
Edito da Silvia Quattordici nel 2020 • Pagine: 242 • Compra su Amazon
Chiara si sveglia di notte, seduta per strada, in una zona della città che non riconosce, sporca ed infreddolita, sotto shock. Non ricorda niente, ma sa che qualcosa di terribile è accaduto. Riesce a tornare a casa dove apprende ciò che inconsciamente temeva: suo marito è morto.Chiara vive a Pistoia, cittadina di provincia ancora lontana dai clamori del mondo moderno. È una bella trentenne nei primi anni 2000 e lavora per una nota casa di moda femminile fiorentina. Sposata da 10 anni con Roberto, operaio tessile insoddisfatto e senza aspirazioni, è invischiata in un rapporto di dipendenza affettiva. Sopporta stoicamente prevaricazioni e mancanze di rispetto da parte del marito che si fanno via via più serrate, finché, non appena riceve una promozione, la crisi diviene irreversibile. Nel tentativo di salvare un matrimonio idealizzato, Chiara e Roberto decidono di allontanarsi per allentare la tensione. Fra i due si alternano momenti di distacco ed altri di riavvicinamento, mentre entrambi vivono esperienze parallele che li porteranno a maturare le proprie personalità. Ma cosa è accaduto a Roberto? Come e perché è morto? E cos'è che Chiara ha dimenticato?

UNO
Stavo camminando. Ero troppo vestita per quella stagione, avevo caldo. Era già primavera inoltrata ed ero sola. Camminavo lungo il ciglio destro di una
stradina polverosa di terra rossastra, ai lati della quale scorrevano, svelte, psichedeliche distese d’erba verdissima. Non era stata rasata di recente ed era abbastanza lunga da rendere visibile l’onda del vento che l’accarezzava. A mano a mano che percorrevo quel sentiero una strana sensazione mista di pace e angoscia mi saliva nel petto, facendosi pungente. Cresceva e non riuscivo a capire se mi facesse male o se mi inebriasse, ma continuavo a camminare. Era caldo. Il senso di stordimento si faceva sempre più pressante. Continuavo a camminare. Sull’altro lato della strada qualcuno mi veniva incontro. I miei occhi erano velati di lacrime. Mi apparvero i contorni di una figura simile ad un enorme albero con le grandi braccia aperte. Come ipnotizzata gli andai incontro rispondendo a quell’abbraccio e sopraffatta dall’emozione mi abbandonai singhiozzando su quel tronco odoroso di muschio. Esplosioni di luce mi pervasero i sensi, mi scossero con una dolcissima violenza e sentii di varcare una soglia, di andare oltre, in un luogo dove non avevo più alcun controllo. Sentii che la mia vita non sarebbe stata mai più la stessa.
Mi lasciai andare a quella dolce onda, a quel fresco tepore, a quella leggera pienezza. Mi arresi. Niente aveva più importanza.
Una gelida sensazione di buio e un terribile odore di fogna mi riportano violentemente alla realtà. Sono sveglia, seduta per terra. Salto in piedi e mi rendo conto che mi fa male tutto: una spalla, un ginocchio, la testa. Getto un rapido sguardo intorno e mi accorgo che poco prima ero seduta sul ciglio di un marciapiede, appoggiata ad un cassonetto dell’immondizia. “Dio santo, che schifo. Ma come ci sono finita qui?” Mi stropiccio le mani sulle cosce e scruto i dintorni in cerca di qualcosa. È notte, un passante frettoloso mi sfila accanto a testa bassa, con le mani in tasca.
«Mi scusi, mi sono persa…». Il tipo trasalisce guardandomi di sbieco e accelera il passo scomparendo nel buio di un vicolo invisibile, in fondo alla via. Non avrei nemmeno saputo cosa chiedere in fondo. Mi guardo le gambe: le calze sono sporche e bucate su un ginocchio. Che mi fa un po’ male. “Cosa è successo? Non riesco a ricordare. Che ci faccio qui, sola, sporca, dolorante?”
Fa freddo e sono quasi nuda. Niente giacca e niente borsa, quindi niente soldi, niente telefono. Cerco di ascoltare il silenzio, di trovare un appiglio, un rumore che possa guidarmi da qualche parte.
