
Edito da PAV Edizioni nel 2021 • Pagine: 133 • Compra su Amazon
Il testo Il filosofo impertinente è una riflessione sulla filosofia da parte di un filosofo che della filosofia è stanco, in cui l’esodo finale si concretizza in una personale “filosofia minima”, fatta di poche credenze necessarie per vivere e di molte perplessità.
La riflessione si intreccia con qualche elemento autobiografico e con argomentazioni su alcuni problemi filosofici ed epistemologici (ad esempio la validità della teoria dell’evoluzione, su cui l’autore esprime i propri indesiderati dubbi).
Il testo ha un carattere più narrativo che argomentativo, tant’è che al suo interno si trovano anche dei veri e propri brevi racconti e riferimenti a poesie di Montale e Zanzotto.

Benché la mia dichiarata intenzione è di contentarmi della poche convinzioni sopravvissute all’impegno filosofico, senza più preoccuparmi di giustificarle, sono convinto che alcune spiegazioni siano necessarie: per esempio perché nel mondo ho posto anche entità pensabili, che ovviamente sono inconsistenti; ma prima di tutto voglio spiegare perché ho usato la parola “mondo”, preferendola ad altre parole come “realtà”, “universo” o “natura”.
Lo farò con una poesia di Andrea Zanzotto, Al mondo:
Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente,
fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,
ed ecco che io ribaltavo, eludevo
e ogni inclusione era fattiva
non meno che ogni esclusione;
su bravo, esisti,
non accartocciarti in te stesso, in me stesso.
Io pensavo che il mondo così concepito
con questo super-cadere, super-morire,
il mondo così fatturato
fosse soltanto un io male sbozzolato,
fossi io indigesto, male fantasticante,
male fantasticato, mal pagato,
e non tu, bello, non tu “santo” e “santificato”
un po’ più in là, da lato, da lato.
Fa’ di (ex-de-ob ecc.)-sistere
e oltre tutte le preposizioni note e ignote,
abbi qualche chance,
fa’ buonamente un po’;
il congegno abbia gioco.
Su, bello, su.
Su, Münchhausen.
Nel sofisticato ed essenziale disordine sintattico e lessicale, che mescola frasi mozze, termini latini e lingua d’uso, Zanzotto esprime una caustica esortazione al mondo ad esistere, che abbia un’esistenza che invece pare non avere in quanto dipende dall’Io, è una sua rappresentazione; è una sorta di paradossale dialettica dove i due termini “Io” e “mondo” si specchiano nella loro reciproca inconsistenza: potremmo definire questa poesia la parodia del mondo come volontà e rappresentazione, tant’è che se il mondo vuole esistere dovrà fare come il barone di Münchhausen, che uscì dalla palude in cui affondava afferrandosi per i capelli.
Benché – come ho già scritto – conosca le ipotesi della possibile irrealtà della realtà, che il mondo possa essere soltanto il sogno sognato da un’idiota (e conseguentemente dovrei inferirne che l’idiota sono io) o un immenso Matrix giocato da un dio perennemente alla consolle, ignoro gli scetticismi radicali, i romantici idealismi e i dubbi iperbolici, affermando fideisticamente che il mondo esiste, c’è; e che da questa ingenua credenza consegue che esisto pur io, che del mondo in qualche modo sono parte, seppure infima, anche se non saprei ben specificare in quale modo e in quale parte. Le mie certezze si esauriscono qua, al mero attestato di esistenza, o sussistenza: al “(ex-de-ob etc.)-sistere” della poesia; dopo di che devo riconoscere che tutto, io e il mondo, proprio si incartoccia, non sembra corrispondere all’idea che ne ho; anzi, siccome la mia idea è di un mondo sferico, dovrei dire piuttosto che si sgonfia, come un palloncino usurato.
