Edito da Christian Brancati nel 5 Dicembre 2018 • Pagine: 300 • Compra su Amazon
Trama
Le leggende narrano di un piccolo villaggio creato dagli Dei, dove la vita scorre senza che ci sia la morte a fermarla. Gli adulti nascondono un gran segreto: sulle montagne vive un Drago malvagio, custode di un antico potere, e si dice che mangi soltanto bambini. Nel buio della notte, mossi dalla brama di tale potere, i Demoni invadono l’impenetrabile catena montuosa del Kòlgota che protegge il villaggio. Soltanto Dasmond, un giovane ragazzo, combatte i nemici per salvare il vero erede dell’antico potere: “Il Figlio del Drago”. Una storia emozionante ambientata ai tempi dell’Imperatore Costantino, dove i Demoni si confondono tra la gente e solo pochi prescelti riescono a estirpare il Male dal nostro mondo. Sono coloro che un giorno saranno chiamati i “Domatori di Demoni”.
01
Il Sopravvissuto
«Si udirono urla di dolore in un bagno di sangue».
Nulla sarebbe stato più come prima, in quella valle dal candido odore di ginestre. Una voce sospirava all’orecchio di ogni uomo, donna o bambino. Era la morte, li stava chiamando a sé. Dal Kòlgota discesero gli invasori, nel buio della gelida notte che avvolgeva quelle nefaste montagne. Nessuno mai avrebbe previsto tale catastrofe. Molti non compresero cosa stesse accadendo, altri tentarono invano di scappare, altri ancora si affidarono alla loro divinità in un inutile gesto disperato che non mise fine alle loro grida di dolore.
I Romani, quella nobile stirpe, misero a ferro e fuoco il “Villaggio degli Dei”. Fu impossibile fronteggiare l’attacco, poiché i poteri dei nemici andavano oltre ogni immaginazione. Era un piccolo villaggio di allevatori e agricoltori, dove quasi nessuno aveva mai brandito un’arma, a differenza di quei possenti soldati che a ogni sguaino di spada tingevano le loro lame infernali del sangue dei caduti. Da secoli in quel luogo regnava la pace, da così tanto tempo che l’unica protezione del villaggio era soltanto una palizzata di legno, alta dieci metri e con pali appuntiti.
Ogni guerriero romano aveva una corazza di bronzo resistente a qualsiasi attacco e un elmo dalle forme più disparate, che incuteva terrore. Abili nell’arte della spada, usavano la spatha, un’arma capace di lacerare la carne umana senza il minimo sforzo. Altri usavano il gladio, una spada più piccola, come se fosse un’estensione del loro corpo. Usavano lance, archi, balestre, ogni tipo d’arma con una mirabile maestria. Ma non tutti avevano questa dote, altri sferravano attacchi senza grazia contro gli uomini indifesi, riducendoli a brandelli come se fossero carne da macello. Usarono una strategia di guerra imprevedibile e incontrastabile. Attaccarono il villaggio con ogni mezzo posseduto. Abilmente e senza quasi il minimo sforzo, con l’ariete, la balista e le catapulte avvolte da un’energia nera e oscura, distrussero l’entrata principale del villaggio. L’enorme porta in legno che aveva protetto con i suoi cardini l’entrata del villaggio per decenni, quel giorno fu distrutta insieme a gran parte della recinzione che circondava quel piccolo villaggio.
«Come hanno fatto ad arrivare fin qui? Come sono riusciti a distruggere la palizzata?» chiese Will.
«Solo un “Demone” dai grandi poteri può fare tutto questo» rispose Xandor.
Distrutto ciò che sbarrava la via, i Romani continuarono l’assalto con la Testuggine, un drappello di soldati aventi scudi rossi dalla forma quadrangolare sui quali erano dipinte le ali d’oro dell’aquila divina, disposti in modo tale da assumere una forma che ricordasse il guscio di una tartaruga. Uomini potenti combattevano all’unisono, come se fossero una cosa sola. Lo stendardo rosso con la scritta dorata “S.P.Q.R.” sventolava in segno di vittoria.
«Non fu una vera battaglia, fu un genocidio di innocenti. Fu un popolo molto ricco quello romano ma non fu la brama di ricchezza che li spinse ad attaccare il villaggio, fu la brama per l’antico potere nascosto al suo interno».
«Scappate! Tutto è perduto! Scappate!» disse Zakhior, il vecchio fornaio, mentre lanciava pietre, utensili e ogni cosa che avesse contro gli invasori, usando la sua piccola catapulta fatta di diamanti. Il vecchio era molto astuto e di grande ingegno, aveva escogitato ogni cosa per proteggere la sua casa e i suoi tesori dagli invasori. Mai avrebbe immaginato di dover affrontare da solo dei veri guerrieri.