Finalmente colgo un lontano brusio che mi suggerisce la direzione verso una probabile strada trafficata. Il rumore dei miei tacchi sull’asfalto rimbomba in quella solitudine e mi gela l’anima. Non è il momento di cedere allo sgomento e il mio istinto di sopravvivenza prende il sopravvento. Ripenso al passante di poco prima e anch’io, guardinga e a testa bassa, mi stringo nelle spalle e accelero il passo. Il suono del traffico si fa sempre più vicino e tiro un sospiro di sollievo. La direzione è quella giusta. Niente di tutto quello che vedo mi è familiare però, ma non importa adesso. Proseguo a zig zag in quell’intrico di vie inanimate. Un gatto mi passa accanto quatto e lesto. Finalmente il buio lascia il posto ad un chiarore artificiale di lampioni, insegne al neon e fari di macchine. Ci sono quasi. Ecco, sono finalmente tornata alla vita. Mi fermo a riprendere fiato e mi accorgo di averlo quasi trattenuto per tutto il tempo. Mi giro intorno in cerca di qualcosa che mi aiuti a capire dove sono senza trovarlo, o senza riconoscerlo. Mi sento ancora stordita: lucida e allo stesso tempo incapace di trovare un appiglio nella mente che possa giustificare questa situazione. Mi avvio intanto verso un bar, ma cambio subito idea: sono impresentabile, senz’altro mi porrebbero qualche domanda alla quale non saprei rispondere. Di chi fidarsi poi, dato che non ho idea del perché mi trovi in questo stato? La mia priorità adesso è quella di mettermi al sicuro, al riparo da una minaccia della quale non ho un ricordo, ma che mi rende vulnerabile. Non voglio chiedere aiuto a nessuno, non mi fido di nessuno.
Devo trovare un posto sicuro in cui rifugiarmi in attesa di riprendere le forze, di capire cosa mi sia successo e perché provo questo estenuante senso di terrore. Intanto ho raggiunto il marciapiede. Vedo avvicinarsi un taxi; alzo la mano per fermarlo, accosta, salgo subito.
«Dove siamo?»
«In centro, zona Fortezza signora. – Mi getta un’occhiata torva dallo specchietto retrovisore. – È sicura di stare bene?»
“Bene, siamo a Pistoia. Il mio ufficio. Sì. Il posto sicuro più vicino è l’ufficio. La chiave è nel sottovaso dei ge- rani sulla finestra del mezzanino.”
«No, in effetti, non mi sento bene. Ho bisogno che mi porti in via Roma per favore, numero 13.»
«Certo, subito.» Prima di partire mi dà un’ultima occhiata dallo specchietto.
Riesco a rilassarmi un po’, seduta sul sedile posteriore di quella vecchia Fiat. Una buca presa malamente mi fa sbattere la tempia contro il finestrino, istintivamente infilo la mano fra i capelli e sento un piccolo gonfiore, probabilmente ho battuto la testa, forse cadendo. Dopo qualche minuto l’ambiente si fa sempre più familiare. Siamo arrivati.
«Mi può attendere qualche minuto per favore? Devo proseguire.»
Il tassista grugnisce qualcosa che non capisco e senza voltarsi mi fa cenno di sì con il capo. Non sono poi così certa di sapere dove voglio andare dopo, ma sapere di avere un’auto a disposizione mi dà sicurezza. Salgo le scale di fretta, mi sporgo dalla ringhiera in cerca della chiave nel sottovaso. Frugo, trovo la chiave, la inserisco e spingo la leggera porta a vetro entrando nell’ingresso. Mi chiudo la porta alle spalle e con un grosso sospiro di sollievo allungo la mano per accendere la luce. Premo l’interruttore ma la luce non si accende, riprovo e non succede niente. Doveva cambiarla Cristiano, ma non l’ha ancora fatto. Condivido con mio cugino quel vecchio ufficio che era di mio nonno. Ci vado un paio di volte al mese, lo uso soprattutto per tenere la contabilità di casa, mentre lui dipinge nell’altra stanza. Da ragazzi ci andavamo per studiare in pace. È il nostro rifugio.
Mi muovo a tentoni infilandomi nella prima stanza, premo l’interruttore e questa volta accendo finalmente una luce.
Ecco la mia scrivania, con la poltrona, la libreria con i pesanti volumi rilegati in pelle rossa del nonno e una cassettiera. Niente di strano. Chissà perché mi aspettavo di trovare qualcosa di diverso. Apro il primo cassetto in cerca delle calze che tengo sempre di scorta in una scatola insieme a biancheria pulita e un pacco di assorbenti. Roba per la quale Cristiano mi prende sempre in giro. Lascio la luce accesa rischiarando il corridoio. Una lunga fila di ritratti di famiglia mi accompagna verso il bagno. Nell’armadietto trovo del cotone e del disinfettante. Mi sfilo velocemente le calze e le butto nel cestino e mi disinfetto il ginocchio. “Che brutta sgraffiatura.” Metto un cerotto e indosso le calze nuove e le scarpe.
Mi lavo la faccia. L’acqua fresca a contatto delle labbra mi fa trasalire. Ho sete, bevo avidamente l’acqua del rubinetto dalle mani, mi asciugo il viso e con lo stesso asciugamano mi strofino le scarpe sporche e lo getto nel lavandino. Torno nella mia stanza. Trovo una giacca a vento su una sedia. Rovisto nei cassetti in cerca di soldi. Trovo la copia delle chiavi di casa nell’ultimo cassetto e una busta con su scritto il nome della signora delle pulizie. La apro e trovo all’interno cinquanta euro.
Mi chiudo il portone alle spalle, scendo le scale e raggiungo il taxi. Il tassista riaccende il motore continuando a borbottare.
«Mi scusi per l’attesa. Adesso devo andare in via Bozzi al 33.» lo informo agitando nella mia destra la banconota.
Adesso che sono presentabile posso tornare a casa.
