrato di cogliere una scintilla di interesse.
«Sei tu quello con quel cartello in mano?».
Hai guardato distrattamente la pagina del quoti-diano, hai sorriso.
«Uhu».
Con tua madre ci siamo scambiati uno sguardo di assenso.
Ne avevamo parlato per tutta la mattina, in at¬tesa che tu arrivassi. Eravamo stupiti da questo im¬provviso interesse per la politica. Tu, che dai 12 anni in poi, ci hai sempre ripetuto che la politica non la capivi, che era complicata e ti faceva schifo.
Io ero felice di cogliere un barlume di coinvolgi-mento in qualcosa, tua madre replicava che fosse solo una scusa per fare sega a scuola.
A proposito: nel mio slang giovanile fare sega si-gnificava marinare, bigiare, fare filo. Insomma, sal¬tare le lezioni.
«Come mai non ce l’hai detto?».
«Tanto ci andava tutta la scuola, avevamo pure la giustificazione della preside».
«Se non te l’avessero data i professori, te l’a-vremmo firmata noi. L’ambiente è importante».
«Uhu».
«Beh, sono contento», ho detto scrutando tua madre con aria stupidamente trionfante. «C’era chi avrebbe potuto dubitare della tua buona fede».
«Come è stata la manifestazione?».
Ha replicato lei imperterrita.
«Forte».
Mica la capisco, ’sta diffidenza nei tuoi confronti: secondo me è nel Dna femminile. Un bug genetico che scatta con la gravidanza e la maternità. In fondo, le ho detto mentre discutevamo questa mattina, che cosa c’è di sorprendente nel fatto che tu sia sensibile alla tematica? È da quando sei nato che vivi immerso nella cultura ambientalista. Come se non fossero bastati tutti quegli animaletti parlanti di Disney.
«E, scusa», ha proseguito lei, «che vuol dire questo cartello?».
Nella foto sfili con aria trionfante, alzando sopra la testa la scritta:
UN UMANO KE 1,2
UN UMANO KE YNQUINA [con la Y di yen]
UNA TERRA KE 3,L
UNA TERRA KE DECLYNA [sempre con Y di yen]
Confesso di averlo trovato alquanto misterioso anch’io.
Lo hai scrutato come se lo vedessi la prima volta.
«Buh? Me l’hanno dato perché sono più alto degli altri, così si vedeva meglio. Mica l’ho capito che c’è scritto».
È la chiacchierata più lunga degli ultimi sei mesi. La precedente era stata per ottenere il permesso di rientro alle 3 da una festa in discoteca.
Poi, visto che ti eri speso così a lungo nella conversazione con noi, brandendo la tua inseparabile protesi digitale ti sei alzato in silenzio, ti sei ficcato le cuffiette e sei entrato in cameretta.
SBAM!
Comincio a detestarlo quel suono. La porta che sbatte, con quel misto di malagrazia, sciatteria e impudenza, una sorta di messaggio ribelle che dice a chiare lettere: Io con voi non voglio avere a che fare!
Va bene, ti lascio in pace. Non busserò più. Non ti chiederò se è tutto a posto (tanto lo so che poi mi risponderesti al solito). E prometto che cercherò pure di convincere tua madre a smettere.
E – guarda – so anche quello che pensi.
Non ci credi, vero? Eppure, è così. Tu entri in casa e vedi quel signore di mezza età (che poi sarei io) seduto in poltrona, gli occhiali spessi sul naso, mentre – orrore! – legge un giornale di carta! e pensi: ma figurati. Quello lì. Ma quando mai ha vissuto le mie esperienze. Che ne può sapere di uno come me, della mia generazione, dei miei problemi.
D’accordo. Non so usare Instagram. E sì, penso che Facebook sia una colossale perdita di tempo. Tutte quelle altre diavolerie tipo Telegram, TikTok – o che altro ne so – per me restano un mistero.
E poi appartengo a quella generazione che chiamava con il telefono a casa – mica come oggi che manco vi chiamate e per conoscere una ragazza la contattate direttamente – e bisognava anche sbrigarsi, perché se no le bollette erano salate. Ma soprattutto ti costringeva a quelle imbarazzanti conversazioni con i genitori in cui dovevi dimostrare di essere educato e affidabile.
Anzi, ora che ci penso, eravamo molto più coraggiosi noi: voglio vederti a chiamare casa della tua ragazza – guarda che lo so che ce l’hai, inutile che fai il misterioso – e chiedere se per favore puoi parlarci o se è in casa. E quei secondi interminabili in cui magari ti rispondeva il padre e tu sudavi freddo…
Io so cosa stai vivendo. Forse non capisco il tuo linguaggio, che abbandonerai anche te tra tre, cinque anni, ma so cosa dice la tua testa.
E per quanto la cosa ti imbarazzi, so anche cosa sta vivendo il tuo corpo.
Non credere di essere così originale. L’uomo si è evoluto in questo modo negli ultimi cinquantamila anni. Un prodigio, secondo i genetisti, un battito di ciglia per la storia della Terra. Figurati che cavolo è un salto generazionale, che è stimato in circa venticinque anni. Noi siamo più o meno gli stessi esseri viventi dell’epoca di Cristo, anzi gli stessi che graffiavano le pareti di roccia con rozzi disegni di caccia (e di orge, se proprio lo vuoi sapere) e che facevano le guerre con sassi e bastoni. Adesso abbiamo smartphone e pc, ma sotto sotto restiamo gli scimmioni strani che a un certo punto si rifiutarono di salire sugli alberi.