Non fu l’unico a combattere contro il nemico. Nella zona nord del villaggio, alcuni Romani furono sconfitti grazie al coraggio di un giovane dal cuore d’oro.
«Io li fermerò!» disse Dasmond, precipitandosi nel bel mezzo della battaglia con la spada forgiata dal padre, il leggendario fabbro Zylien. Alcuni soldati di fanteria cercarono di sgozzare delle donne ma Dasmond, con il suo intrepido coraggio, volteggiando con la sua spada in una danza di colpi uccise il primo legionario colpendolo alla gola, provocando la fuoriuscita di un sangue nero carico d’odio che schizzò sul suo volto. Tagliò la mano a un soldato, colpì alle gambe un altro romano, facendolo inginocchiare e poi lo trafisse con la sua lama. Salvò le donne e proseguì per la sua strada. L’Energia Demoniaca dentro di lui prese vita e divenne inarrestabile. La rabbia aumentava il suo potere, era così veloce che i nemici non riuscivano a vederlo. Molti al villaggio dicevano che fosse in grado di vedere nel buio e durante quell’evento lo dimostrò. Quel potere sepolto dentro di lui, quella notte prese vita. La cicatrice nera, vivida sul suo volto, emanava brama di sangue. Dal fronte destro si estendeva passando sulla glabella e la radice del naso per poi giungere sulla guancia sinistra. Quella era la sua maledizione e ora, per la prima volta, manifestò i suoi oscuri poteri. Un potere nuovo scorreva nelle sue vene, un potere demoniaco sopito dentro di lui e risvegliatosi per uccidere. Colpì la corazza di un centurione, la sua lama attraversò l’armatura e così riuscì a salvare tre anziani. Il Male però non aveva ancora corrotto il suo cuore.
«La cavalleria distrusse tutte le abitazioni, appiccando un incendio che non risparmiò la gente nascosta al loro interno. La mattina di quel giorno fatidico, il villaggio godeva delle sue abitazioni dipinte con i colori dell’arcobaleno che quella sera divennero tutte nere come la cenere. Ci fu spargimento di sangue ovunque».
Il vecchio capo del villaggio si innalzò urlando delle parole cariche d’odio.
«Un giorno Romani, verrà il vento dell’est! Un giorno verrà la vostra fine!» ma in quel preciso istante il suo collo fu infilzato da un pilum, un giavellotto in ferro, che perforò la carne del nobile Xandor. Furono le ultime parole di un grande uomo.
Molto più grande fu l’artefice dell’omicidio. Sedeva a cavallo, fiero di sé, come se tutto quello che stesse accadendo non turbasse il suo animo anzi, lo compiacesse. Aveva la vittoria in pugno ormai, un incarico semplice gli era stato affidato da Roma: distruggere il villaggio e trovare il “Figlio del Drago”. Con una corazza d’oro luccicante, il generale Lucius Furius Rufus, detto “Il Devastatore”, sedeva su un nobile destriero bianco. Scese dal cavallo, brandì la spada e uccise due ragazzi pressappoco ventenni, senza fare indugio.
«Oppidum Deorum Delendum est!» gridò a squarcia gola.
«Il Villaggio degli Dei deve essere distrutto!»
Ciò accadde nella zona est del villaggio mentre la zona sud, da dove erano entrati gli invasori, era stata tutta bruciata. Maiali, pecore e tutti gli altri animali da allevamento scapparono, furono quei pochi esseri che riuscirono a salvarsi.
Nella zona ovest, il vecchio fornaio resisteva all’attacco di venti uomini. I suoi ingegni li tenevano a bada, poiché l’intelligenza vince spesso sulla forza.
«Vecchio! Esci Fuori!» esclamò con grande potenza uno dei più famigerati guerrieri del secolo, Tullius Valerius Arminius.
Quella zona comprendeva la dimora del vecchio, i suoi animali e tre case già distrutte, spazzate via dal nemico. Quel vecchio uomo si chiamava Zakhior, profondamente rispettato per il suo ingegno, nonostante fosse un semplice fornaio. Procurava tutto il dovuto all’intero villaggio, in fondo erano all’incirca trecento persone e gli animali soddisfacevano a tutte le loro esigenze.
