
Edito da Daniela Sinisi nel 2020 Compra su Amazon
Luglio 1993. Siamo in Puglia, nella bella valle d'Itria dove, poco distante da Alberobello, sorge la tenuta di Gianni, uomo bizzarro ma generoso, che vi trascorre le sue estati in compagnia della moglie Anna, donna all'apparenza frivola e superficiale, e delle sue sorelle. Quest'anno, la presenza di Rosa, diletta ma incompresa nipote di Elvira, sconvolgerà la quiete delle giornate estive. Con l'aiuto dell'amica Maria, ma grazie anche al sostegno di tutti, infatti, riuscirà ad organizzare una grande festa in occasione dell'onomastico di Anna, il 26 luglio. L'organizzazione dell'evento, che avrà la sua location nella splendida tenuta di Gianni, sarà, così, motivo di incontro per i personaggi che avranno modo di raccontarsi, portando alla luce stralci di vite autentiche, cariche di sofferenza e scelte coraggiose, ma non prive di aneddoti e spunti comici, sotto lo sguardo benevolo e attento di Maria, ricca di una profonda umanità. Anna, Angela, Elvira, Iolanda e, infine, Maria, sveleranno il proprio passato, fatto anche di segreti mai condivisi e di dolori tenuti nascosti nella profondità dell'animo, lungo un percorso che è un viaggio nella storia del Novecento italiano, ma è soprattutto viaggio interiore, finalizzato alla catarsi. Fanno da sfondo la splendida cornice dei luoghi della Puglia, il rapporto conflittuale nonna-nipote, che vede contrapporsi due diverse visioni della vita, e, soprattutto, la forza indomita delle donne, pronte, come l'araba fenice, a rinascere sempre dalle proprie ceneri. Il dolore diventa, quindi, un'esperienza positiva, capace non solo di dare impulso a nuove esistenze, all'interno di una visione cristiana del mondo, ma anche di cementare un'intera famiglia. Perchè questo romanzo è anche il racconto di una grande famiglia del sud, della forza dei sentimenti che la tiene unita fino alla fine, quando trova composizione anche l'ultimo conflitto, quello tra Rosa ed Elvira.

CAPITOLO XVI
Per conciliare il mio lavoro di giornalista con le esigenze della famiglia, facevo i salti mortali. Se inizialmente la mia preoccupazione principale era quella di garantire ai miei familiari una vita dignitosa, poi divenne prioritaria una mia maggiore presenza in casa, visto che le esigenze di Gianni aumentavano via via che cresceva. Fortunatamente la mia professione mi consentiva di svolgere il lavoro secondo tempi e modalità da me stabiliti. Così, organizzavo i miei spostamenti concentrandoli in un paio di giornate alla settimana, in maniera tale che il resto del tempo potessi rimanere a casa. Il direttore della Gazzetta di Puglia mi aveva affidato una rubrica bisettimanale intitolata “Il mondo delle donne”, in cui dovevo portare agli onori della cronaca storie di donne del sud. Non erano passati molti anni dalla fine della grande guerra, che aveva portato alla ribalta l’universo sommerso e silenzioso delle donne, fino a quel momento solo satelliti dell’uomo. Donne che non avevano conosciuto altra condizione se non quella di madri e di massaie, di “angeli del focolare” col ruolo di garantire all’uomo uno spazio confortevole come premio dopo la fatica del lavoro, ora dovevano uscire da quelle case per sostituire gli uomini nelle fabbriche e nelle campagne. Si è detto e si è scritto tanto sul sovvertimento dei ruoli che la prima guerra mondiale produsse, quasi sia stata per le donne occasione di emancipazione personale. Forse può essere in parte vero per le donne della piccola e media borghesia, e certo non nel sud Italia, che ebbero accesso a quei settori da sempre prerogativa degli uomini, come le Università o i locali di svago. Ma qui da noi la guerra rappresentò solo un ulteriore fardello di cui, in assenza dei mariti e dei padri, le nostre donne dovevano farsi carico. Così, al lavoro domestico si aggiunse quello, estenuante, nei campi, ma anche, nei centri urbani, di bigliettaie, spazzine e sarte soprattutto di divise militari. Ne ho conosciute tante di donne che a trent’anni erano già stanche della vita, che trascinavano le proprie esistenze solo perché avevano figli da tirare su. Donne che avevano solo dato, fino all’abbrutimento, che non conoscevano altro se non il sacrificio e la fatica. La maggior parte di loro rimasero chiuse in un ostinato silenzio, nonostante le mie sollecitazioni. Riuscii nel mio intento con quelle più giovani, che ebbero fiducia in me o che aspettavano solo l’occasione per raccontarsi. Raccoglievo le testimonianze delle loro vite, e le pubblicavo, poi, nella mia rubrica. Non fu sempre facile per me mantenere quell’ atteggiamento obiettivo e distaccato che si richiede al giornalista. Molte volte sono stata emotivamente coinvolta da certe storie drammatiche, dal cui confronto nacque in me un senso di inadeguatezza che, tuttavia, mi consentì di elaborare una volta per tutte i miei lutti e di sviluppare la mia forza interiore. Fra le tante, una in particolare non dimenticherò mai.