Quindi, guarda a me. Guarda me per sapere quel-lo che sarai.
I capelli li perderai anche tu, rassegnati, è la condanna della genetica – dovresti goderteli fino ai 30 avanzati – e pensa che anche io ho avuto 16 anni.
Ti sembrerà un’era geologica. Erano gli anni Ottanta. Sì, quelli in cui vestivamo tutti colorati, le ragazze si facevano la permanente e portavamo dei ridicoli jeans corti. Ah, no, scusa. Quello lo fai anche tu. Lo vedi? Il risvoltino lo facevamo prima noi. Che peraltro copiavamo la moda americana degli anni Cin-quanta. Perciò, tesoro, nulla di nuovo sotto al sole.
Non ti voglio ammorbare con la solita storia noi eravamo quelli che:
– non usavamo la cintura di sicurezza
– non indossavamo il casco
– il medico ci fumava in faccia
– i coloranti, gli zuccheri, i conservanti che levati -guardavamo cartoni strappalacrime di bambini abbandonati
– ci raccontavano storie terrificanti prima di andare a dormire, sbattendosene che poi avremmo avuto gli incubi
– giocavamo a pallone e andavamo in bicicletta per strada
– e i genitori ci ricattavano moralmente con i bambini del Biafra (che poi dove cavolo sta, ’sto Biafra?)
No, internet è pieno di queste storie.
Te ne voglio raccontare un’altra.
La storia dei miei 16 anni.
La storia dei miei amici che, come per tutti, a quell’età, furono la mia famiglia, la mia zattera, la mia ancora e il primo territorio in cui conobbi felicità e delusioni, lealtà e tradimenti, amore, passione, rabbia e accoglienza. Eravamo un bel gruppo, anche se non si presentava nel migliore dei modi. Sembrava che l’unico comune denominatore fosse l’essere marginali, non allineati alle rigide logiche di quell’età e di quell’epoca. Fuori moda, fuori corrente e fuori da un periodo in cui essere esattamente l’opposto di quel che eravamo costituiva l’imperativo categorico: negli anni Ottanta dovevi primeggiare.
Noi, invece, eravamo il Club degli Ultimi.
Il Club degli Ultimi. Non ricordo chi decise il nome, con un misto di disprezzo, orgoglio e rabbia. Del resto, a 16 anni è facile sentirsi incollati a una vetrina a osservare la vita che ti scorre davanti, è facile avere la sensazione di essere esclusi, indegni o inadeguati di fronte a quello spettacolo. Uno spettacolo che ti affascina e ti disgusta.
È bello, ogni tanto, accorgersi che insieme a te, di fronte a quella vetrina, ci sono altre persone.
A quel punto diventa facile ma anche eroico far diventare la propria diversità una bandiera.
Ti parlerò di quello che è stato – senza dubbio – l’anno in cui sono diventato quel che sono.
Ti sto tendendo la mano e spero di poter attraversare con te quegli anni. Stupidi, burrascosi, violenti, appassionati. Come poi sono i 16 anni di tutti.

Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea di scrivere questo romanzo nasce da un episodio che risale a molti anni fa. Ero insieme al gruppo dei miei amici storici e ci trovavamo a una manifestazione, ai bei tempi in cui ancora si scendeva nelle piazze, tutto era meno virtuale e più fisico e soprattutto non eravamo costretti al distanziamento sociale. Era il 1985, sfilavamo in corteo, felici ed entusiasti e cantavamo una canzone dei Duran Duran “New moon in monday”: avevamo visto il video – erano gli anni in cui guardavamo VIdeoMusic, ancora prima dell’arrivo di MTV – e di quella canzone non avevamo capito neanche il testo, ma ci sembrava davvero rivoluzionari. Qualche anno fa ho ritrovato una foto di quel momento e tra la tenerezza e la nostalgia, ho iniziato a scrivere “Il club degli ultimi”.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
C’è voluto un anno a scrivere il romanzo, ma in fondo l’ho scritto di getto sebbene nei ritagli di tempo della mia frenetica vita di giornalista, inviato e conduttore in una televisione che va in onda h24. Svegliarsi alle 4 del mattino per condurre la rassegna stampa e poi mettersi a scrivere non è stato facile, soprattutto se a rendere più movimentata una vita già piuttosto intensa ci si mettono due gemelle di cinque anni!
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Sicuramente Stephen King, cui mi sono ispirato pensando alle atmosfere di Stand by Me. Ma poi la leggerezza pensosa di Calvino, l’autoironia di Nicl Hornby e certamente lo humor di John Niven. Insomma, ci ho provato a mettere insieme tutte queste aspirazione e ne è uscito semplicemente un Ales!
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo tra Roma – la mia città di nascita – e Milano dove lavoro, ma il mio ruolo di inviato in scenari di crisi mi ha portato a viaggiare moltissimo dal Medio Oriente, all’Africa, Asia e America Latina. Però il cuore – come si capisce dai miei romanzi, è e resta a Roma che non è solo uno scenario di ambientazione di ciò che scrivo, ma che diventa essa stessa parte integrante del racconto.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Veramente ogni volta che finisco di scrivere un romanzo non faccio mai progetti per il prossimo. Però pensavo che sarebbe bello fare il pompiere o l’astronauta.
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