Edito da Christian Di Capri nel 2020 • Pagine: 292 • Compra su Amazon
Se ciò che siamo e rappresentiamo oggi è frutto delle nostre scelte passate, beh, quelle di Alberto sono alquanto discutibili. Cresciuto con una indole perfida e prevaricatrice, ha ottenuto svariati successi: una bella casa, una famiglia amorevole, un buon lavoro nel digitale. Il tutto essendo partito dal basso. La sua vita, dopo il divorzio, non ha avuto particolari ripercussioni dal punto di vista psicologico: ha continuato a bistrattare il prossimo pur di ottenere ciò che vuole. Ha inoltre potuto sperimentare diverse pratiche sessuali con escort di alta fascia. Ma la vita, ad un certo punto, gli presenta il conto. Un pomeriggio si accorge che, nella sua cantina di Zerbolò, giace inerme una donna con il volto coperto da una maschera da clown. Non solo: la malcapitata è rinchiusa all'interno di una cella metallica. Tutto normale, se non fosse che quella cantina era in disuso da anni e prima c'erano soltanto vecchi mobili e scatoloni. Chiamare la polizia è rischioso: si accorge di far parte di un piano ben studiato, e seguire le istruzioni del sequestratore dalla voce metallica gli sembra l'unica opportunità per uscirne indenne. Ma forse, questa volta, la sua capacità di divincolarsi dalle situazioni più ostiche non gli sarà di grande aiuto. I demoni del suo passato sono tornati in superficie.
Capitolo 1
Regola numero uno: mai fidarsi di una donna con in mano una candela accesa. Che ti ha legato nudo al letto. Che ti invita ad abbaiare.
E bruciava, porca troia se bruciava la cera calda sulla schiena. Le lussuose e ricercate lenzuola di seta nere stavano per essere inevitabilmente danneggiate. Avrebbe voluto dirle di fare attenzione, ma sapeva bene che avrebbe rovinato l’atmosfera.
E quindi “Bau, bau, bau!”
D’altronde, i cinquanta sono i nuovi trenta, no? Alberto Meroni, playboy incallito/direttore d’azienda/padre di Serena nonché protagonista di questa storia, aveva da poco scoperto la forza e le potenzialità del male moderno: le storie di Instagram. Aveva iniziato a seguire personaggi del calibro di Gianluca Vacchi, Pierferdinando Sestri e compagnia bella. INFLUENCERS. Era cascato a piè pari nella trappola della finzione funzionale: si era convinto che avrebbe dovuto godersi maggiormente la vita, provare nuove esperienze aggiungendo più Wasabi e meno salsa di soia alla sua routine.
E quindi “spam!” prima frustata.
– Chi è la tua padrona, richione? – la mistress estone iniziò ad insultarlo.
Il suo IO recondito gli stava suggerendo di smettere quella messinscena umiliante, ma il suo amico tra le gambe, beh, non la pensava allo stesso modo.
– ...io – sibilò Alberto, timidamente.
– Non ho sentito, ripeti più forte.
– IOOO!
Altra frustata in arrivo.
Lui, uomo di potere, abituato in genere a prendere decisioni importanti nel suo lavoro, ad essere guardato con rispetto e attenzione, si ritrovava in posizione canina legato al letto a prendere ordini da una donna vestita con un abito nero in lattice. E l’aveva voluto lui.
Sarà stato forse il fascino del proibito, la voglia di sperimentare nuove esperienze, tutto ciò che la società moderna ripudia e reputa come perverso. E, fino a poco tempo fa, anche lui sosteneva che queste anomalie sessuali facessero parte di una minoranza poco evoluta e mentalmente contorta.
Necessitava di una pausa. Va bene essere legati al letto, farsi stritolare le palle, farsi colare cera bollente sulla schiena e farsi mordere i capezzoli fino a farli sanguinare, ma non pisciava da cinque ore!
Alicia, questo era il nome dell’avvenente donna rossa di capelli proveniente dall’Est e assoldata da Alberto per provare nuove esperienze, con la mano destra teneva il frustino di cuoio mentre il suo sguardo era in fissa sull’arto sinistro, più precisamente su un pezzo di smalto che le era saltato dall’indice.
– Alic…
– Come mi hai chiamato, schiavo?
