
Edito da Roberto Tozzini nel 2019 • Pagine: 174 • Compra su Amazon
Anno 1845, in una Firenze apparentemente liberale e tranquilla, un uomo dal passato anonimo cerca il riscatto e la considerazione dell'umanità attraverso il crimine e l'odio. Ma, talvolta, gli atti umani vengono letti in modo diverso a secondo del punto di vista dal quale si osservano e non sempre tali azioni sono pienamente attribuibili alla volontà di chi le compie...
Al contrario degli altri però, lui si arrogava l’unicità di non avere la presunzione e la pretesa di conoscere la “verità”. Per questo odiava i predicatori e tutti coloro che li ascoltavano a bocca aperta, con aria ebete, convincendosi che ogni cosa che dicevano avesse un’origine divina, un sigillo di santità. Ma odiava anche gli anticlericali e i rivoluzionari che sobillavano i tranquilli e i deboli, facendo loro credere di essere di tutt’altra pasta e che, alla fine, ne facevano solo dei poveri succubi, dei martiri annunciati.

Sembrava una femmina vanitosa che non può fare a meno di rimirarsi. Solo un piccolo dettaglio era abbastanza diverso dalla vanità muliebre. Lui non faceva altro che cercare i tratti della sua bruttezza. Certo non si poteva dire un bell’uomo. Non era né alto né giovane. Non aveva un volto particolare, di quelli che fanno dire alle donne:
“Non è bello ma è un tipo!”
Direi che fosse una persona anonima, sia nell’aspetto che nella riuscita della sua vita. E lui, in quell’immagine riflessa allo specchio, vedeva il complesso della sua bruttezza, ma forse sarebbe più opportuno parlare di vacuità.
Un’idea maturava da tempo, lentamente, nella sua testa. Un po’ come quei sughi che, quando era bambino, sua madre usava preparare per le feste. Di quelli che cuocevano per ore ed ore a fuoco lento e per i quali occorreva dedizione e pazienza. Fu però in quel momento, dopo essersi rimirato ed essersi dichiarato tutta la propria bruttezza, che si disse pronto. Doveva riscattare il senso di completa nullità che si tirava dietro da sempre e mostrare, finalmente, a tutta la gente, quanto egli valesse e quanto fossero stati sconsiderati a sottovalutarne le capacità. Avrebbe finalmente fatto parlare di sé tutto il Paese.
Aveva deciso, in quel preciso momento, di divenire un criminale seriale. Gli uomini avrebbero ragionato delle sue gesta nei caffè fumosi, intrattenendosi sui particolari più scabrosi ed efferati delle sue azioni. Le donne avrebbero cominciato a odiarlo, a temerlo o ad ammirarlo per l’intelligenza e la crudeltà diabolica che attraggono da sempre, morbosamente, l’universo femminile.
Comunque fosse, non sarebbe mai più stato per nessuno un essere insignificante. La cosa strana è che non si chiese mai perché tale decisione scattò in quell’attimo preciso e perché lo avesse fatto con la stessa enfasi con cui si dà inizio a un mestiere per cui si è a lungo studiato e con una faciloneria e spregiudicatezza maggiore di quella che usava per scegliere una camicia da indossare. Decise così, d’improvviso, che sarebbe stato uno di quegli assassini che la polizia non riesce mai a snidare né a prendere, una spina nel fianco delle istituzioni e della massa. Era consapevole di essere stato, fino a quel momento, un uomo brutto e mediocre, ma lo era ancor più che da allora sarebbe divenuto il più spietato, malvagio, abile e imprendibile, criminale. Ne era convinto perché riteneva di possedere un’intelligenza di gran lunga superiore alla media. In realtà il suo cervello non era dotato di un particolare intelletto. Aveva la sola peculiarità di memorizzare facilmente tutto ciò che vedeva e sentiva e si era reso conto che tale capacità aumentava di volta in volta che accresceva la mole di cose da immagazzinare nella mente. Questo e la considerazione esagerata del suo grado intellettivo, lo convinsero che poteva facilmente gabbare i poliziotti, da lui ritenuti ignoranti, goffi e alquanto stupidi.
