Edito da Antonio Vella nel 2019 • Pagine: 350 • Compra su Amazon
Guardi il volto di un ragazzo come tanti e non cogli più la sua espressione: il vuoto. Ma solo se lo osservi, se ti sforzi di andare oltre, se non usi la leggerezza che insegna il mondo moderno, lo vedi. Perché il bullismo toglie a un volto le emozioni, ma lascia sempre segni invisibili a un occhio distratto.
Purtroppo o per fortuna – scelga il lettore – non c’è ancora una pillola miracolosa per la Violenza, contro cui – da tempi immemori – esiste soltanto l’amore. Quello vero, che salva, sfida, combatte e, spesso, perdona. Quello che, quasi sempre, scopre la Verità, come accade nel romanzo di Romano Lenzi.
La verità su un omicidio, su una condanna inflitta ingiustamente a un innocente, sul legame fra due ragazzi e un giuramento. La promessa di incontrarsi di nuovo, a distanza di 25 anni, per andare oltre le persecuzioni subite, le umiliazioni e le violenze soltanto insieme.
Romano Lenzi
20 dicembre 2016
(Pag. 6 del libro)
“Cosimo hai fatto la lezione? Attento con quella palla spaccherai qualche vetrina…”
Aggiusto gli occhiali, mi sembra di essere in una di quelle case di Pompei dopo la famosa eruzione. Da ogni angolo, da ogni mattonella del pavimento, da ogni oggetto di questa casa schizzano fantasmini. Sono triste e felice nello stesso tempo. Mi aggiro per le stanze, spalanco le finestre e, come un ragazzo alla sua prima esperienza sessuale tocco tutto quello che mi trovo davanti. Niente è stato più visto, sfiorato o accarezzato. I miei occhi sono come una telecamera. La mia cameretta! Avevo già notato la porta ma non avevo avuto il coraggio di entrare. È lì che mi nascondevo per poter piangere senza farmi vedere, che meditavo le mie vendette, i miei sogni, il mio futuro. So che prima o poi dovrò entrarci ma ancora non mi sento pronto. Nonostante la vita mi abbia fatto maturare, sono rimasto quell’adolescente timido e pauroso di quei tempi. Apro invece la porta della camera dei miei genitori. Il letto è ancora disfatto e una camicia di mio padre è rimasta miracolosamente in bilico sul vecchio pouf. Mia madre non l’avrebbe mai lasciata così se non avessero avuto una fretta particolare. Mi volto, non mi rimane che entrare nella mia stanza tuttofare. So che devo farlo ma è come se due correnti uguali e contrarie si scontrassero su di me. Un fruscio d’ali, una voce lontana che quasi non riconosco, un volto che si avvicina sorridente. “Cosimo che ci fai ancora in casa? Esci, è il tuo momento, lì fuori ci sono tante bimbe che non aspettano altro che i tuoi baci.” Rideva mio padre mentre lo diceva. Mi scuoto, a Livorno si è bimbi anche a cinquant’anni. Eppure devo entrare, mi faccio forza, preso da una sorta di eccitazione inizio a camminare a passo svelto, poso la mano sulla maniglia, ho un giramento di testa, mi appoggio alla porta, tiro un lungo sospiro, ed entro di colpo. La prima cosa che vedo sono delle strisce di luce che provengono dalle stecche della persiana. La spalanco quasi con rabbia e non posso fare a meno di capire quanto la mia pressione arteriosa sia salita. Appoggio le mani sul davanzale, chiudo gli occhi e cerco di rilassarmi con qualche secondo di Training Autogeno. La prima cosa che mi capita di vedere quando apro gli occhi è il letto perfettamente rifatto. Quante volte mi ci sono buttato a pancia in giù con il viso affondato nel cuscino, quante notti ho trascorso in bianco a rimuginare sulla mia timidezza, a leggere con la memoria le parole che avrei dovuto dire e che non avevo detto. Dio quanto ho sognato le labbra di Cristina. Mi scuoto di nuovo, sotto di me il Viale Italia con i suoi rumori.
20 Gennaio 1993.
(Pag.119 del Libro)
«Ciao, buongiorno». Una mano si appoggiò sulla sua spalla della Professoressa Evangelisti facendola sobbalzare Poi la voce aggiunse:
«Ehi scusa».
«No, no figurati, stavo osservando i ragazzi». Rispose sorridendo «Vorrei avere la loro età. Ma, secondo te sono felici?» La collega si guardò intorno pensierosa.
«Sinceramente non lo so. Sono precaria da sette anni, ho un marito geloso, due figlie da seguire e un mutuo da pagare. Come vedi ho ben altro a cui pensare». “Già…precaria, due figlie eccetera eccetera, ha ben altro cui pensare, il fatto è che ognuna di noi, più o meno, è nelle sue condizioni.”
Pensò subito tra sé la Prof.
La prese sottobraccio e si incamminarono verso le rispettive aule.
