
Edito da Edizioni Ensemble nel 2019 • Pagine: 122 • Compra su Amazon
La quarantena è il periodo di segregazione cui è sottoposto il contagiato, il diverso, una fase probatoria necessaria a smascherare la malattia, un luogo di isolamento in cui la salute è sospetta, spiata da dietro un vetro di diffidenza. Fino al momento della diagnosi, la condanna alla solitudine forzata è preventiva, perché la salute degli uomini è troppo precaria per rischiare, e l’untore va isolato. Il virus fa tanto più paura quanto più viene da lontano, perché le vie sconosciute percorse dal diverso non possono che essere strade pericolose, terre infette. Così, lo spauracchio del contagio separa mariti da mogli, genitori contagiosi da figli deludenti; i seni nutrienti delle madri divengono ricettacolo di batteri, il latte veleno trasmesso con l’inganno della vita. Perfino l’amore diventa un sospetto episodio virale, quando l’inverno lo spoglia dei suoi fiori e ne rivela i frutti guasti. In dodici storie inquietanti e visionarie, Andrea Mauri ci racconta la sua ossessione per la malattia e il disagio del vivere moderno, proponendoci la scrittura come unica terapia efficace contro le infezioni della vita.

Eri tu tra le braccia della madre. Tu, trasformato in marmo, impietrito nel silenzio del museo, all’ora di chiusura, quando i visitatori scappano verso l’uscita per paura di rimanere chiusi dentro. Io no, io non scappo. Non posso lasciarti solo e spezzare l’abitudine di fissare la dolcezza di una Pietà che non ha eguali al mondo. Rimango immobile davanti alla statua, sempre alla solita ora, sempre alla chiusura del museo, quando posso dialogare in pace con la madre e il figlio stretti nell’abbraccio finale. Questo Cristo della Pietà assomiglia a te. A te che mi hai accompagnato oltre il lecito, che mi hai spinto oltre il consentito, oltre la malattia. Sembra inverosimile, ma quel Cristo ha il tuo profilo che scende con andatura regolare dalla fronte al naso, dalle labbra al mento. Il mio dito indice si deliziava a percorrerlo, sempre, sin dalla prima notte. Quella prima notte in cui non volevi entrare in casa, quando qualcosa ti ancorava all’uscio, come se ti pesasse oltrepassare il gradino che divideva la strada dal mio mondo fatto di scale, ringhiere e panni stesi nel cortile. Il Cristo implora pietà alla madre,come tu imploravi in silenzio, fermo sulla linea di demarcazione, di lasciarti andare via, di non insistere, di non costringerti a maledire una scelta sbagliata, per non esserti sottratto in tempo. Una madre lo sa, quella madre della Pietà lo sa e prende il figlio per mano, per rassicurarlo. Così la tua 41 postura alta e rigida si è ammorbidita non appenati ho preso la mano e ti ho tirato dentro, oltre lo scalino, per mostrarti il mio mondo, il cortile innocuo che non poteva farti del male. Ti ho preso la mano come la Vergine fece con il Cristo e ho visto sciogliersi la paura in uno sguardo più limpido, ora acceso di passione. Le nostre mani comunicavano. Non poteva accaderti nulla. Nell’appartamento ti muovevi come una fiera guardinga, timorosa di invadere uno spazio sconosciuto, attenta a non violare una precoce intimità. Per gioco sfogliavi i libri d’arte in salotto, la prima cosa che ha attirato la tua attenzione. Per gioco hai tentato di indovinare quali artisti avessero realizzato le opere d’arte riprodotte in fotografia. Per gioco ti ho mostrato la Pietà, io per primo, prima che ci arrivassi tu. Volevo sorprenderti, volevo che anche tu ammirassi la meraviglia e lo stupore di un’opera perfetta. Uno sguardo tra noi e il desiderio bambino si è impossessato della stanza che occupavamo. Per gioco ti sei disteso in grembo, attento a riprodurre la posizione della scultura, girandoti e rigirandoti sulle mie gambe, fino a che l’armonia dell’insieme fosse la stessa, prendendo le mie mani e appoggiandole sul tuo corpo divino. Un gioco d’acrobazia, un gioco che mi ha condotto a sfilarti la maglietta prima e i pantaloni poi per consentire alla tua pelle ambrata di respirare, di guadagnarsi il ristoro essenziale dalla troppa emozione. I muscoli regolari, le tue linee perfette senza interruzione rimaste tese anche nel riposo, frutto di fibre resistenti che non conoscevano fatica. Nessuno dei due aveva voglia di parlare quella prima sera, l’intimità in costruzione esigeva silenzio. Noi, immersi nel vuoto di parole, congelati in una Pietà ritrovata. 