Era il 2 Ottobre 1845, un giovedì freddo e nebbioso. Erano le diciannove passate da pochi minuti quando indossò il mantello e la tuba e, dandosi un’ultima occhiata allo specchio, uscì dal portone. Il vicolo era vuoto, il freddo pungente e un gelido vento di tramontana spirava sulla città. Temette che potesse spazzare via la nebbia che lo avrebbe sicuramente agevolato nel suo primo atto di notorietà e decise di tagliare per via dei Cimatori. Una coppia ben vestita lo incrociò proprio all’angolo, ma erano troppo intenti a confabulare fra loro per notarlo.
Camminava con fare deciso, il bastone andava avanti e indietro come un pendolo. Sfiorava appena terra e poi riprendeva lo stesso moto. Passata via dei Magazzini, girò a destra per via Dante Alighieri e notò un mendicante, attorniato da quattro ragazzotti che lo dileggiavano. Non se ne curò affatto. Fu in via del
Presto che vide la sua prima vittima. Era una prostituta che lui aveva frequentato molto tempo prima. Una donna sulla cinquantina, bassa e magra, con un cesto di capelli brizzolati e una bocca larga, dalle labbra fini ed esangui. Aveva un cappotto lungo da cui faceva uscire una gamba magra e malfatta che poteva invogliare solo un uomo di facili gusti. Opportunamente, la poveretta, conscia della sua scarsa procacità, si era scelta quel luogo poco illuminato per accalappiare i clienti. Lui sapeva bene di trovarla lì, dove l’aveva incontrata la volta in cui vi si era accoppiato e dove l’aveva notata più volte nei suoi recenti giri di perlustrazione. Vi si accostò, guardingo, per non essere visto da altri e le fece cenno di andare. Sapeva che la donna lo avrebbe portato poco più avanti, dentro un portone, dove si consumavano gli atti sessuali.
Lei, come di consueto, anticipava il cliente, per non far vedere a nessuno che erano assieme, si infilava nel portone, accendeva una piccola lampada a petrolio e sollevava il cappotto per abbreviare i tempi.

Come è nata l’idea di questo libro?
Il romanzo è nato da un sogno e da un successivo studio della Firenze leopoldina. Il periodo così interessante dal punto di vista storico e l’ambientazione cupa e grigia, tipici della prima metà dell’800 così piena di bigottismo e di pruderie, mi hanno convinto sempre più che ne sarebbe potuto nascere un buon libro.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Ogni creazione letteraria ha attimi in cui tutto fila liscio e le pagine sembrano scriversi da sole. Poi, d’un tratto, senza preavviso alcuno, ci sono dei blocchi completi in cui tutto sembra svanire nel nulla. Mi è successo anche di bloccare la stesura di un romanzo e iniziarne un altro. Nel caso di questo libro, in alcuni casi, è stato difficile conciliare le idee con il momento storico e le sue logiche. Per fortuna sono riuscito a portare a termine il lavoro in oltre sei mesi di lavoro.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Quando scrivo non mi ispiro a nessuno dei miei autori preferiti anche se adoro Allan Poe, Eco, Baricco, Piovene…
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nato a Firenze nel 1952 e dal 1986 vivo sulle colline a nord della mia amata città.
Dal punto di vista letterario quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Nel prossimo novembre uscirà il mio quarto romanzo “Marta dai larghi occhi”, la storia di una donna che ha la conferma delle proprie inclinazioni sessuali solo da adulta e vive un rapporto dove la parola amore si scrive con la A maiuscola. Quando tutto cessa tragicamente inizia per lei un periodo di grande dolore, a cui solo il tempo e il contatto con personaggi dotati di grande umanità potrebbero porre tregua. Ma, quando una vita viene stravolta da un tragico evento, spesso si confondono le sottili linee che incanalano le nostre vite, creando, come per incanto, realtà artificiose o insinuando nelle visioni oniriche situazioni troppo aderenti alla tangibilità. Un quinto libro, in questo caso un giallo ambientato nel 1965 sulla riviera toscana, è in fase di stesura.