«Cosa ne pensi del bullismo?» Chiese con noncuranza.
«Ah ma allora vuoi proprio rovinarmi la giornata. Gran brutta cosa!»
«Hai mai notato se in classe tua…»
«Sono arrivata, scusa. Ciao». E si infilò in classe. Ma è questo il nostro modo di fare le educatrici? Cancellando i problemi e fingendo che non esistano? No cara mia, diresti la stessa cosa se succedesse alle tue figlie? Si era subito interrogata mentalmente. Più entrava nel problema e più ne rimaneva colpita, ma erano tutti così i sui colleghi? Mentre pensava a queste cose percepì uno strano movimento, si voltò e un alunno che stringeva la manica di Martini la lasciò immediatamente iniziando a ridere. Anche Martini la guardò, ma non rise. C’era stato qualcosa nel gesto che l’aveva colpita: Quel ragazzo non era dei suoi e indossava un giaccone di pelle con le borchie come il Bianchi, ed aveva anche una strana capigliatura come lui. Martini era sicuramente imbarazzato dalla sua presenza ma non teneva lo sguardo basso come faceva di solito.
«Ok Cosimo ci vediamo nel pomeriggio allora, va bene?»
«Non pensarci neppure». Rispose sottovoce. Ed entrò in classe mentre il tarlo continuava a scavare nella testa della Professoressa. Aveva letto da qualche parte che il bullismo il più delle volte si verifica fuori dell’aula ma, anche, che i professori hanno il dovere di captare certi segnali. Scosse la testa, lei di questi segnali cominciava ad averne captati parecchi e doveva fare qualcosa perché ormai era certa che le sue sensazioni fossero giuste. Non poteva più tenere per sé i suoi dubbi altrimenti, sarebbe stata colpevole di omissione in atti persecutori. Nell’intervallo fra una lezione e l’altra si recò dalla segretaria e chiese del preside.
«Deve chiedere un appuntamento».
«L’ho già chiesto due giorni fa». Sbottò. La ragazza si strinse nelle spalle e alzò la cornetta.
«Dottore c’è la professoressa Evangelisti».
«Dille di venire domani mattina».
Dopo un attimo in cui le era venuta la tentazione di entrare a dirgliene quattro, si costrinse a stare calma, ma sfogò la sua rabbia nel chiudere la porta.
26 maggio 1993
(Pag.175 del libro)
Nonostante il periodo non fosse ancora estivo, il tempo fu compiacente. La tipica giornata primaverile che riesce a far dimenticare le raffiche di vento e le onde che arrivano fino alla piazza. La riunione si svolse nel giardino della Professoressa Evangelisti, circondato da un’alta siepe di Bosso. I presenti non rappresentavano la maggioranza dei docenti perché la Prof si era limitata ad invitare solo quelli sui quali sapeva di poter contare. Quando furono tutti seduti e dopo qualche attimo d’indecisione, dovuto alla forma quasi carbonara della riunione, prese la parola la padrona di casa che introdusse l’argomento. Iniziò proprio da quel compito in classe che aveva destato la sua attenzione. Aveva un modo di parlare pacato, quasi sottovoce e, all’inizio, l’ascoltarono tutti in silenzio limitandosi a semplici cenni di approvazione. Fu quando iniziò a leggere alcuni brani di quel tema che l’atmosfera cambiò. Era scritto così bene che ciascuno di loro entrava nel personaggio, ne condivideva le sensazioni, si immedesimava in lui, e quando la collega Evangelisti chiese loro se poteva trattarsi solo di un compito di fantasia fatto bene o qualcos’altro, tutti fecero cenno di no. Quel tema era autobiografico.
«Bene, allora secondo tutti noi, nell’ Istituto si svolgono atti di bullismo, sotto i nostri occhi e senza che ce ne accorgiamo». Fece una pausa. «Questo però può significare solo due cose. A) che siamo tutti come il preside che preferisce non affrontare l’argomento, B) che non facciamo bene il nostro lavoro di educatrici e educatori». Altra pausa e, mentre i colleghi si guardavano cercando di capire, dove volesse arrivare. «Io comunque preferisco aggiungere una terza opzione a nostro favore: Siamo impreparati ad affrontare queste situazioni. Impegnati con i nostri problemi e poca voglia di aggiornarci professionalmente, camminiamo a testa bassa, con il rischio di infilarci in una spirale senza fine. Guardiamo i ragazzi ma non li osserviamo. Guardiamo senza comprendere, senza mettere in luce quelle certe caratteristiche tipiche dell’osservare. E cosa facciamo?» Ci fu un lungo silenzio durante il quale ognuno valutò dentro di sé il proprio operato. «Continuiamo a camminare a testa bassa a volte fingendo di non vedere». Appoggiò il tema sulle ginocchia e li fissò in silenzio. Erano impacciati, ormai convinti che aveva perfettamente ragione, ma nessuno prendeva la parola. Fu Laura Ferrucci a prenderla, accusandosi di non essere una buona educatrice perché anche lei era stata vittima del bullismo, ai tempi del liceo e aveva taciuto. Prima, per paura di venire respinta agli esami di maturità, ora, per paura del licenziamento.