Arriviamo dopo pochi minuti, gli allungo i cinquanta euro senza guardare il tassametro e lui me ne restituisce trenta.
Scendo dall’auto senza salutarlo. Salgo frettolosamente le scale e spingo il pesante portone che nel frattempo è stato aperto dall’interno. Sorrido a Maria, la portinaia, una signora di mezza età dalla faccia buona e l’acconciatura laccata; distolgo subito lo sguardo, ma non abbastanza velocemente da non accorgermi che mi guarda con aria stupita. Mi dirigo verso l’ascensore e questa mi viene incontro. Le sorrido, ma lei non cambia espressione.
«Chiara, sta bene?» Sembra non avere intenzione di lasciarmi svicolare, mi raggiunge risoluta.
«Sì, certo. Perché?» Mi pento subito della domanda, avrei dovuto tagliare corto e basta.
«Perché… »
Qualcos’altro per fortuna cattura la sua attenzione e si interrompe per inveire contro un ragazzo di colore che entra nell’androne con il suo carico di mercanzie. Io ne approfitto per aprire la porta dell’ascensore, ma un’improvvisa sensazione di angoscia mi assale facendomi preferire le scale. Non appena so di esser fuori dalla vista della portinaia inizio a salire di corsa. Infilo la chiave nella toppa ed entro in casa, chiudo il portone e con un sospiro mi lascio scivolare lentamente per terra, con la schiena contro la porta.
Vivere insieme a me Hai ragione, ragione te Non è mica semplice Non lo è stato mai per me Io che ci credevo più di te Che fosse possibile E smettila di piangere. (Siamo soli – Vasco Rossi)
DUE
Roberto era morto. Era questa l’atroce realtà che avevo dimenticato e dalla quale la mia mente cercava ad ogni costo di sfuggire? L’ultima volta che
ci eravamo visti avevamo litigato furiosamente. Era l’ultimo ricordo razionale che avevo.
Ci eravamo separati un anno prima perché non riuscivo più a sopportare la sua crescente arroganza e il sarcasmo con il quale affrontava ogni mio tentativo di approccio. La convivenza era diventata un inferno.
Era iniziato tutto l’anno precedente, al rientro dalle vacanze che avevamo trascorso in Sardegna. Amavamo molto il mare, le nostre vacanze le trascorrevamo sempre sulla costa o in qualche isola mediterranea.
Roberto era infelice, lo sentivo, e niente di ciò che facevo per tentare di tirarlo su di morale aveva un effetto duraturo. Anzi, a volte pareva indispettirlo sempre di più. Ero certa che la causa del suo malessere fosse la scarsa voglia di rientrare al lavoro, ma ce n’era una più profonda. Non si sentiva realizzato e non vedeva prospettive e vie d’uscita.
Per la verità era così da sempre, solo che negli ultimi tempi la situazione era peggiorata. Ogni giorno, di rientro dal lavoro, mi raccontava di discussioni, divergenze, ripicche. Era spesso nervoso. La sua frustrazione era costante e talvolta se la prendeva anche con me. Mi rimproverava di vivere nel mondo dei sogni perché trovavo un lato positivo in ogni situazione, lato che lui non vedeva. Il mio modo di reagire ai problemi lo indispettiva. Cercavo un antidoto alla bruttura del mondo esterno o forse era semplicemente il mio modo di essere. Cercavo di affrontare la vita con entusiasmo e talvolta questo lo infastidiva, ne ero cosciente.
Le cose peggiorarono quando finalmente ricevetti la promozione che aspettavo. In azienda la direttrice mi ave- va proposto di occuparmi delle relazioni commerciali con i più famosi grandi magazzini italiani ed esteri, come La Rinascente, Harrods e via dicendo. Avrei dunque potuto viaggiare di più, sarei dovuta rimanere fuori qualche giorno di tanto in tanto ed il mio stipendio avrebbe subìto un notevole incremento. Ero al settimo cielo. Accettai subito.
Quel giorno prenotai per la cena nel nostro ristorante delle occasioni speciali e diedi appuntamento a Roberto per le otto.
Quando arrivò nel locale, direttamente dal lavoro, io ero già seduta al tavolo ed avevo già chiesto da bere; mi baciò ed ordinammo.
«Allora? Cos’è questo mistero, cosa si festeggia?» Domandò senza entusiasmo nella voce, con un sorriso forzato.
Non vedevo l’ora di dirglielo, di condividere con lui la mia piccola vittoria.
«Ho avuto la promozione!» Ma il sorriso mi si spense in volto quando vidi la sua espressione gelida.
«E tu hai accettato?» Tuonò sardonico, senza controllare il tono della voce.
«Certo, me la sono meritata! – Provai a contagiarlo con il mio entusiasmo – Finalmente non rimarrò più seduta dietro una scrivania tutto il giorno a smistare scartoffie. La direttrice ha fiducia in me, – l’espressione sul suo volto però restò glaciale – dovrò anche viaggiare, sai? Ho avuto anche un aumento di stipendio di… » speravo che con questo argomento si sarebbe calmato invece mi interruppe bruscamente.