Aveva sempre avuto cura degli animali, infatti fu quella la sua prima preoccupazione all’arrivo dei nemici. Viveva da solo in quella grande dimora con il tetto a spioventi e a base rettangolare. Era la più grande del villaggio, circa il doppio di quelle casette di due piani. Sua moglie morì anni prima per un grave malattia, durante un periodo di pestilenza che uccise gran parte della popolazione. Il medico del villaggio non seppe scoprire la causa di quelle morti. Il buon uomo aveva un figlio, grande inventore di macchine e piccoli aggeggi. Aveva imparato tutto da suo padre, i calcoli matematici erano la sua passione. Alcune di esse servivano per distribuire il cibo agli animali, altre per creare utensili in legno per la cucina. Altre ancora superarono quelle di suo padre, una in particolare permise al fabbro Zylien di forgiare delle incredibili spade. Come per magia, quasi dal nulla creavano qualcosa. Partì per un lungo viaggio all’età di vent’anni e da allora non fece più ritorno. Il vecchio, per amor del figlio e per non dimenticare nulla di lui, seguì alla lettera le sue istruzioni, scritte sulle sue pergamene con appositi disegni raffiguranti macchine e trappole, che quel giorno gli furono di grande aiuto.
La casa presentava una porta altissima, costruita con il materiale più duro al mondo, il diamante. La dimora dal colore bianco scintillante era stata costruita grazie ad almeno cento popolani. Ogni parte era in diamante, persino il tetto a spioventi e le finestre. La progettò insieme a suo figlio che diede forma a degli strumenti interamente costituiti di diamante, come la sega, il martello e i chiodi. Il ragazzo grazie al suo ingegno, a suo padre e al fabbro Zylien, riuscì a estrarre lo stesso minerale dalla Grotta Diamantina, ai piedi della catena montuosa del Kòlgota, il monte più alto che dava il nome alla catena. I picconi e i martelli luccicanti erano così affilati da poter intagliare non solo il diamante ma anche tutto quello che offrivano le grotte, rendendo il villaggio ricco di ogni cosa.
Si trattava di una casa possente in grado di resistere alle catapulte romane che lanciavano pietre infuocate contro le sue mura. Era una delle poche case che si reggeva ancora in piedi all’interno di quel villaggio segreto.
Il Vecchio posizionò nei pressi di una finestra al piano terra una piccola catapulta in legno che lanciava ogni cosa, fino a una distanza di venti metri. La finestra rettangolare possedeva, oltre ai battenti in diamante, anche uno schermo che dalla sommità della finestra si abbassava grazie a una corda. Lanciava con la sua catapulta e abbassava rapidamente lo schermo di diamanti. La piccola catapulta era stata progettata dal vecchio stesso per lanciare il cibo alle capre, alle galline e al resto degli animali che si trovavano nella sua piccola fattoria. Zakhior la usò per lanciare tutto quello che si trovava a portata di mano, anche sacchi di farina, carote, cavoli e altre cose che non danneggiarono i romani ma almeno li rallentarono.
«Romani infarinati, pronti per essere cotti!» disse il Vecchio ridendo.
Nonostante fosse da solo, i Romani non riuscivano ad avanzare grazie a un’altra invenzione del figlio. La casa presentava una pianta rettangolare con il piano terra e il primo piano, tutta intorno era circondata da una sistema di tre cerchi concentrici di lance dalla punta in diamante, che sbucarono dal terreno grazie all’attivazione di tre leve. Zakhior fu abile nell’attivarle tutte e tre, così da uccise ben sette romani. Uno fu colpito all’addome, un altro alla testa, un altro ancora nelle parti basse, il quarto alla schiena, il quinto sotto al mento, il sesto al torace, il settimo in un occhio. La rabbia di Tullius fu risvegliata. Zakhior gelò all’udire le sue parole d’ira. In cuor suo era pentito di tutto ciò, ma era l’unico modo per sopravvivere. Vivere o Morire, questa era la scelta da fare. A un’altra finestra posizionò una piccola balestra che lanciava tre frecce contemporaneamente. Sparava con le sue macchine, poi abbassava lo scudo fatto di diamante.
I Romani erano impegnati nell’attraversare le tre file di lance, molto fitte e vicine tra loro, quasi allineate. Il vecchio aveva collegato quella balestra a un altro strano marchingegno che ricaricava la macchina dei suoi dardi. Con tali strategie Zakhior riuscì a sconfiggere ben venti romani, ma ne restavano almeno altri trenta. Abbassò una leva di legno bianca, posizionata nei pressi della finestra e dal terreno si alzò un muro di pietra bianco, alto la metà dell’altezza della casa, che fu circondata come da uno schermo, provocando lo stupore dei Romani. Poi sbarrò la prima finestra al piano terra definitivamente. Fece appena in tempo poiché i soldati riuscirono a creare un percorso tra le lance. Fu lesto nel chiudere anche la seconda finestra, prima che tre frecce lo colpissero. Corse di sopra per chiudere le altre e le sue macchine furono congedate. Dopo l’attacco passò alla difesa, ma aveva ancora qualche asso nella manica da giocare. La sua casa lo avrebbe protetto contro ogni cosa.