– Scusi padrona, se me lo concede, dovrei urgentemente correre in bagno.
– No. Fatela addosso.
La mistress rideva compiaciuta mentre arricciava la coda dei capelli con il medio della mano sinistra, mettendo in serio imbarazzo il suo servo.
– Ma se pensi di non potercela fare, rispeto questo tuo limite. Per ora.
Mavaffanculo pensò Alberto. Eccitante eh, ma la donna si era calata troppo nel ruolo e si stava concedendo una licenza di troppo.
Chiuse la porta della camera, scese le scale ed entrò in bagno. Uno scarafaggio gli passò davanti e lo uccise con un piede. Ormai si era abituato a formiche, api, grilli, libellule e ragni grandi quanto il suo ginocchio girare indisturbati per casa sua, la sua dimora di campagna a sud di Milano. Da quando aveva divorziato, il giudice aveva stabilito che la lussuosa villetta nella quale viveva con sua moglie Monica (acquistata nel duemilauno alla modica cifra di quattrocentocinquantamila euro mobili esclusi) in via Praticelli trentadue, vicino alla torre dell’Unicredit, sarebbe spettata alla consorte, almeno fino a che la figlia Serena non avesse compiuto i diciotto anni.
Aveva dovuto fare valigie e bagagli e trasferirsi. Aveva optato per l’opzione più comoda: la casa fuori mano a Zerbolò, che apparteneva ai suoi nonni. Era una casa fatiscente, i muri gridavano pietà e alzavano bandiera bianca contro la muffa che piano piano si stava inglobando l’intera struttura.
Ci rimango giusto un mese o due, il tempo di cercare una sistemazione più adeguata.
Di mesi, però, ne erano passati parecchi di più. Ovviamente le sue amiche intime non avevano mai visto quella casa, con loro continuava il trattamento “fivestar&go”: idromassaggio, terme e suite al Calamera Luxury Hotel. Del resto, come convinci una venticinquenne, figa da paura, ad entrare in una casa fuori dalla civiltà che sembra crollare da un momento all’altro se non con un passamontagna ed un coltello alla gola?
Non era fattibile.
In quell’abitazione poteva portarci soltanto Alicia, lei aveva frequentato posti ben peggiori. E poi il prezzo di listino dei suoi servizi era così cospicuo che poteva chiudere un occhio su quel rudere.
Lasciò lo scarafaggio morente sul pavimento, mentre muoveva lentamente le zampette per i suoi ultimi secondi su questa terra. Alzò la tavoletta del cesso e fece partire un gemito di piacere.
Avvertì qualcosa di strano. Rumori provenienti da casa sua. Non gli sembravano provenire dalla stanza al piano di sopra dove Alicia lo stava aspettando, ma piuttosto dal piano di sotto.
Sarà qualche cazzo di animale, una nutria selvatica o qualche topo, piccione o chissà che altra bestia abbia messo radici nella cantina.
Si lavò le mani, uscì dal bagno e, salendo i primi gradini della scala a chiocciola in legno, sentì un piagnucolio dalla cantina.
Ma che cazzo succede?
Sembrava essere un lamentio strozzato, quasi isterico.
No, non può essere. Sono gli effetti collaterali del Popper che ho inalato a inizio rapporto. Sicuro.
– Schiavo, muoviti cazo – Alicia si stava spazientendo – è pronta tua tutina, vieni a metterla.
Alberto si era come paralizzato sul terzo gradino della scalinata. Il pianto si fece più nitido. Ne era abbastanza sicuro. Sembrava reale. Merda.
– Alic…ehm…padrona…scusa padrona! Il tuo schiavo ha un problemino al pancino! Sorry! Dammi cinque minuti. – rispose, simulando una vocina bizzarra.
Probabilmente era il frutto della sua immaginazione (quella casa era disabitata da anni a parte gli ultimi mesi: se ne era accorto solo all’ora di non essere l’unico umano a viverci dentro?), quel rumore sarebbe potuto provenire da unpipistrello o altra bestia campagnola intrappolata tra gli scatoloni e vecchi mobili accatastati nella taverna. O quello che c’era giù. Chi ci scenderebbe giù, se non per fare una seduta spiritica? Si mise le espadrillas ai piedi e aprì la porta di legno che lo avrebbe condotto all’entrata dell’inferno. Nella sua vita non si sarebbe mai immaginato di assistere ad una visione del genere. Forse nessuno.