«Chi se ne frega dei soldi! Hai già accettato?».
«Sì, certo… te l’ho già detto! » Risposi piccata.
«Senza parlarne prima con me?» Alzò ancora di più il tono della voce, sprezzante. Si alzò dalla sedia e se ne andò senza attendere una risposta, senza uno sguardo, lasciandomi lì da sola, stupita, avvilita e tremante di umiliazione.
Era un ruolo che desideravo e sapevo che sarebbe stato disponibile non appena il vecchio responsabile, con il qua- le collaboravo dalla mia entrata in azienda, sarebbe andato in pensione. Per questo ne avevamo parlato qualche mese prima e anche Roberto, in quel momento, mi era parso entusiasta di quella prospettiva. Non riuscivo a capire quella reazione.
Rimasi seduta, con una morsa di ghiaccio ad attanagliare le mie tempie pulsanti, trattenendo il respiro. Percepivo gli sguardi furtivi che mi osservavano dai tavoli attorno e colsi dei mormorii sommessi. Mi sentivo umiliata e smarrita.
Il cameriere arrivò con il vino e mi chiese se poteva versarlo. Credo che non si fosse accorto di quello che era successo poco prima perché versò il vino in entrambi i calici.
Poi tornò con la prima portata che avevamo ordinato e gli chiesi di annullare il resto dell’ordinazione. Consumai con calma i miei spaghetti allo scoglio e rimasi lì da sola per oltre un’ora. Quando il cameriere venne per portare via i piatti, non gli permisi di portare via quello di Roberto, ormai freddo e ancora intatto.
Non perché sperassi che tornasse. No, quel piatto doveva restare lì a testimoniare l’abbandono. Doveva essere chiaro a tutti e a me per prima che non ero al ristorante da sola, ma ero stata lasciata sola. Odiavo l’ipocrisia e la compassione e per me stessa non ne avevo.
Ordinai un caffè, pagai e tornai a casa.
Lui non c’era; rientrò alle cinque del mattino ubriaco fradicio, si fece una doccia, si cambiò di abiti ed andò al lavoro senza dire una parola.
Ero certa che la sua rabbia dipendesse dalla frustrazione e non riusciva nemmeno ad ammettere di esserne tormentato. Nei giorni successivi non parlammo dell’accaduto, anzi, ci rivolgemmo raramente la parola.
Non rinunciai però alla promozione e non credo nemmeno che se lo aspettasse. Una mattina gli lasciai un biglietto sul tavolo di cucina per informarlo che sarei stata via due giorni, per lavoro. Non mi chiamò nemmeno.
Meditai molto sulla situazione e cercai di risolverla in qualche modo.
Qualche settimana dopo gli proposi di riprendere gli studi che aveva interrotto; gli sarebbe bastato un anno per conseguire il diploma. L’istituto che aveva frequentato da ragazzo era considerato una scuola prestigiosa, con formazione di alto livello e i ragazzi che vi si erano diplomati erano molto ricercati dalle aziende della zona per ruoli elevati. Ciò gli avrebbe permesso di cambiare lavoro, se avesse voluto; ero certa che ne sarebbe derivato un arricchimento personale enorme. Raggiungere un obiettivo che aveva mancato in passato, inoltre, gli avrebbe permesso soprattutto di accrescere la propria autostima e di allargare le sue prospettive. Questo era il mio obiettivo.
La scuola in questione organizzava anche corsi serali: mi ero informata per filo e per segno. Avrebbe potuto frequentarla senza lasciare il lavoro attuale e soprattutto senza dover stare fra i banchi di scuola insieme a dei ragazzini. Era un piano perfetto. Affrontai l’argomento un pomeriggio, al rientro dal lavoro. Lo aspettai seduta al tavolo di cucina.
«Cos’è, ti vergogni di me perché non ho un diploma?». Mi voltò le spalle per andare a prendersi una birra dal frigo.
«Se così fosse non avrei nemmeno accettato di uscirci con te, figuriamoci se ti avrei sposato.»
«Sei sempre in tempo, puoi lasciarmi quando vuoi!» Mi sorrise beffardo, andandosi a sedere sulla poltrona del soggiorno, esattamente alle mie spalle.
«Non ci penso nemmeno, non ti libererai di me! Ricordi? Finché morte non ci separi.» Gli andai incontro tamburellando sulla fede che portavo all’anulare sinistro. Sorridevo con l’intento di sdrammatizzare. Non mi ero ancora arresa e lui lo sapeva.
«Non ci torno a scuola, ormai è tardi. Sono grande sai? E poi mi piace fare l’operaio. – Tirò giù un sorso di birra – Mi permette di pensare a ciò che voglio, mentre lavoro. Posso usarla la testa, io. Non mi interessa cambiare niente nella mia vita.»
«Ma se te ne lamenti sempre! Vai ad informarti in segreteria. Ti ho preso la brochure, dagli almeno un’occhiata… – mi accomodai sulle sue gambe – il corso inizierà a fine settembre, hai due settimane per pensarci, ma devi iscriverti adesso!» Conclusi baciandolo teneramente sulla guancia.