Ecco quindi perché preferisco usare la parola “mondo” piuttosto che altre, che sembrerebbero sinonimiche ma a cui manca il tratto della soggettività umana; “realtà”, per esempio, significa una sorta di immenso catalogo delle cose effettivamente esistenti, a prescindere dall’essere umano; “cosmo”, dal greco kosmos, rimanda a una prospettiva universale, a uno sguardo esteriore che contempla un ordine che si impone sul Kaos; anche “mondo” mantiene qualcosa di questa prospettiva, che proviene dall’etimologia latina locus mundus, che in parte riprende la dimensione cosmetica della filosofia greca, tuttavia accanto all’aggettivo, che significa “pulito”, “ordinato”, si trova pure il sostantivo, il cui significato è ben più affascinante, anche perché enigmatico. Il mundus latino è un luogo sacro e misterioso, una fossa sotterranea di forma circolare, posta all’incrocio tra il cardo e il decumano, a segnare, entro la complessa liturgia della fondazione della città, l’axis mundi, ovvero il raccordo tra Cielo e Terra; una volta stabilita la quadratura terrestre, poiché è il quadrato il terreno dell’inauguratio, si individuava il templum in terra e lo si proiettava in cielo, per cui c’erano il templum in terra e il templum in aere. Per Varrone l’etimologia di templum deriva da tueri: guardare, osservare; l’etimologia è probabile, non certa, ma a me basta per confermarmi l’idea del mondo come qualcosa di sferico che nasce dallo sguardo che insegue l’orizzonte e la volta celeste. Lo ammetto: è un’idea più poetica che teoretica, però soddisfa il mio egocentrismo gnoseologico pensare che il mondo è la sfera di cui io sono il centro, che nasce in me dal gesto di guardarmi attorno, come il girasole che insegue il percorso del Sole.
Dunque il mondo è il mio mondo; è la sfera in cui e con cui rotola la mia vita, il templum che rappresenta la mia clonazione del mondo prototipo.
È senza dubbio consistente e familiare, tant’è che vivervi, a prescindere dalle vicende che possono complicare la vita, è semplice; tuttavia, come sovente avviene, se invece di limitarci ad abitarlo vogliamo anche pensarlo, la semplicità svanisce, cede il posto agli inganni percettivi, alle allucinazioni ontologiche, all’inconsistenza rappresentativa; diviene un luogo pieno di faglie gnoseologiche. di labirinti esperienziali, di abissi metafisici che sembrano varchi verso altri mondi. Talvolta le cose sembrano svanire e diventare altro e talaltra invece si moltiplicano; talvolta si impongono nella loro materiale resistenza e talaltra si rifiutano all’identificazione, assumendo una sorta di configurazione variabile e magari fluttuando nella memoria come fantasmi.
Come, per esempio, l’Uomo Morto. Che non è un cadavere, bensì una realtà immaginaria, benché immaginata da molte persone e levatrice di leggende, che si trova – o meglio che non si trova – nelle Alpi Apuane e che si può vedere dalla valle della Garfagnana. La gente che vi abita lo ha chiamato così poiché il suo profilo, scandito da tre cime, assomiglia alla sagoma di un uomo sdraiato con le mani sul petto; ma quella silhouette così reale nella mia mente, e in quella di tante altre persone, non esiste, è soltanto l’illusione prospettica dello sguardo che nella visione panoramica associa tre vette di due separate montagne. I filosofi direbbero che l’Uomo Morto è tale nella modalità de dicto, cioè per convenzione; eppure il mondo è popolato di queste convenzioni: che cosa sono, ad esempio, l’Europa, la Pianura Padana o la Repubblica Italiana se non convenzioni? Eppure su queste cose evanescenti o inesistenti si fondano studi geografici, racconti storici, ideologie politiche.
Ecco perché nel mondo, oltre agli oggetti percepibili, esperibili, conoscibili, ho inserito anche i pensabili; mi tengo lontano dalle diatribe ontologiche e logiche, tuttavia riconosco che il mondo è popolato e influenzato anche da tali entità, specialmente quando sono il frutto di intenzionalità collettive e sono in grado di indurre credenze e comportamenti, individuali e sociali; son cose – verrebbe da dire – da Terzo Mondo, non quello geografico, ovviamente, bensì quello astratto, il popperiano Mondo 3, il mondo delle idee. Perciò siamo incessantemente intenti a una dialettica tra percezione e impercezione, conoscenza e ignoranza, in cui è facile smarrirsi.
Reputo che la teoria dei 3 mondi di Karl Popper sia complessivamente valida, sennonché non mi pare sia molto di più di un utile schema didattico, una mappa concettuale fatta per orientare e sviluppare ricerche e riflessioni. In sintesi: il Mondo 1 è quello degli stati fisici, il Mondo 2 degli stati mentali e il 3 dei contenuti mentali; nel Mondo 1 si trovano le cose (per esempio quegli enormi agglomerati materiali denominati Alpi Apuane), nel Mondo 2 la mia esperienza soggettiva di quelle cose (per esempio la percezione delle Alpi Apuane), nel Mondo 3 i giudizi, le credenze, le conoscenze relative al Mondo 1 (per esempio l’acrocoro immaginosamente chiamato Uomo Morto). Tuttavia Popper, consapevole che rischia di reinventare il mondo delle idee platonico, è costretto a sostenere che gli oggetti del Mondo 3 sono insieme ideali e reali e sono reali poiché provocano un effetto causale nella realtà, ovvero nel Mondo 1.