«Usate l’ariete e distruggete quel muro! Il vecchio lo finirò io, con le mie stesse mani!» ordinò Arminius.
Intanto, nella zona nord-ovest, il prode Dasmond si nascose tra i cavalli nel recinto, aspettando il momento opportuno per attaccare due romani. Erano pronti a entrare nella casa di Yulia, attigua a un pozzo, fonte d’acqua e di vita per il villaggio. Un unico pensiero rimbombava nella sua testa: Doveva proteggerlo, salvarlo. Il Potere Demoniaco aveva amplificato le sue abilità con la spada, divenne agile, difficile da vedere nel buio. Invece lui ci vedeva bene nella tenebra della notte, tutto divenne chiaro ai suoi occhi.
“Qualcosa in me è cambiato, ma non posso pensarci ora. Devo salvarlo! Devo andare da lui, a ogni costo!” ripeteva tra sé e sé. Poi, come un lampo nella sua mente, comprese il motivo del suo cambiamento. “La cicatrice? Il Potere del Drago! La voglia di uccidere è grande”, ansimava e spalancava gli occhi rossi, “Devi stare calmo! Concentrati!” e ritornò in sé.
I due Romani entrarono nella casa di Yulia e Dasmond li seguì di soppiatto avvolto nel suo mantello nero ed entrò nella casa velocemente senza farsi scoprire.
I Romani sbraitarono. «Fuoriii! Esci fuoriii! Sacco di pulci!» gridò uno dei due.
Silenzio. Nessuno rispose. I due stavano per uscire, quando sentirono un cigolio.
«Chi va là?» disse il più forzuto.
E subito i due si avventarono nella direzione dalla quale proveniva il rumore. Una stanza vuota, eccetto un tavolino, un letto e un piccolo guardaroba di legno.
«Aprilo!» ordinò quel bestione, ma l’altro anziché aprirlo, conficcò la sua lama nel guardaroba e lo trafisse con grande odio. Lo aprì e con stupore notò che era vuoto.
«Andiamo via, qui non c’è nessuno» disse il più basso.
E forse per volontà del Diavolo i due, mentre avevano deciso di ritornare sul campo di battaglia, udirono qualcuno ansimare. Spostarono il tavolino e scoprirono una botola nel pavimento di pietra bianca, avente una maniglia circolare nera da usare per sollevare una lastra di pietra quadrangolare. La aprirono e al suo interno vi trovarono Yulia, nascostasi in quello spazio dalla forma di parallelepipedo scavato nel terreno e profondo un metro e ottanta.
«Ah, bene bene cosa abbiamo qui? Un piccolo bocconcino!» disse il Romano forzuto.
«Pietà, abbiate pietà di me, sono solo una povera ragazza» implorava Yulia.
«Povera? Non direi, con tutto quello che hai» e gli occhi dei due brillarono di rosso.
Yulia era la più bella del villaggio, con un fisico sensuale difficile da non notare, una folta chioma nera lunga fino alla schiena, due profondi occhi verdi e due labbra carnose che ammaliavano ogni uomo. Indossava un lungo abito verde acqua con le maniche corte. Nonostante la sua giovane età molti ambivano nel conquistarla, ma nessuno vi era ancora riuscito.
«Cosa ce ne facciamo di questa qua?» chiese il più basso.
Istantaneamente il più forzuto afferrò la ragazza per la gola e la sollevò dalla botola, con un ghigno malvagio e con cattive intenzioni.
«Ci divertiamo un po’ con lei e poi la uccideremo, il resto lo sai già!» rispose l’altro.
Yulia urlò così forte per la paura che Dasmond, dalla cucina, riuscì a udirla e di soppiatto giunse nella stanza da letto. Aspettò il momento opportuno per attaccare. Il più forzuto congedò il compare il quale, adirandosi, uscì dalla stanza. In quel frangente di tempo, appena quell’essere spregevole superò l’uscio della porta, Dasmond gli conficcò il suo pugnale nell’occhio, provocandogli una morte istantanea. Per non destare sospetto, silenziosamente accasciò il corpo dell’uomo per terra e gli rubò la spada, così da possedere nelle sue mani due lame per combattere quel titano.