«Addirittura? – Mi guardò con espressione interrogativa. – Sei addirittura andata ad informarti di persona? Mi meraviglio che tu non mi abbia già iscritto!».
«Beh, sei maggiorenne. Non me lo hanno permesso. – Sorrisi di nuovo. – Credo che dovresti fare qualcosa di diverso che prendertela sempre con me, però!».
«Sei proprio una stupida, – mi interruppe, con tono sprezzante – ti credi superiore a me e vorresti elevarmi al tuo livello, è questo il tuo problema? – Mi spinse via con un gesto di stizza. La sua espressione cominciò a deformarsi in un ghigno diabolico. – Io sto bene come sono. Te l’ho detto, se non ti vado bene, sei libera di lasciarmi!»
Avevo sempre avuto una grande stima per lui, e lo sapeva. Ero certa che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa se lo avesse voluto. Questo in passato lo faceva sentire forte e sicuro.
Quando si rese conto però che indovinavo il suo disagio, che mi rendevo conto della voragine che lo stava inghiottendo, della sua fragilità, si sentì smarrito.
Temette che avessi smesso di vederlo come uno degli eroi dei romanzi che entrambi amavamo leggere, che non lo considerassi più invincibile e non mi perdonò mai per questo. Non accettava le mie rassicurazioni, la mia comprensione, il mio sostegno, i miei incoraggiamenti. Erano favori da dispensare ai deboli e lui non lo era. Non voleva che lo considerassi tale. Erano pugnalate al suo amor proprio.
Io non volevo amare un uomo immaginario, volevo l’uomo che era in lui, con tutti i suoi pregi e anche i difetti, che però in questo periodo si erano fatti molto evidenti.
Continuò a comportarsi in modo strano, ad allontanarsi sempre di più. Litigavamo continuamente oppure ci ignoravamo per giorni. Così, dopo meno di un anno, decidemmo di separarci per un po’. Io restai nella nostra casa con il gatto. Lui invece se ne andò nel piccolo appartamento in città ereditato alla morte di suo nonno paterno. Non era completamente abitabile ed aveva quindi deciso di fare delle modifiche e delle piccole ristrutturazioni. Speravo che tenendosi occupato con dei lavori manuali, in cui, tra l’altro, era molto bravo, sarebbe riuscito a rasserenarsi.
Non era una separazione, solo un tentativo di allentare la tensione. Per diversi mesi continuammo a sentirci regolarmente, almeno una volta al giorno; ci vedevamo spesso, ma solo per poco tempo in modo da evitare il più possibile l’ennesima discussione. Senza dircelo riuscivamo a percepire entrambi la soglia della reciproca sopportazione. Ormai sentivamo quale fosse il momento di salutarci per evitare di peggiorare la situazione. Nessuno dei due voleva perdere l’altro e allo stesso tempo nessuno dei due voleva perdere.
A volte lo sentivo freddo e a volte sembrava esser tornato quello di prima, il ragazzo brillante ed affettuoso di cui mi ero innamorata. Andammo persino qualche volta al cinema insieme: almeno lì potevamo stare vicini senza dover parlare: era una situazione perfetta. Una sera andammo a vedere la commedia Love Actually, e, al culmine di una scena romantica, mi prese la mano stringendola nella sua; mi emozionai illudendomi che da lì in poi le cose sarebbero potute cambiare e invece fu tutto lì, in quel moto di dolcezza che si spense con il cambio della scena sullo schermo.
C’era un cavaliere Bianco e nero prigioniero Senza un posto né un sentiero Senza diavolo né Dio Senza un cielo da sparviero Senza un grido di un guerriero Io ti lascio senza perderti E ti perdo un po’ Anche se poi Lasciarti è un po’ perdermi (Le vie dei colori – Claudio Baglioni)
TRE
Socchiudo gli occhi e riprendo coscienza. Mi sono addormentata sul parquet, davanti alla porta. Oppure un altro black out. Un lieve chiarore filtra dall’incrocio delle pesanti tende. Intravedo l’orologio alla parete del soggiorno che segna le sette. Mi tiro su e, dolorante, inizio a massaggiarmi le caviglie, mi tolgo le scarpe gettandole vicino alla parete, poi mi alzo in piedi e percorro come un automa il corridoio fino al bagno. Apro il rubinetto della vasca e cerco la temperatura giusta seduta sul bordo. Mentre guardo l’acqua scorrere penso che forse dovrei guardarmi allo specchio, ma poi preferisco evitare. Cos’è successo? Mi spoglio lentamente, spargo un paio di manciate di sali da bagno nell’acqua. Il profumo deciso di sandalo arriva alle mie narici e mi dà un senso di nausea.