«Sei scarsa nella mia materia, mi disse il professore, vieni a casa mia che ti faccio qualche ripetizione. Poi appoggiò una mano sul ginocchio, mi fece un complimento che respinsi, e arrivò la minaccia: Sarò il commissario interno. O così oppure…» Il racconto finì lì e che altro avrebbe potuto aggiungere la Professoressa Ferrucci se non qualcosa in favore della Evangelisti? «All’epoca però non dovevo educare, dovevo essere educata da quegli insegnati che tutto potevano essere meno che buoni educatori» Si soffiò il naso e asciugò gli occhi. «Ma ora basta, non posso più essere complice dei Bulli e lotterò con tutte le mie forze, contro chiunque voglia impedirmelo». Guardò la collega «Sono con te Liliana e ti ringrazio di avermi aperto gli occhi». Si alzò e la strinse a sé. Seguì un applauso e fu tutto un raccontare di eventi insieme a qualche mea culpa professionale, finché giunsero alla conclusione di chiedere al preside una riunione dei docenti. All’ordine del giorno doveva esserci un unico punto. Il bullismo nell’Istituto. La professoressa Evangelisti ebbe il mandato di trattare mentre il resto dei presenti avrebbe fatto opera di persuasione nei confronti degli altri colleghi.
31 agosto 1993
(Pag. 229 del libro)
“L’ultima cena” avevano preferito farla da soli, seduti su una panchina, davanti ad uno dei tanti chalet, con un panino farcito ed una bottiglietta d’acqua minerale La musica era alta e l’allegria sprizzava dagli occhi di tutta quella gioventù. Cosimo di tanto in tanto addentava il panino, Cristina prendeva un po’ di mollica e ne faceva un pallina che poi tirava ai passerotti. Nessuno dei due aveva voglia di parlare, tantomeno di mangiare. Il giorno dopo Cosimo sarebbe partito per New York. I pensieri spaziavano fra l’immensa felicità per il loro futuro, e la tristezza per un anno di lontananza durante la quale i Bulli chissà cos’avrebbero combinato a Cristina. Fu Cosimo a rompere quel silenzio che stava facendosi pesante, gettò il panino, si alzò e porse la mano a Cristina.
«Vieni, facciamo due passi». Lei strinse la sua mano e si sollevò. Ora erano di fronte e Cosimo poteva vedere quelle lacrime che le scendevano silenziose. Le dette dei fazzolettini di carta, le cinse la vita e si incamminarono verso il mare. Non avevano voglia di parlare, entrambi desideravano solo schiacciare il pulsante del tempo e trasmettere il proprio calore all’altro. Cosimo si fermò e l’attirò a se. Lei fissò i suoi occhi tristi e lui la strinse forte.
«Ti amo». Le sussurrò nell’orecchio. «Non dimenticarlo mai». Si baciarono e ripresero a camminare mano nella mano. La Terrazza Mascagni apparve all’improvviso, le nubi non nascondevano più la luna e quel mondo di piccole luci sembrava coprirli come un’enorme tendone trasparente. Salirono su quella scacchiera bianca e grigia del pavimento e si appoggiarono alla balaustra. Sotto di loro la bassa marea provocava un dolce fruscio e di tanto in tanto un leggero alito di vento faceva giungere qualche nota irriconoscibile. Intorno a loro solo silenzio.
Questa volta fu Cosimo a prendere l’iniziativa, abbracciò la sua donna, poi la prese per mano e cominciarono a correre, correre verso quella scaletta che portava al mare. E la sollevò, incurante delle carezze dell’acqua e, mentre Cristina si aggrappava a lui con le braccia e le cosce, entrò in lei senza neppure toglierle l’indumento. Per un’eternità furono solo loro, scomparve New York, i bulli, le cattiverie, i dolori, le ansie, e visse solo il loro amore.
Quando tutto fu finito si sedettero sui gradini della scaletta e lei appoggiò la testa sulla spalla del suo uomo. Piccoli atomi in mezzo all’infinito.
Come è nata l’idea di questo libro?
Stavo lavorando su un testo, che niente aveva a che fare con questo soggetto, quando mi resi conto di essere “scivolato” sull’argomento Bullismo. In sintesi non ero stato io a deciderlo ma quando me ne resi conto era ormai troppo tardi.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Molto, perché la trama si ambienta in prima persona al presente, prima persona al passato, terza persona al passato e voce narrante e molti avvenimenti vengono analizzati dal punto di vista di più personaggi.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Nicholas Sparks, Patricia Cornwell.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Nato a Livorno, residente da 10 anni a Corciano (PG).
Dal punto di vista letterario quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Continuare a scrivere finché ne avrò la forza.
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