Non c’erano gli scatoloni che si ricordava. Nemmeno la vecchia cucina accatastata sulla parete sinistra. Senza tutta quella roba la cantina, che sarà stata un novanta metri quadri, sembrava molto più grande. Ma Alberto stava soffocando. Gli mancava il respiro, come quando stai per un minuto e mezzo sott’acqua per superare il tuo record personale di apnea. Davanti a lui c’era una gabbia. Tipo prigione. Con…con un essere umano all’interno. Silhouette femminile. Aveva la testa coperta da una maschera e indossava una divisa da galeotto. Da quanto tempo era lì? Chi ce l’aveva messa? Alberto si avvicinò, incredulo. La donna era legata al muro, sia mani che piedi, tramite delle grosse catene agganciate ad un anello di ghisa incastonato nel muro. Era seduta rivolta verso di lui. La maschera che le ricopriva il volto da naso in su era quella di un clown: naso rosso, occhi neri enormi e i capelli arancioni attaccati sull’estremità in alto.
La prigioniera cercava di urlare ma faticava parecchio, visto lo scotch applicatole sulla bocca.
Alberto vantava due grosse sopracciglia molto espressive che alzava nei momenti di incredulità. In quel momento se ne stava fermo, immobile. Erano loro a comunicare il suo stato d’animo.
Avrebbe voluto aiutarla, ma il suo corpo non rispondeva ai comandi. Era come se i suoi muscoli si fossero atrofizzati da un momento all’altro. A stento riusciva a stare in piedi, gli mancava l’aria. C’era inoltre una puzza tremenda. Si sporse in avanti per vedere meglio l’interno della gabbia e notò alcuni escrementi. Sembravano umani.
– Chi sei? Chi ti ha ridotto così?
Alberto afferrò due lastre di metallo della struttura per cercare di scardinarla, ma con scarsi risultati. La gabbia era stata installata in maniera magistrale al pavimento con viti e bulloni, ma non solo: era stato utilizzato il cemento per unificare la gabbia con le pareti della cantina, per renderne ancora più difficile la distruzione.
La donna cercò di dire qualcosa, ma risultò incomprensibile.
– Servo, dove sei?
Merda, Alicia. Le gambe tremavano. Nella vita era riuscito a districarsi in molte situazioni grazie alla sua capacità camaleontica di adattarsi ai diversi ambienti che aveva conosciuto; il suo istinto da leader lo aveva inoltre portato ad essere una persona obiettiva, in grado di pensare a mente fredda e lucida. In questo era parecchio bravo, se la cavava. In un modo o nell’altro, se la cavava sempre.
Alberto, pensa. Tu sei Alberto Meroni, e ora uscirai da questa situazione del caz…
Neanche il tempo di finire il pensiero, che si stava vomitando addosso.
Sentì i passi di Alicia sulle scale.
Ok, ho ancora qualche secondo.
– Torno subito, per favore non fiatare. Torno subito ad aiutarti, promesso.
I versi, simili a dei latrati, che emanava la vittima gli fecero accapponare la pelle.
– Shhh…ssshhh… stai tranquilla, andrà tutto bene. Te lo prometto. Ora resta in silenzio. Ti giuro che tra dieci minuti sarai fuori di lì – ripeté alla prigioniera, cercando di calmare la sua disperazione.
Corse verso il bagno dove c’era Alicia incredula che lo aspettava.
Non capitava certo tutti i giorni, ad una donna come Alicia, pagata trecento euro a servizio, vedersi arrivare il suo cliente, un pezzo grosso dell’industria dei buyer online, correre in bagno tutto pallido in viso come un fantasma e con il petto sporco di vomito per via delle umiliazioni subite. Una scena esaltante. Motivo d’orgoglio, insomma.
– Tu non sei schiavo, tu sei pegio! Vomiti come una bambina! – partì una risata fragorosa.
– Scusa Alicia, sono distrutto. Devo chiederti di andare.
– Io sono pagata per stare tre ore, ne manca una. Rilassati, schiavo. Anzi, vomitino.
– Davvero Alicia, non sto molto bene. – rispose indicando la maglia sporca.