Ho bisogno di calore. Mi immergo nell’acqua fino alla bocca e mi lascio galleggiare. Quel tepore umido ed accogliente richiama ai miei occhi le lacrime che avevo fino ad allora trattenuto e che come un’infinita pioggia di spilli mi provocano adesso un dolore acuto e insopportabile. Mi tiro su con molto sforzo. Un nodo alla gola strozza il mio respiro. Scoppio in un pianto convulso di singhiozzi e gemiti. È evidente che mi è successo qualcosa di molto grave che non ricordo. Cerco di farmi coraggio ripetendomi come un mantra che sono una donna forte e che non c’è niente che non possa affrontare, che c’è sempre un giusto modo di far fronte a ogni cosa. Mi passo le mani bagnate sul viso più e più volte, come a voler cancellare un pianto rivelatore di una debolezza che sento di non potermi ancora permettere. Colgo un lieve movimento. Scorgo una coda dritta con la punta appena rivolta verso il basso che si avvicina e vengo immediatamente colta da una sensazione di dolcezza. E’ il mio gatto che è venuto a cercarmi. Appoggia le zampette sul bordo della vasca ed allunga il muso verso di me. Istintivamente mi sporgo verso di lui e prima i nostri nasi e poi le nostre fronti si incontrano in un rituale affettuoso. Si è accorto che c’è qualcosa che non va: il suo trillo di bentornata si trascina in un acuto lamento. Scoppio di nuovo in un pianto irrefrenabile, non più controllato e moderato dalla razionalità, ma liberatorio e fragoroso. John Carter mi risponde con un miagolio lamentoso, lungo ed intenso.
È un momento di tenerezza che ha il potere di rompere finalmente la diga che teneva prigioniera la mia paura, la mia rabbia, la mia impotenza, il mio oblio.
Ogni donna dovrebbe avere un gatto. E’ un animale indispensabile alla donna, l’unico animale capace di starle accanto in modo paritario. Il gatto e la sua donna – forse è più corretta come definizione del rapporto – sono legati da profondo rispetto e fiducia. Il gatto insegna l’arte del distacco, della pazienza, insegna a sentire, a riconoscere i segnali, ad acuire i sensi, ad affinare le percezioni sottili. Apprende alla donna a cogliere i segni ed i messaggi, a formulare le risposte alle proprie domande partendo dalle coincidenze e a schivare i tranelli della psiche. A spogliarsi dal mondo contingente e a scendere dentro il proprio inconscio. A sentire la ciclicità della Natura e quindi la propria. Nessun estraneo, però, può capire il loro linguaggio segreto, fatto di sguardi, passi, contatto, movimenti, posizioni fisiche, rituali. Questo non significa che ogni donna che possiede un gatto presti attenzione ai suoi insegnamenti.
Quando decisi di prenderlo con me, John Carter, era molto piccolo, non aveva ancora aperto gli occhi del tutto. Era in una gabbia con i suoi sei fratellini ed attirò subito la mia attenzione. Pensavo però di prendere una femmina visto che i due maschi che avevo avuto precedentemente erano morti, a causa delle loro scorribande, e io avevo sof- ferto tantissimo. Appena allungai la mano nella gabbia per prelevare una femminuccia bianca dal mento nero però, proprio lui, quel maschietto che avevo a malincuore scartato, mi saltò sul braccio e si arrampicò sulla manica del mio cappotto. Mi scelse, così come istintivamente io avevo scelto lui e non esitai un attimo a ritornare sulla mia decisione. Ce lo portammo a casa, allora vivevo ancora con mio marito, eravamo sposati da poco.
Era ancora troppo piccolo per nutrirsi da solo, era stato abbandonato troppo presto. Lo allevai con una siringa come biberon. Diluivo omogeneizzati per bebè con del latte e dormii per molte notti con una mano penzoloni dal letto, infilata nella sua scatola per rassicurarlo e perché non piangesse. Mi faceva un’enorme tenerezza quel cucciolo che dipendeva da me per ogni piccola cosa. Ricordo che ci mettemmo una settimana a scegliere il nome adatto a quel piccolo essere tremante e poi, proprio per questa sua apparente mancanza di coraggio, confermatasi poi nel tempo, lo chiamammo antiteticamente John Carter, come il valoroso eroe di Burroughs.
Da allora mi ha sempre seguito, ad ogni trasloco. Si è adattato ad ogni nuova casa. Aveva solo bisogno di una gattaiola e della mia presenza. In qualsiasi luogo dove abbiamo abitato, al rientro, la sera, il suo pelo odorava di fumo o di camomilla, a seconda delle stagioni. Non ho mai avuto parte alla sua vita segreta, oltre quella sua piccola porta, allo stesso modo in cui lui non ha avuto parte alla mia, fuori dalla porta di casa. Ma casa era dove c’ero io e dove c’era lui.
Siamo gocce di un passato Che non può più tornare Questo tempo ci ha tradito, è inafferrabile Racconterò di te Inventerò per te quello che non abbiamo Le promesse sono infrante Come pioggia su di noi Le parole sono stanche, ma so che tu mi ascolterai Aspettiamo un altro viaggio, un destino, una verità. (Gocce di memoria – Giorgia)
QUATTRO
Da Cristiano ero venuta a conoscenza del fatto che Roberto aveva ripreso a frequentare alcuni amici, soprattutto uno, Michele, un suo vecchio compagno di scuola con il quale non ero mai andata d’accordo per i suoi modi arroganti e la sua sfacciata misoginia.