Nella mia rubrica la intitolai: “La scelta di Margherita”
“Ha il nome di un fiore: Margherita. E’ una ragazza minuta, dai grandi occhi castani incastonati in un viso piccolo e triste. Se non ci fosse stata la guerra, nessuno avrebbe mai saputo della sua esistenza. Perché Margherita non è delle nostre parti. E’ nata in un paesino della provincia di Udine 20 anni prima della grande guerra. Abitava col marito Carlo in un casolare di campagna nell’alta pianura friulana, dal terreno ghiaioso perché di origine alluvionale. Erano contadini, orgogliosi proprietari di un piccolo podere coltivato faticosamente a vite. Si occupavano della vigna con impegno e dedizione, certi che da essa sarebbe dipesa la loro fortuna. Ma il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra, e Carlo fu chiamato alle armi. Il giorno della partenza Margherita abbracciò forte il suo sposo imponendosi di non piangere. Ma quando tornò a casa diede sfogo alla sua disperazione, maledicendo se stessa per non essere ancora incinta. Da giorni, infatti, esorcizzava il dolore fantasticando che, al suo ritorno dal campo di battaglia, Carlo l’avrebbe trovata ad attenderlo sull’uscio di casa con il figlioletto in braccio. Nelle sue fantasie, quel bambino lo immaginava neonato. Sì, perché tutti sapevano che la guerra sarebbe durata poco. Giusto il tempo, per l’Italia, di riprendersi Trento, Trieste e Gorizia. Alla fine, perché preoccuparsi? Erano ancora molto giovani, e presto Carlo sarebbe tornato a casa. Avevano già pensato al nome da dare al bambino: Giuseppe, come il nonno paterno, passato a miglior vita già da alcuni anni, pace all’anima sua.
Ma la guerra durava più del previsto. Così, l’anziano padre di Margherita, vedovo da sempre, si era trasferito a casa della figlia. Il fronte di guerra non era lontano. Si estendeva lungo le alpi carniche esaurendosi, poi, nei pressi di Monfalcone, sul mare Adriatico. Spesso, soprattutto nelle limpide giornate di sole, si sentiva il tuonare dell’artiglieria. Allora Margherita interrompeva il lavoro nel podere per mettersi all’ascolto, col cuore che le batteva all’impazzata nel petto. Immagini di morte le affollavano la mente: vedeva nugoli di soldati uscire urlando dalle trincee per precipitarsi contro il nemico. E in mezzo a loro, Carlo, il volto coperto di sangue e la bocca spalancata in un grido di rabbia e disperazione. Poi, madida di sudore, si costringeva a non pensare e a riprendere il lavoro. Così, in un alternarsi di momenti di angoscia ad altri di speranza, trascorse il primo anno di guerra e poi anche il secondo, senza che la tanto attesa notizia della fine del conflitto giungesse. Poi la fine arrivò, e fu deflagrante. Dopo undici battaglie combattute sull’Isonzo, che ebbero un costo elevatissimo (circa 700.000 tra morti, feriti e dispersi) in cambio della sola conquista di Gorizia, il 24 ottobre 1917 ebbe inizio la dodicesima e ultima battaglia. Quella, tristemente famosa, di Caporetto. Quella notte Margherita dormì un sonno inquieto. All’alba, in preda ad un’inquietudine crescente, si alzò e aprì la finestra. L’aria era fredda, pioveva, il cielo scuro senza stelle cominciava a dare segni di chiarore. Una civetta fece sentire per l’ultima volta il suo verso: ormai la notte cedeva il passo al giorno. Tutto era tranquillo. Margherita si diede della stupida. Richiuse la finestra. Ed ecco, improvviso, un forte boato. Per cinque ore di seguito, sulle linee italiane caddero tonnellate di proiettili di artiglieria e di gas tossici. Migliaia di soldati austriaci e tedeschi aprirono una breccia nello schieramento italiano presso Caporetto. Seguì una giornata di combattimenti che culminò nel ripiegamento del nostro esercito. La ritirata durò quattro settimane, fermandosi, infine, sulla linea del Piave. Margherita si sentì scaraventare in un abisso di disperazione. Pensò che non si poteva soffrire più di così. Ma si sbagliava.