– Ma dove sei andato a vomitare?
– Come?
– Qui non c’è vomito e quando sono entrata in bagno non c’eri.
Alberto si sentì mancare. Ci mancava solo una tizia conosciuta su Hubber che giocava a fare l’investigatrice. La rossa gli lanciò uno sguardo violento, conscia di essere in una posizione di forza. Si stava nutrendo della sua angoscia.
– Qui non c’è vomito. Ma stai bene? – chiese, avvicinandosi a passi lenti verso l’uomo.
– Ti devo chiedere di andare – insistette lui.
Non poteva permettere ad una sconosciuta di conoscere quel segreto celato in cantina. Sarebbe stato come togliere i braccioli ad un bambino di tre anni in mezzo all’oceano. Già le sue probabilità di sopravvivenza sarebbero poche, senza i galleggianti sono nulle. In quegli attimi si stava accorgendo di avere una donna segregata in cantina, nella SUA cantina.
Nella SUA proprietà.
Ormai si immaginava la reazione ilare dei poliziotti quando avrebbe detto “io non c’entro nulla! Non so chi sia questa donna! E soprattutto non so come ci sia finita qui”.
La porno–sadica doveva assolutamente sloggiare. Togliere le tende, andare a fanculo, se le avesse reso meglio l’idea. Con le buone, o con le cattive.
– Coso, io sono stata chiamata per tre ore. Nel mio lavoro c’è chi si caga addosso, chi piange, chi si masturba davanti a me. E il gioco non finisce finché non lo dico io. Ora torna di sopra che te aspeta un nuovo giochino!
Alberto cercava di ragionare. C’era qualcosa che poteva fare? Prima di prenderle la testa e fracassargliela contro il lavandino del bagno?
Beh, da che mondo è mondo, i soldi sono la soluzione a molti problemi.
– Ti do duecento euro in più. Non ce la faccio più. Sei bravissima, non mi frainten…
– Non leccarmi il culo. Va bene per i duecento euro. Ma c’è un’ultima cosa che devi fare. Pisciati addoso.
– Dai, non è necessario. Te ne do trecento in più ma solo sete ne vai ora.
– Pff. Italiano. Tu pisciati addoso e mi prendo la roba, i soldi e vado via – disse, con un sorrisetto malizioso stampato in faccia.
Un altro metodo efficace poteva essere la violenza fisica.
Se l’avesse messa fuori uso, magari con un pugno in pieno volto da provocarle un trauma cranico, o con un calcio pieno nelle ovaie, o magari lanciandola fuori dalla finestra del primo piano, non avrebbe più dovuto assistere a quella assurda conversazione.
Però lui non era Bruce lee, e se l’avesse ammazzata involontariamente?
Oltre a sequestro e maltrattamento di persona, l’avrebbero accusato di omicidio.
Alberto chiuse gli occhi e si concentrò per farsela addosso.
Sentì applaudire.
La rossa stava ridendo.
– Così ti volio, schiavo. Non pisciare, che schifo che mi fai. Ma ricordati: quello che ti dico, tu devi fare.
La mistress preparò quindi la sua roba e, dopo aver ricevuto i seicento euro in contanti da Alberto, si avviò verso l’uscita.
Tutto stava procedendo per il verso giusto, fino a che si sentì un gemito provenire dalla cantina.
– Che cosa è stato? – domandò Alicia.
Come è nata l’idea di questo libro?
Sono da sempre stato un appassionato di libri e mi sono spesso cimentato nella scrittura. L’anno scorso avevo bisogno di una nuova sfida, di un progetto più importante e strutturato. Avevo deciso di mettermi in gioco sul serio.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Dico solo che la mia ragazza per due mesi non mi ha più visto :) A parte gli scherzi, ho dedicato davvero molto tempo a questa passione, ma se tornassi indietro lo rifarei.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
In questo momento citerei Dicker, Niven e Ammaniti.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nato e vivo attualmente a Pavia.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Vorrei scrivere nuove storie, ma solo se questo primo manoscritto mi darà qualche soddisfazione in termini di vendite. Farlo leggere a pochi intimi, per quanto sia piacevole, non mi darebbe la forza e l’ispirazione per poter proseguire. Vediamo come va :)
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