Perciò in questa versione pluralistica del mondo io sarei uno e trino, una sorta di laicissima trinità: un corpo nel Mondo 1, la mia rappresentazione mentale del corpo nel Mondo 2 e infine quell’oggetto astratto denominato appunto IO che s’incarna nel mio corpo nel Mondo 1 e ve lo fa agire. Divertente, ma incoerente. Appena si sviluppa la mappa concettuale popperiana, i nodi si aggrovigliano, riemergono antinomie quali mente-corpo, reale-concettuale, ecc. in cui torniamo a confonderci; tuttavia lascio la discussione sulla sua incoerenza ai filosofi pertinenti, io m’accontento.
Per evitare lo smarrimento abbiamo ingabbiato l’esistenza e gli esistenti, costruendo una rete categoriale che ordina il reale e ci consente di abitarlo. Il modo con cui la mente umana ha elaborato modelli che consentono di comprendere e strutturare il mondo è affascinante, ma anche un po’ inquietante, dato che infine precariamente si basa su limitati insiemi di fatti, conoscenze ed esperienze. Come scrive Pirsig in Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta:
Noi prendiamo una manciata di sabbia dal panorama infinito delle percezioni e lo chiamiamo mondo. Una volta di fronte a questo mondo, operiamo su di esso un processo di discriminazione: entra in azione il coltello. Dividiamo la sabbia in mucchi. Questo e quello. Qui e là. Bianco e nero. Adesso e allora.
L’indistinta entità, cui diamo il nome di mondo, viene compressa in una struttura unitaria e categoriale che la rende utilizzabile per il pensiero e per l’azione. La filosofia, da Aristotele a Kant, ha tentato di individuare le categorie, ma è sempre stata un’impresa arbitraria; ciò che si può affermare è che alla base del processo della loro formazione ci sono due caratteristiche: la classificazione, cioè l’elaborazione di un ordine che struttura la grande varietà delle cose; la ricerca di principi semplici che, trovandosi nel fondo delle cose, possono rendere comprensibile il mondo variegato. Si tratta di modelli intuitivi, la cui comprensione è stata ormai sottratta alla filosofia e demandata alle scienze psicologiche: un altro scacco per la filosofia e per i filosofi, che quando parlano della mente non possono far altro che parlare della propria, l’unica di cui hanno un po’ di esperienza.
Certo la ragnatela categoriale è labile, sfrangiata, sempre esposta al rischio del colpo di vento che la strappa; allora si perde il senso della realtà, si entra in un incubo folle i cui effetti sono la derealizzazione e la depersonalizzazione; Jean Paul Sartre ce ne ha data una inquietante rappresentazione nel romanzo La nausea, con il suo protagonista Roquentin che vede la realtà svanire, diventare una immensa massa molle, informe e traboccante: la regressione dal kosmos al kaos primordiale e inumano. Un’estasi orribile definisce Roquentin la sua terribile esperienza, che gli ha dischiuso la conoscenza dell’assurdità del mondo. Ciò che predispone Roquentin a tale prova è il fatto che disprezza il mondo e se stesso, anche se con una clandestina ipocrisia, poiché si apprezza come disprezzatore. Io invece lo amo. Come lui, nel mondo mi pare di starci come un incidente, o un accidente, però non mi ripugna bensì mi affascina. Tuttavia è un amore disdegnoso e selettivo, com’è di quegli amanti che non s’innamorano di una donna bensì di una qualche sua peculiare caratteristica; così sono attratto da qualche suo lacerto: luoghi e momenti in cui, per una meravigliosa sinergia di sensi, sentimenti ed eventi, mi rivela la sua grazia. Ne sono consapevole: il mio modo di corrispondere a questo incanto, che talvolta miracolosamente si manifesta come l’iride stagliata nel cielo, è mistico. Di questi tempi – e non a torto – questa parola è una parolaccia (anche perché non la si comprende bene) ma non posso negare che questa mia esperienza del mondo è appunto una sorta di estasi, dove io e la realtà perdiamo di consistenza, mutiamo, ci incontriamo simpaticamente, silenziosamente. Perché su questo un altro mistico, Wittgenstein, aveva indubbiamente ragione: di ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere. Tuttavia questo mio eccezionale misticismo non è affatto un’evasione nell’irrazionale o nella fantasticheria, poiché alla mia minima filosofia la trascendenza ripugna (non faccio parte della banda del buco); è piuttosto uno smottamento delle categorie, uno slittamento del senso, una balsamica smemoratezza che fa leggera la mente e la libera dall’obbligo del dover essere, riposando nella semplice verginità dell’esistenza. Quando questa esperienza mi capita, mi pare d’avvertire dentro un fluire di inebriante energia, come se il corpo si riempisse e la mente si svuotasse, che infine provoca un lieve subitaneo mancamento del senso dell’equilibrio; ecco, in quell’istante io mi sento in sintonia con il mondo. Suppongo che questa avventura esistenziale e intellettuale sia ciò che s’intende per felicità, che dunque non può durare che un attimo.