CAPITOLO XVII
All’indomani di Caporetto, schiere di soldati austro-tedeschi sciamarono oltre il Tagliamento, dando inizio al martirio del Friuli. Le terre vennero occupate e saccheggiate, mentre gran parte della popolazione cercava una via di fuga attraverso la pianura padana.
Margherita decise di restare. Il suo sposo sarebbe potuto tornare da un momento all’altro, e lei si sarebbe fatta trovare in casa, pronta ad accoglierlo. A nulla valsero le suppliche del padre, spaventato dalle notizie circa le violenze perpetrate dalla soldataglia nemica ai danni della popolazione civile. Così, un freddo giorno di novembre accadde ciò che avrebbe cambiato per sempre la vita di Margherita. Era nella vigna, quando all’improvviso si ritrovò alle spalle tre soldati austriaci. Come avesse fatto a non sentirli, in seguito se lo chiese tante volte. Forse era troppo concentrata ad ispezionare le sue viti che sembravano aver risentito di quel freddo arrivato con tanto anticipo. O forse l’avevano puntata da tempo per poi avvicinarsi di soppiatto. Come un predatore con la sua vittima. Margherita non riuscì neanche a gridare. Rimase immobile, paralizzata dal terrore. Le saltarono addosso e, uno dopo l’altro, la presero con la forza. Per tutto il tempo rimase con gli occhi sbarrati a fissare le bocche dei suoi aggressori, contorte in un ghigno osceno. Poi, piano piano, la sua mente scivolò in un luogo sicuro. Percepì se stessa immersa nella sua vigna, in un tiepido giorno di primavera. Teneri grappoli d’uva, promessa di frutti maturi, pendevano dalle viti, mentre il sole si rifrangeva nei chicchi creando mille riflessi luminosi. Lei era lì, con le braccia spalancate e il viso rivolto verso il cielo azzurro. Respirava l’aria tersa e pulita della sua terra. Poi, la certezza che ci fosse qualcuno accanto a lei, la scosse dal suo torpore. Si girò e vide Carlo.
“Sei tornato finalmente! Ti ho aspettato tanto! Carlo, Carlo, Carlo…”
E Carlo la prese tra le braccia e la cullò dolcemente fino a quando si assopì.
Suo padre la trovò rannicchiata per terra, sotto una pioggia battente, con i vestiti laceri e sporchi e lo sguardo perso nel vuoto, mentre ripeteva senza sosta il nome del marito. Tutt’intorno un mare di fango scivolava melmoso fra i tralci scheletrici delle viti simili a braccia disperate tese verso il cielo. L’uomo si inginocchiò davanti alla figlia. Aveva il volto pietrificato dal dolore, ma senza lacrime. Levò un urlo agghiacciante verso l’alto e maledisse quella guerra che la povera gente come loro non aveva voluto, e maledisse anche se stesso per non aver saputo proteggere la sua Margherita. La prese in braccio come quando era piccola e la portò in casa. La ripulì dal fango, l’adagiò sul letto e la vegliò per tutta la notte. Passarono i giorni. Vedeva la figlia trincerata in un chiuso silenzio, e capiva che questo non era un buon segno. Parecchie volte tentò di scuoterla, ma forse non seppe usare le parole giuste. Che ne poteva sapere lui che era solo un contadino ignorante? Quindi, vincendo la resistenza della vergogna, si decise a portarla nell’ospedale più vicino dove rimase per oltre un mese. Qui le furono medicate le ferite del corpo, ma non quelle dell’anima. Tuttavia in quel luogo di dolore c’erano altre donne che avevano subìto la sua stessa sorte. Prevalse, così, in lei, il suo spirito di combattente e, ricorrendo a tutto il coraggio che aveva relegato in un cantuccio del suo animo, decise di uscire da quella solitudine interiore e di condividere il suo dramma con le altre. Il confronto