Edito da Fallone Editore nel 2019 • Pagine: 112 • Compra su Amazon
Sullo sfondo di un continuo quanto pacifico duello tra Nord e Sud che, più che luoghi, sono stati d’Essere, si consuma il dolore di un’umanità relegata ai margini dell’esistenza; un mosaico di storie che si amalgamano sino ad assumere un’unica fisionomia, un unico volto, un unico serafico ghigno: quello stesso ghigno che s’impossessa di un malato terminale di tumore causato dall’amianto, di un suicida nell’istante in cui si lascia cadere nel vuoto, di un poliziotto morto in servizio senza ragioni sensate che non siano quelle di Stato, di un giovane posseduto dallo spettro della droga, di una figlia venduta per pochi denari.
Drammaturgia degli invissuti è un cantico sull'impossibilità del vivere, sviluppato in XVIII sezioni, ognuna delle quali composta da due testi: uno di Malaspina, contraddistinto dal carattere in corsivo, e a seguire uno di Cristaldi. Gli autori danno voce a chi non ne ha, arrivando fino al centro delle cose, nel fegato degli accadimenti, attraverso una scrittura civile e asciutta, senza ridondanza né eufemizzazione.
Drammaturgia degli invissuti si infila con la crudeltà di una spina nel fianco del lettore, con la potenza di una scrittura che non lascia spazio a esitazioni.
INUTILE CERCARE LE PAROLE
Inutile cercare le parole. Molte volte sono loro a cercare te.
Come uno sciame di mosche che si avventano sull’agognata merda.
Esattamente la tua testa è piena di merda e di mosche che banchettano.
Sissignori. Tu cerchi di ignorare il ronzio ma è impossibile.
La solitudine non ha una disciplina perfetta.
Soprattutto la solitudine di chi non ha potuto scegliere se stare solo o diventare solo.
E tu sei solo come una merda che solo uno sciame di mosche agogna.
Non ci sono più le farfalle, quelle che da bambino ti sembrava di essere in
Africa, quando con gli altri bambini si giocava a essere in Africa.
E non ci sono più gli alberi giganti, quelli dove gli uccelli africani facevano il nido.
Non è rimasto nulla. Le parole ti sgorgano da un nodo di mare alla gola, un magone in controluce. Parole che vuoi inchiodare ai denti come la preghiera di un forsennato, affinché la preghiera non li abbandoni del tutto e resti un finale a berti l’anima,
a consacrarti all’ultima grazia implorata.
Tra le tante che la solitudine
fa salire all’ultimo attimo di cielo.
Ti ringrazio madre che non mi salvi dalla solitudine,
ma proteggi la solitudine perché tu possa proteggere me.
L’ho capito dalla compassione delle tue mani e della tua schiena piegata
a cercare le parole che inutilmente cercavo di dirti, mentre loro cercavano me.
Voglio vedere con che occhi mi guardi senza parole: madre, non c’è più lavoro; madre non c’è più un volto di donna; madre, non c’è più la risata di un amico; madre non c’è più nulla di tutto quello che era stato: la fabbrica, le case, le
feste, le cene.
Tutto se l’è inghiottito il nulla.
Mi chiedo se qualcuno si chiede di me, mi chiedo perché nessuno chiede di te.
Mi chiedo se davvero ho fatto del male con intenzione, chi ho ferito così mortalmente da essere condannato a una morte disumana.
E com’è strano questo essere fragili e impauriti,
di giorno per paura del giorno, la notte per paura della notte.
Le parole mi si intrecciano nel nodo di mare alla gola.
E adesso mi fanno più male, vanno alla ricerca anche della più piccola menzogna raccontata,
per poterla raccontare.
Le parole hanno un peso che le spalle non possono permettersi di portare,
sono chiodi negli occhi e scarpe troppo strette per poter camminare.
Vieni che se posso t’insegno la strada e il prezzo dell’inverno da pagare.
Perché a volte di lealtà si muore mendicando un po’ di verità.
Dal troppo tempo che parlo ti vedo stella polare e vedo tutte le stelle del mondo affacciarsi
per poi scomparire come le farfalle e gli alberi d’Africa.
Come l’acqua fresca e la legna per il camino.
Non so quanto sarà brutto morire, è inutile cercare le parole.
Sono sicuro, ne sono certo, saranno loro a cercare te.
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