Dovessi fare l’inventario delle mie esperienze mistiche, di quelle cose e quei fatti da cui scaturiscono, ricorderei – per esempio – la volta in cui le sinuose carezze del vento di scirocco, che sembravano sospiri del sole al tramonto, mi sedussero, o quando vidi lo scivolare bavoso del buio tra le strade al sopraggiungere della sera, o il momento in cui all’alba per quelle vie ancora deserte la luce pallida disegnava uno scialbo acquarello di lievi geometrie ombrose, o l’ascolto dell’ipnotico ritmo del frangersi della risacca, o la vista di un rinsecchito bosco stagliato nelle neve i cui tronchi coi rami levati al cielo si intramavano come una nera schiera d’anime dannate; ma soprattutto parlerei delle nuvole. A loro Fabrizio De André ha dedicato una commovente canzone, che così le descrive:
Vanno
Vengono
Ogni tanto si fermano
E quando si fermano
Sono nere come il corvo
Sembra che ti guardano con malocchio.
Certe volte sono bianche
E corrono
E prendono la forma dell’airone
O della pecora
O di qualche altra bestia
Ma questo lo vedono meglio i bambini
Che giocano a corrergli dietro per tanti metri.
Amabili nella loro trasparente leggerezza che evoca giochi fanciulleschi o temibili come incombenti vendicativi giganti, a me le nuvole sembrano il sospiro della terra, l’ectoplasma dei sogni, la danza degli dei. A momenti son tutto, a momenti niente, perciò invitano chi le contempli a fantastici cimenti ermeneutici che esse sempre eludono, beffando il demiurgo contemplatore che vi cerca simulacri di realtà. Per me sono l’espressione dello stato nascente del mondo, non ancora ordinato e imprigionato nella bavosa ragnatela delle categorie; la libertà dell’essere in cui sprofondo, a cui per un istante partecipo.
M’accorgo d’esser scivolato nella retorica sentimentale indossando una maschera romantica che non mi piace, perché io aspiro alla razionalità. Tuttavia so che le radici della ragione si trovano conficcate dentro questa mistica meraviglia. L’aveva ben compreso Aristotele, che afferma che proprio dal thauma nasce la filosofia (ma non facciamoci ingannare dal significato attuale positivo della parola “meraviglia” con cui lo traduciamo, perché questo termine greco indica anche ciò che è minaccioso e inquietante; come talvolta, appunto, le nuvole).
In margine desidero ricordare il dialogo finale di Che cosa sono le nuvole? di Pier Paolo Pasolini (episodio del film Capriccio all’italiana) in cui una messa in scena di Otello eseguita da marionette si conclude con le marionette gettate in una discarica; nella scena finale Otello, guardando il cielo, domanda a Jago: “E che so’ quelle?” Risponde Jago: “Quelle sono… sono le nuvole”. “E che so’ ‘ste nuvole?”. “Mah!” gli risponde ancora Jago. Allora Otello esclama: “Quanto so’ belle, quanto so’ belle… quanto so’ belle”. E Jago: “Ah! la straziante meravigliosa bellezza del creato”.

Come è nata l’idea di questo libro?
Riflettendo sullo stato attuale della filosofia e sulla sua utilità nella mia vita
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Poco, era già quasi tutto nella mia testa e nel mio zibaldone.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
I principali filosofi, alcuni poeti (ad esempio Zanzotto).
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Livorno.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Alla mia età è inutile fare progetti, comunque continuerò a studiare e a scrivere, finché l’intelletto e il tempo me lo consentiranno.