Michele era di famiglia benestante, suo padre era uno dei più importanti industriali del pratese. Roberto lo aveva conosciuto a scuola, in terza superiore quando Michele fu inserito nella sua classe dopo esser stato bocciato per la seconda volta di seguito.
Fin da subito Roberto aveva subìto il suo ascendente, tanto che, dopo quell’anno scolastico, lasciò gli studi per poter lavorare e potersi permettere lo stesso stile di vita. O quanto meno avere l’indipendenza economica. Si comprò una moto e non ebbe più bisogno di chiedere ai genitori i soldi per uscire la sera. Se ne era pentito in seguito, ma evidentemente non abbastanza da porvi rimedio.
La vita era sempre stata facile per Michele, lui non rinunciava a nulla. Dopo le scuole superiori, aveva frequentato l’università con scarsi risultati andando abbondantemente fuori corso e abbandonandola superata la soglia dei trent’anni. Adesso gestiva una piccola azienda ben avviata. Il vecchio proprietario non aveva figli a cui lasciarla e, desideroso di ritirarsi, l’aveva venduta al padre di Michele. Era ovvio che il padre lo preferisse fuori dall’azienda di famiglia, uno dei più antichi ed operosi lanifici di Prato, dove invece aveva inserito con successo le figlie maggiori, molto più affidabili di lui. Gli aveva procurato, insomma, una specie di sala giochi in cui non poteva far troppi danni e che fosse sufficiente per lui per potersi sentire superiore alla schiera di amici di cui si era circondato, potendo così raccontare al mondo di essere un imprenditore. Lui però era sempre in giro con la sua macchina sportiva e dei suoi affari se ne occupava la segretaria, anche lei messa lì dal padre, dal quale prendeva ordini e direttive.
Io e Michele ci eravamo scontrati varie volte, sempre rimanendo su toni cortesi, ma era evidente che non mi sopportava e la cosa era del tutto reciproca. A lungo andare avevamo smesso di frequentarlo come coppia. Mentre Roberto lo vedeva di tanto in tanto, da solo o in compagnia degli altri amici.
L’occasione della nostra separazione doveva essergli parsa ghiotta: aveva finalmente la possibilità di farmi pagare le battute taglienti e di riprendersi Roberto a pieno regime alla sua corte.
Roberto era in un momento di forte fragilità e, anche se quella di allontanarci era stata una decisione comune, si sentiva abbandonato. Era soprattutto tanto arrabbiato con me, covava un infinito risentimento, ma non riusciva, o non voleva riuscire, a focalizzarne la ragione. Ci pensò Michele a insinuare nella sua mente tutti i dubbi e le incertezze che poté. Lui e quella sciocchina di Sonia, la nuova ragazza che si tirava dietro da un paio d’anni. Fecero soprattutto leva sulla sua insicurezza. Doveva esser parso loro un gioco divertente fomentare il rancore attraverso sospetti e allusioni.
Quasi ogni sera se lo trascinava dietro per locali ed ogni volta Roberto rincasava ubriaco e spesso, in quello stato, mi chiamava. Per me ricevere quelle telefonate nel cuore della notte era uno strazio. Strascicava le parole e mi diceva cose orribili e senza senso che mi lasciavano in uno stato di forte shock.
La telefonata tipo aveva il seguente tono:
«Sei una stronza, ti hanno visto al Costès che ti strusciavi ad un tipo come una gatta in calore.»
«Non dire cazzate, non so nemmeno dove sia codesto locale. Chi ti avrebbe detto questa stupidaggine? »
«Ho degli amici io e di loro mi fido, mi fido molto più che di te! Tutta gente a cui stai giustamente sul cazzo.» E poi rideva sguaiatamente.
«Hai fatto una buona scelta, – rispondevo sarcastica – ti fidi delle persone giuste, non ci sono dubbi.»
Ero convinta che non credesse alle cose orribili che mi diceva, che fossero solo dei pretesti per aggredirmi, una sorta di sadismo sterile.
Poi una di quelle notti, esasperata, volli provocarlo.
«E poi comunque potrei fare ciò che voglio, visto che tu non mi ami più! »
Rimase in silenzio, non rispose subito.
«Già, forse… forse è vero. Non ti amo più! » Non gli credetti, ma mi fece male.
Conclusa la telefonata, me ne restavo per lunghi momenti seduta sul letto, tremando.
La mattina andavo in ufficio stremata, con gli occhi gonfi. Spesso non riuscivo nemmeno a truccarmi, tanto ero stanca. Nessuno mi faceva più domande.
Molte volte ero stata tentata di chiedergli di tornare a casa, ma facevo violenza su me stessa e mi trattenevo. Sapevo infatti che, nel caso in cui avesse accettato, la convivenza sarebbe stata disastrosa e sarebbe stato il tracollo definitivo.
