
Edito da Porto Seguro Editore nel 2020 • Pagine: 178 • Compra su Amazon
Lamin è un giovane gambiano che vive in un centro di accoglienza a Firenze. Il passaggio alla maggiore età, in un paese lontano dalla sua terra, fa emergere in lui una serie di insicurezze mai affrontate in passato. In questa delicata fase si ritrova a dover cercare le prove per scagionare il suo amico Aboubacar, che sparisce misteriosamente dopo il ritrovamento di un corpo nel parco delle Cascine.
Ogni tappa di questa avventura risveglia in Lamin molti ricordi terrificanti del suo viaggio per raggiungere l’Europa attraverso il deserto e il Mediterraneo; anche gli educatori del centro di accoglienza, intenti ad aiutare il ragazzo, si ritroveranno ad affrontare alcuni fantasmi delle proprie vite. Il delitto delle Cascine è insieme un enigma e l’analisi di un fenomeno sociale ancora oggi attuale e controverso.

IL PARCO DELLE CASCINE
Tutto durò pochi minuti, ma ne parlarono giornali, radio e TV.
Nonostante i cinquanta carabinieri, i venti veicoli di appoggio, l’elicottero e le svariate unità cinofile utilizzate per il maxi-blitz; nonostante la solennità degli annunci con cui si narrò il successo dell’operazione; nonostante l’allegria dei cittadini per bene, che già da prima lamentavano l’aumento della criminalità “a vista d’occhio”, i risultati furono abbastanza magri.
Secondo la stampa il trofeo delle forze dell’ordine consisteva in: tre adolescenti arrestati, quasi 1 kg di hashish, 300 g di marijuana, 11 g di cocaina, un altro minore denunciato per possesso di 3 g di hashish.
Un tenente colonnello dell’Arma dichiarò alla stampa locale che il loro sforzo non sarebbe diminuito nel contrastare questo «problema di ordine sociale», aggiungendo però che «se c’è una così alta offerta di stupefacenti è perché la domanda è altrettanto elevata», sollevando neanche troppo velatamente il bisogno di un intervento strutturale di tipo culturale e educativo. Non solo, il servitore dello stato faceva notare come «le ultime indagini sulle acque reflue dell’Arno hanno evidenziato che Firenze è una città dove il consumo di droghe, a partire dalla cocaina, è molto diffuso».
Per qualche giorno nessuno si fece vedere, ma tutto tornò come prima poco dopo. In realtà, il giorno della retata non successe granché: le forze dell’ordine si presentarono verso le undici del mattino e a quell’ora non c’era quasi mai nessuno. Chi faceva tardi era già andato via e chi veniva nel pomeriggio non era ancora uscito. Se fossero venuti tra le quattro e le sette del pomeriggio sarebbe stata una carneficina, dato che le orde dei clienti passavano o all’uscita dal lavoro o dalla scuola, ma in tutti i casi prima di cena, perché bisogna rincasare presto altrimenti le famiglie pensano male.
Lamin era contento di essere praticamente fuori da quel giro da un bel po’ di tempo. Quando vide la notizia sui telegiornali locali immaginò cosa gli sarebbe potuto accadere se si fosse trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Gli era già capitato diverse volte di essere fermato dalla polizia per un controllo dei documenti. All’inizio rimaneva indispettito perché si sentiva preso di mira, soprattutto quando i poliziotti lo sceglievano da lontano mentre si trovava in mezzo ad altre persone. L’impressione che la scelta non fosse casuale fu confermata un giorno da un agente: «Noi vi possiamo chiedere i documenti quando ci pare, siete voi che dovete essere a posto». Questa e altri frasi simili venivano pronunciate dai poliziotti a volte con tono paternale, a volte in modo aggressivo ma lui, a differenza di altri che si arrabbiavano e protestavano, quando la sentì di persona capì che certe cose non possono cambiare. Pensò che non doveva offrire il fianco a nessuno, già era messo maluccio di suo, perciò era meglio stare alla larga da certi ambienti e frequentazioni. E se qualche amico ci rimaneva male, pace. La retata delle Cascine gli aveva dato ragione. Anche se ogni tanto pure lui una canna se la faceva, nessuno è perfetto. L’importante era andare al parco il meno possibile e mai, ma davvero mai, farsi beccare con roba in tasca.