con chi poteva capire fino in fondo il suo dolore, l’aiutò ad elaborare il tragico evento del 24 ottobre 1917. Margherita pianse per giorni, ma alla fine cominciò a guardare nuovamente al futuro, e decise di non farne parola con nessuno, tantomeno con Carlo. Quella disgrazia che le era capitata sarebbe rimasta custodita nel suo cuore per il resto della sua esistenza. Ma il destino aveva deciso diversamente per lei. Quello stupro non poteva rimanere occulto agli occhi del mondo, perché da esso sarebbe nata una vita. Margherita se ne rese conto prima ancora di avere il responso medico. La sua prima emozione fu un odio profondo verso se stessa e il proprio corpo che non era stato accogliente con il suo sposo, e invece aveva permesso che attecchisse il seme del male. Lei aveva ogni colpa, lei era la peccatrice! Non la sua mente, ma il suo corpo, quello sì, era il corpo di una poco di buono, di una prostituta! Una vergogna profonda la invase. Cosa avrebbe fatto? Che ne sarebbe stato di lei? E poi pensò a Carlo: questa notizia lo avrebbe distrutto, facendolo morire di dolore. Si sentì braccata, chiusa in un vicolo cieco. Il primo ad apprendere la notizia fu suo padre, informato da un medico dell’ospedale. Privo di forze, si accasciò su una sedia, si prese la testa tra le mani e si lasciò andare a un pianto dirotto. La vita era stata dura con lui, ma mai come in quel momento. Oh, se almeno ci fosse stata la sua Anna, che era tanto buona e saggia, e che riusciva sempre a trovare la soluzione per ogni problema! Non le sarebbero certo mancate le parole giuste per confortare la figlia, avrebbe saputo cosa bisognava fare. Di fronte alla richiesta d’aiuto di quel padre, il medico si sentì in dovere di intervenire.
“Una via d’uscita c’è” disse. “Purtroppo non è la prima volta che ci troviamo di fronte a queste situazioni. Ne sono passate tante di ragazze di qui, anche più giovani di vostra figlia e nubili, con lo stesso problema. Lo hanno risolto ricorrendo all’aborto. So bene che questo sistema è stato sempre aborrito dalla Chiesa e dalla società civile, ma ora è diverso. Questi bambini che nascerebbero sono i figli del nemico, i bastardi degli austriaci, e quindi l’aborto non solo è la giusta soluzione, ma è anche doveroso nei confronti dei nostri soldati che non possono e non devono ricevere l’umiliazione e il disonore di vedere le loro mogli, figlie e sorelle ingiuriate dal nemico. Parlatene con il vostro parroco, e vedrete che vi dirà le stesse cose.”
Questo disse quel medico. Così, Margherita e suo padre un bel giorno lasciarono l’ospedale e si recarono direttamente presso la chiesetta del loro paese, dove la ragazza era stata battezzata, si era fatta la prima Comunione e, infine, si era sposata. Quella chiesa era casa loro, e don Pietro un punto di riferimento, la persona che nei momenti più bui li aveva assistiti e consolati. Ma quella volta fu duro e inflessibile:
“Vi hanno ben consigliato in ospedale. Tu, Margherita, devi renderti conto che hai gettato il disonore sulla tua famiglia, e quindi non ti resta che abortire. Sarebbe un’infamia far nascere questo bambino!”
“Allora è deciso” disse il padre mentre tornavano verso casa. “Farai quello che queste persone, ben più istruite e intelligenti di noi, ci hanno consigliato. Carlo non ne saprà mai niente, e per te sarà come se tutto questo non fosse mai successo.”
“Non sono sicura” ribatté Margherita, “di poter dimenticare, né di riuscire a mantenere questo segreto con Carlo. La mia vita con lui non sarebbe più la stessa se lo facessi.”