Ma ciò che temevo di più, sarebbe stato un rifiuto. Sapevo che avrei avuto una sola occasione con lui. Se l’avessi persa, se mi avesse detto no, anche solo in un momento di rabbia, per dispetto, anche senza averci veramente riflettuto, quel no sarebbe rimasto un no, per sempre. Era troppo orgoglioso, Roberto. Ma sapevo, ero certissima che mi amava da morire, così come io amavo lui. Era solo un periodo nero, tutte le coppie ne affrontano diversi nella vita, di periodi così.
Non sopportavo quelle telefonate, eppure le aspettavo.
Quando il telefono non suonava, facevo le peggiori congetture e vivevo nell’ansia, fino a che non riuscivo ad avere sue notizie per vie traverse. Ormai mi rifiutavo di cercarlo direttamente. Il suo orgoglio mi aveva contagiata e le cose andavano sempre peggio; questa separazione, invece di aiutarci a trovare la stabilità, ci stava allontanando sempre di più. Eravamo entrati in un circolo vizioso di rancore e risentimento, rabbia e frustrazione. Avevo perso quel po’ di lucidità che mi aveva guidata durante tutto quel periodo, quando ero certa che stessi facendo la cosa giusta. Desideravo che riuscisse a trovare da solo la propria serenità, ero convinta che solo così potesse trovare un vero equilibrio. E invece, da solo era sempre più smarrito. E di conseguenza anche io.
Ci eravamo conosciuti dieci anni prima, io e Roberto. Eravamo entrambi molto giovani. Rimasi subito affascinata dai suoi modi cavallereschi, un po’ d’altri tempi, dai suoi occhi verdi scuri, sinceri e magnetici. Era alto e con grandi spalle larghe. Mi faceva sentire protetta. Faceva molto sport all’epoca, soprattutto nuoto e boxe.
Parlavamo per ore ed ore, dimenticandoci di tutto intorno a noi. Ci raccontavamo qualsiasi cosa e ci sorprendevamo continuamente di pensieri e desideri comuni. Ci innamorammo perdutamente uno dell’altra in pochissimi giorni. Aveva molti interessi e una discreta cultura nonostante avesse interrotto gli studi prima del diploma. All’epoca mi disse perché aveva bisogno di lavorare e gli credetti, perché non poteva esserci altra ragione valida. Oggi, invece, sono certa che lo fece perché non credeva di potersi meritare di avere ambizioni che lo spingessero più in là di ciò che aveva fatto suo padre e anche per la voglia e il bisogno di affrancarsi dalla dipendenza economica da lui, che non stimava, per via della dipendenza dall’alcool.
Dopo le prime settimane, mi sentii soffocare dalla sua continua richiesta di attenzioni ma, allo stesso tempo, non avrei più saputo fare a meno delle sue; mi abituai alla progressiva perdita di autonomia. Era molto possessivo e dovetti a mano a mano rinunciare a molte delle mie amicizie e a qualcuno dei miei interessi e con difficoltà riuscii a mantenere una certa indipendenza. Non era geloso solo degli amici, ma anche dei colleghi e a fatica si tratteneva dal fare commenti spiacevoli su chiunque facesse parte della mia vita.
Era però molto garbato con me, mi riempiva di pensieri romantici, riusciva sempre a sorprendermi con piccoli gesti. Il nostro tempo libero lo passavamo quasi esclusivamente insieme, riuscivo talvolta a coinvolgerlo in alcuni dei miei interessi e mi appassionai ad alcuni dei suoi. Facevamo tanti progetti e fin da subito eravamo certi che il nostro futuro sarebbe stato insieme. Ero felice, nonostante oggi mi renda conto che il nostro era un rapporto esclusivo, che ci isolava dal resto del mondo impedendoci una crescita individuale parallela a quella di coppia. Fu questo soprattutto che ci portò inesorabilmente a quella rottura, non la mancanza di amore.

Come è nata l’idea di questo libro?
Sinceramente non saprei dirtelo, è da quando ero bambina che scrivo storie. Questa in particolare, che si è poi trasformata in un vero e proprio romanzo, e che è in parte autobiografica, è ambientata nei primi anni duemila, nell’epoca in cui è stata concepita. Alcuni capitoli erano infatti fra le mie carte già vent’anni fa. Naturalmente è stato tutto rivisto e corretto.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Ho dovuto licenziarmi dal lavoro per trovare il tempo per dedicarmi completamente alla scrittura; me lo dovevo. Quando ci si approssima alla maturità non si ha più voglia di rimandare la realizzazione dei sogni. Ho scritto un romanzo, ma ho fatto anche un lunghissimo bel viaggio prima di iniziare a metterci mano.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Leggo di tutto, non solo romanzi. Mi piacciono anche le biografie e i saggi. Gli autori che ho amato di più sono, in ordine cronologico. Stephen King, Edgar Rice Burroughs, Paulo Coelho, Clarissa Pinkola Estes, Isabel Allende, Jane Austen e Stieg Larsson.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nata e vivo in Toscana, ma ho vissuto anche a Parigi per qualche anno.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sto lavorando ad un nuovo progetto e c’entra quel bel viaggio di cui ti ho già parlato.
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