D’altronde, era praticamente impossibile non andarci mai. Tutti si davano appuntamento lì, il prato tra la fermata della tramvia Carlo Monni e il ponte nuovo sull’Arno era diventato in qualche modo terra africana. Ovviamente c’era di tutto: ragazzi bravi, perdigiorno, persone fragili che a forza di aspettare i tempi della burocrazia per avere un documento si erano abbrutite. Aveva amici di tutti i tipi. Lui, gambiano, conosceva certe dinamiche. I senegalesi erano bravi e con loro c’era tanta affinità, anche se a volte ti guardavano dall’alto in basso. C’era questa diceria sui gambiani che fossero tutti spacciatori, a lui questa cosa lo mandava fuori dai gangheri. Mica si può giudicare un popolo per colpa di quattro inetti. Comunque non c’era niente da fare, era una voce che girava e lui era uno che si adattava alle cose che non si possono cambiare. Gli piaceva dimostrare la sua personalità, cosicché gli altri si rendessero conto che non si può giudicare nessuno dal paese in cui è nato. Poi c’erano i maliani, benvoluti da tutti perché miti e educati; eppure aveva conosciuto una volta un maliano che spacciava. Gli ivoriani erano a posto, in tutti i sensi. Con i nigeriani bisognava andarci piano: se ti capitava quello bravo ti potevi fidare fino alla morte, altrimenti era meglio mantenere educatamente le distanze.
Gli arabi gli sembravano invece tutti uguali, non si fidava di loro ma per esperienza sapeva che non bisogna farsi nemico con nessuno. La prima cosa è l’educazione, se sei disponibile e dimostri rispetto gli altri ti lasciano stare. Basta far capire che non si è disposti a lasciarsi mettere i piedi in testa. Educati sì ma non fessi. Una grande sorpresa per lui sono stati gli albanesi e i kosovari, anche se non aveva ancora capito in cosa fossero diversi tra loro. Quando sentiva la loro lingua chiedeva sempre: «Albania o Kosovo?», visto che ci tengono tanto. Comunque sono bravi ragazzi ma anche lì quando ti capita quello strano meglio starne alla larga. In ogni caso con loro c’è della solidarietà, perché sono bianchi, ma quando la polizia chiede loro i documenti spesso li tratta male, come fa con i neri.
Era convinto che le forze dell’ordine non ce l’avessero con loro per il colore della pelle ma perché erano poveri. Quando hai una bella macchina e vestiti firmati non ti ferma nessuno. A Lamin piaceva vestirsi bene ma gli mancava la macchina. Un giorno avrebbe avuto pure quella.
Di italiani ne conosceva pochi: qualche poliziotto che a forza di incontrarlo lo chiamava per cognome, gli educatori del centro di accoglienza dove viveva, la sua vecchia tutrice volontaria, gli insegnanti di italiano. Tutta gente che lavorava con gli stranieri, gente normale no. Nemmeno ragazzi della sua età, anche se qualcuno andava alle Cascine come cliente ma spariva subito dopo. E anche se lì per lì ti batteva il cinque e ti parlava, se poi lo incontravi in centro faceva finta di non conoscerti. Lamin poteva capire che non salutassero quello che vendeva la roba ma che non salutassero nemmeno gli altri, non gli tornava. Quelli che generalizzano non gli erano mai piaciuti, neanche in Gambia.

Come è nata l’idea di questo libro?
Da quando ho iniziato a lavorare con minori stranieri non accompagnati. Gli stimoli che ti arrivano anche a livello personale sono tanti per la quantità di storie di cui si viene a conoscenza. Ho pensato che fosse utile raccontare frammenti di queste storie così complesse per mettere in evidenza l’umanità e la personalità di questi ragazzi uscendo dal binario vittima/invasore e parlando delle loro scelte, aspettative, talenti ed errori. Spesso la domanda che uno si pone davanti a questi racconti è: «cosa avrei fatto io?»
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
In realtà la cosa più difficile è stata iniziare. Mi sono deciso un giorno che andavo a lavorare e prima di arrivare al centro ho trovato una scena molto simile a quella che descrivo nel primo capitolo, con l’elicottero sopra il parco delle Cascine e tantissimi poliziotti a fare un rastrellamento. Era impressionante e ho pensato che poteva essere un buon inizio.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Da buon sudamericano ho letto molto realismo magico e perciò conosco abbastanza bene García Marquez ma anche altri autori per così dire minori, ad esempio un ecuadoriano, Angel Felicísimo Rojas. Con loro ti rendi cosa che qualsiasi cosa può essere magica, se vista con la predisposizione d’animo adatta. Ho amato molto la fantascienza, perciò Asimov mi ha accompagnato per tutte le superiori e infine per quanto riguarda il giallo sono un fan di Nesbo, anche se non ho letto ancora tutti i suoi libri.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Firenze dal 2001, sono arrivato a 26 anni, ma nella vita precedente sono nato a Quito, in Ecuador. Ci sono città europee che amo tanto, ad esempio Madrid e Marsiglia, quest’ultima in particolare, ci sono stato molte volte e in più insieme a mia moglie abbiamo letto quasi tutti i libri di Jean Claude Izzo, mi ero dimenticato di lui prima. Le sue storie ambientate a Marsiglia ti fanno innamorare della città, ho amato molto i suoi personaggi, che raccontano tanto sulla città ma anche sull’animo umano.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Mi piacerebbe tanto continuare a raccontare le vicende del mio protagonista, il gambiano Lamin Touray ma cerco di essere scaramantico, perciò intanto vediamo come me la cavo con il primo libro, quindi si vedrà.
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