42 Non sono certo che gli altoparlanti del museo abbiano annunciato la chiusura delle sale. Il mio udito non ascolta quando sono al cospetto della Pietà, al tuo cospetto, e i ricordi di te, ingolfati davanti alla statua del Cristo morto,che assomiglia a te, si affastellano in perfetto disordine. Resto lì, immobile, a ricordarti che il nostro gioco dell’uomo in grembo, accudito dalla madre, è diventato nei giorni un appuntamento fisso, regolare, come regolari sono diventate le nostre vite. Perché ci è accaduto qualcosa di strano, qualcosa che non sono sicuro accada alle altre coppie. Ti sei affezionato così tanto al nostro gioco che una sera, disteso sul grembo, mi hai annunciato la decisione di voler vivere con me per fare quel gioco tutte le notti. Un annuncio che ha fatto tentennare la Pietà per una sera. Una Pietà imperfetta a causa del tremolio che aveva aggredito le mie mani,che aveva reso irregolari le consuete carezze. Procedevo a scatti sulla tua pelle, l’emozione di quell’annuncio mi faceva inciampare sulle parti più ruvide, mi impuntavo su minuziosi ostacoli che provocavano invisibili abrasioni a occhio nudo, anche se penetravano in profondità insieme al dolore. Non sopportavi di vedermi perplesso, intuivi che il tremolio delle carezze sarebbe cessato, bastava rassicurarmi che il gioco non si sarebbe disciolto nella quotidianità, che proprio grazie al gioco avremmo vissuto giorno dopo giorno, senza preoccuparci del futuro, avendo come unico appuntamento della sera la rappresentazione della Pietà. Le mie mani si rilassavano al suono delle tue parole, mentre ti accarezzavano le orecchie. Ti piaceva molto che le toccassi. Le dita scorrevano sul delimitare del padiglione e giocherellavano con la cartilagine spessa della zona di confine. Tu prendevi la mano e la guidavi verso la parte posteriore dell’orecchio vellutato, morbido di peluria 43 scura, nel punto preciso in cui si concentravano i brividi, come se emergessero da un pozzo senza fondo. Non ti fidavi di me, oppure facevi finta. Volevi assicurarti che le mie dita toccassero proprio quel punto preciso che bastava sfiorare perché il forziere delle emozioni si spalancasse e diffondesse il piacere in tutto il corpo. Adagiato sul grembo, ti scuotevi inquieto e sapevo ormai che quello era il segnale. Melo hai insegnato tu la prima volta. Me lo hai spiegato tu che quel fremito poteva essere mitigato solo dai baci. Solo quello era l’antidoto sperimentato. Così ti ho baciato per dieci anni, dieci lunghi e intensi anni, ogni volta che sentivo il tuo corpo fremere. Ogni volta, senza saltarne una. Ogni sera che ti distendevi sul grembo per ascoltare il suono dell’orgasmo. Ti baciavo con premura, preoccupandomi che il balsamo lenitivo si espandesse sulla pelle. Le mie labbra appoggiate sul collo per attutire gli scatti inarcati della schiena. Era soffice il tuo collo e così, via, un bacio dopo l’altro, la saliva che colava sulla pelle, quella pelle di Cristo già sofferente, quella saliva che penetrava con arguzia tra i tessuti per offrirgli ristoro. Il mio grembo fremente accoglieva la bellezza divina, la tua bellezza che potevo sfiorare, che potevo toccare. Tu mi rendevi facile la vita. Il mio grembo, pur di fattezze maschili, era invaso da gioia materna, da quella stessa gioia che deve aver provato una delle tante vergini del mondo al cospetto di una Pietà laica, come la nostra.

Come è nata l’idea di questo libro?
La raccolta ha attraversato diverse fasi di stesura. Innanzitutto nella scelta dei racconti. Ne avevo scritti molti di più dei dodici che sono stati inseriti nel libro, ma a un certo punto una scelta si imponeva. L’altro momento delicato è stato quello di definire l’equilibrio nelle storie e quindi di cercare la sequenza giusta tra i racconti, provando a dare corpo a un pathos narrativo pagina dopo pagina. Su questo ho lavorato con la scuola di scrittura “Omero”, che mi è stata di grande aiuto.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Durante le varie epidemie di Ebola in Africa ho letto articoli e saggi sulla malattia e sulle conseguenze del virus sul territorio e sulla popolazione. Ho inziato a riflettere sul contagio, su come una malattia trasforma le relazioni umane, anzi possiamo dire che le stravolge completamente. Volevo scrivere di questo sconvolgimento, che tocca gli amori, le amicizie, la famiglia. Come comportarsi di fronte al rischio del contagio? Come sopravvivere se si viene reclusi in quarantena? Il contagio di cui narro nei dodici racconti non è solo fisico, ma tratta anche la sfera psicologica, quando il panico, la follia, l’inadeguatezza alla vita si diffondono nelle relazioni umane.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Degli italiani sicuramente Italo Calvino, Alberto Moravia, Elsa Morante. Philip Roth in America e poi i romanzi di avventura di Melville, Jules Verne, Edgar Allan Poe, ma anche Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nato a Roma, dove ho studiato e dove attualmente lavoro in Rai nell’archivio multimediale dell’azienda, che raccoglie la storia della radiotelevisione italiana.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ho nel cassetto un romanzo che affronta ancora il tema del contagio. Questa volta sarà la malattia a dialogare con il paziente. Una sorta di alter ego del malato, che cerca di diventare un alleato dell’uomo, non un nemico.