Il suo nemico era un uomo alto due metri, possente e scuro di capelli. Lasciò la presa sul collo della ragazza rimettendola con i piedi per terra, poi le bloccò le mani. In quel momento Dasmond, con uno scatto fulmineo, colpì il braccio destro dell’avversario con le due spade. L’uomo lasciò la presa, ma il colpo non riuscì a ferirlo profondamente.
«Moccioso, mi fai il solletico!» urlò il romano.
Un colosso contro un ragazzo, di appena sedici anni. Prese la sua spada e colpì Dasmond, che riuscì a parare il colpo incrociando le spade a forma di X. Il duello era cominciato, fu una lotta per la vita. Dasmond con astuzia e agilità si batté contro il nemico e così il suo arrivo permise a Yulia di scappare e di mettersi al riparo. Colpì alle gambe il soldato, che si inginocchiò, ma poco dopo si rialzò e con un potente colpo ferì Dasmond alla spalla sinistra, procurandogli un’ingente perdita di sangue. Il ragazzo emise urla di sofferenza e, per l’atroce dolore, non riuscì più a usare la spada che aveva rubato poco prima. La lasciò cadere dalla mano sinistra e si affidò alla mano destra, con la quale impugnava la sua Draghiria. Era una spada con una lama di colore azzurro, tagliente, lunga e sottile. Aveva un’elsa grigia, facile da impugnare e sulla scanalatura erano incise le parole “Draghiria Regina dei Draghi”. L’elsa presentava una guardia con ai lati due piccole teste di drago, creatura leggendaria. Sulla sommità aveva un pomo di colore rosso rubino, dalla forma esagonale.
Il Colosso ferì nuovamente il giovane, prima al petto e poi allo stomaco, facendolo accasciare a terra. Gli diede un calcio alla testa e il sangue sgorgò dalla tempia destra. Era pieno di ferite, ma nonostante ciò non demordeva. Il Romano era pronto ad affondare la sua lama per il colpo di grazia, quando Yulia gli saltò alle spalle e cinse le sue mani attorno al collo del nemico. Per un breve istante lo tenne fermo, così Dasmond, con la sua lama, riuscì a trafiggerlo all’addome e lo ferì mortalmente. Il mostro dentro di lui fu sconfitto e un fumo nero esalò dal corpo senza vita dell’uomo.
«Grazie al cielo, ti devo la vita! Sei il mio eroe!» esclamò la ragazza con le lacrime agli occhi.
«Un vero uomo difende sempre i più deboli! Se non fossi riuscito a salvarti non meriterei di essere qui ora» rispose il giovane.
«Chi sono questi uomini? Che vogliono da noi?» chiese Yulia.
«Uomini? Hai visto i loro occhi? Erano rossi! Sono Demoni! Non so come siano riusciti ad arrivare fin qui. Alcuni di essi hanno soggiogato al loro volere questi uomini, possedendo i loro corpi. Altri sono semplici umani, venuti qui da chissà dove e chissà per cosa» spiegò Dasmond.
«Demoni? Pensavo fossero solo una leggenda. Allora perché il Drago non ci ha protetti?»
«Il Drago ormai non c’è più. Lasciami riposare per un po’» e si sedette a terra.
Per un attimo il ragazzo si riposò e lo sguardo della fanciulla riempì il suo cuore. Le tenebre si allontanarono e riuscì a domare completamente l’oscuro potere legato alla sua cicatrice.
«Sei ritornata per me? Saresti dovuta scappare!» chiese Dasmond.
«Dovevo ricambiare il favore» rispose Yulia.
Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea del libro è nata tra i banchi di scuola liceali, mentre studiavo la storia, la Divina Commedia e l’arte. Ho fuso gli elementi reali a quelli fantasy, in particolare quelli relativi ai Draghi e ai Demoni. È una storia in cui la vita e la morte sono legate, l’origine e la fine hanno un unico elemento in comune: il tempo. É proprio il concetto fisico del tempo e della relatività di Einstein che mi ha spinto a legare eventi del passato a quelli futuri.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Molto, in quanto ho creato tutto da solo, sia la storia, sia la copertina e il libro come lo vedete. Però ammetto di aver ricevuto aiuto da una brava editor e illustratrice.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Napoli e il Vesuvio mi ha ispirato per la creazione della catena montuosa del Kolgòta e del Monte Dragòr.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Trasmettere la mia storia agli altri e completare la saga.
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