Per quanto la ragazza avesse bisogno di punti di riferimento cui aggrapparsi, non aveva perso del tutto la propria autonomia di pensiero. Inoltre, quanto più il tempo passava, tanto più sentiva quella vita svilupparsi dentro di sé. Pian piano aveva cominciato a percepirla non più come qualcosa di estraneo, che aveva imposto la sua presenza in lei con la forza, ma come un’entità che apparteneva al suo corpo. Ed era proprio il suo corpo, dapprima violato, a nutrire e far crescere quell’essere, a dispetto della sua mente che fin dall’inizio aveva concepito pensieri di odio e distruzione. Allora, quella cosa dentro di lei, che tuttavia non riusciva a chiamare “figlio”, era aggrappata disperatamente alla vita. Per uccidere quella vita non bastava non averla voluta, né che fosse una vita bastarda. L’istinto materno, che è essenzialmente istinto di protezione verso la propria creatura, stava prendendo il sopravvento. Tutto il dolore patito stava già diventando un “prima”, perché ora si andava affacciando lo stupore e, a tratti, la tenerezza. Dilaniata dal dubbio, Margherita decise di conoscere l’opinione di una voce autorevole: quella del reggente della vicina parrocchia di Aquileia, don Celso Costantini, sacerdote di grande umanità e rettitudine, che si diceva fosse molto vicino alle famiglie in quegli anni terribili.
“Figlia mia” le disse don Celso porgendole un fazzoletto per asciugarsi le lacrime che le scivolavano silenziose sulle guance, “sappi che tu non hai nessuna colpa, che non sei responsabile della tua sventura. Tu sei solo una vittima, una delle tante di questa guerra senza senso. Ti chiedo perdono, a nome di tutti coloro che, con le loro scelte scellerate, hanno determinato questa tragedia. Ma il tuo perdono non avrà senso agli occhi di Dio se deciderai di porre termine alla vita che ti cresce dentro. L’aborto non è affatto né l’unica né una delle soluzioni. Se farai questo passo, sappi che diventerai esattamente come chi ti ha usato violenza. Non negare a questo bambino il suo diritto a nascere, Margherita, non macchiarti di omicidio! Non dovrai tornare nel tuo sperduto casolare, troppo isolato e ancora esposto alle aggressioni del nemico. Lì non sei al sicuro. Ti propongo di rimanere qui, nella casa canonica, dove potrai portare avanti la tua gravidanza in tutta serenità. Tra l’altro, non sarai sola, perché già vi abitano due giovani donne che hanno vissuto la tua stessa tragedia. Poi, se vorrai, potrai lasciare il bambino presso un orfanotrofio e sperare che venga dato in affidamento ad una famiglia di buon cuore.”

Come è nata l’idea di questo libro?
È stata la perdita di una persona cara a farmi scattare qualcosa dentro. Per quanto sapessi da sempre di amare la scrittura e che quello e solo quello avrei voluto fare nella vita, tuttavia c’era una sorta di vergogna che mi impediva di svelare me stessa. Perché è questo che fa uno scrittore, trasmette sempre qualcosa di sé, e nel farlo si rivela al lettore. Ebbene, questa forma di pudore (che poi ho capito provenirmi dalla rigida educazione impartitami dai miei genitori), è stata semplicemente spazzata via dallo tsunami che ha rappresentato nella mia vita la morte di questa persona. Il giorno dopo avevo già chiara nella mia mente la struttura del mio romanzo, i suoi personaggi, addirittura il suo titolo. Il mio libro è dedicato a lei.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Tante volte ho pensato di non farcela, di non essere in grado di fare ciò che sentivo essere una specie di missione. Che non era semplicemente scrivere una storia, ma farla vivere al lettore, facendolo diventare protagonista. Qualcuno ha osservato che il mio linguaggio è un po’ troppo aulico, che avrebbe dovuto utilizzare una terminologia più comune, più “di strada”. Ma questa scelta non si poteva conciliare con quella che è la ratio della mia opera, per cui ogni parola, addirittura ogni virgola ha la sua ragion d’essere, perché finalizzata a rapire il lettore, a catapultarlo nella storia.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Le grandi scrittrici italiane e americane. Sento una certa affinità con loro, in quanto, come me, inclini a rappresentare in maniera minuziosa ed efficace gli ambienti esterni e l’interiorità dei personaggi.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ho già iniziato la stesura di un romanzo (il primo – spero – di una lunga serie) che ha per protagonista la figura di un’archeologa-detective. Voglio inaugurare un personaggio nuovo che unisca conoscenze storiche-archeologiche ad abilità investigative, il tutto, ancora una volta, all’interno dei paesaggi e degli ambienti pugliesi. Successivamente mi occuperò di un evento di cui si sa molto poco: la rivolta delle donne di Monteleone di Puglia. Si tratta del primo episodio, al femminile, di rivolta antifascista in Italia. È chiaro, a questo punto, che i leitmotiv della mia opera sono due: la donna e la Puglia.
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