Edito da Licosia nel 2018 • Pagine: 296 • Compra su Amazon
C’è nella vita di ciascuno di noi un giorno, uno solo, che ha cambiato per sempre il nostro sentire.
Magari non il più importante, né il più decisivo, ma certamente quello dopo il quale – nelle profondità remote del nostro animo – abbiamo smesso di essere gli stessi.
È un giorno, di solito, a cui la nostra mente non torna e che il nostro cuore non rievoca mai nei propri battiti.
Senza che ci sia stato un accordo sul punto, nessuno intorno a noi vi fa riferimento, nemmeno per accidente.
Una miracolosa, tacita intesa fa sì che famigliari, amici, compagni, noi stessi, nessuno faccia mai neppure indirettamente cenno a quel disgraziato giorno.
Che pure è ben marchiato nella mente di ognuno.
Preferiamo tutti, istintivamente, fare finta di niente, comportarci come se non fosse successo nulla, come se quelle 24 ore non fossero mai avvenute.
Salvo che quello è il giorno che ha cambiato per sempre il corso della nostra esistenza.
Quello è semplicemente – e per tutti – il giorno di cui non si parla. Ebbene, questa è la storia del mio “giorno di cui non si parla” o, meglio, del “giorno di cui non si parla” della mia vita.
43.
Claudio e Giorgio impazzirono di gioia per la sorpresa dello zio, così il tragitto in macchina verso l’abitazione del fratello fu un ininterrotto starnazzamento di progetti velleitari. Appena giunti a destinazione, le feste delle femminucce furono abbreviate dalla rituale distribuzione di pensierini che Rodolfo soleva portare ai nipoti ogni volta che li vedeva. Il rientro di Benedetto riportò tutti alla calma e di lì a momenti a tavola. La cena, allegra e rumorosa, trascorse tra aneddoti curiosi dei piccoli e tentativi vani dei grandi di avviare una conversazione. Quindi Rodolfo promise di leggere una fiaba, una volta impigiamati e già a letto.
A Martina fu concesso di rimanere in piedi solo un altro po’, paciosamente immersa ad ascoltare musica nella sua camera. L’ospite scelse Il Principe Felice e, dopo breve presentazione dell’autore ai bambini, iniziò la declamazione a voce alta.
“Nel punto più alto della città, su un\’alta colonna, stava la statua del Principe Felice. Era tutto coperto di sottili lamine di oro preziosissimo, come occhi aveva due zaffiri lucenti, e un grande rubino brillava sull\’impugnatura della spada.
…
Perché non assomigli al Principe Felice? – domandava una mamma al suo bambino che era solito piangere per niente – Il Principe Felice non si sogna neppure di piangere per qualcosa.
…
Una notte volò sulla città un piccolo Rondone.
…
Gli occhi del Principe Felice erano pieni di lacrime, e le lacrime scivolavano giù dalle guance d’oro. La sua faccia era così bella nella luce lunare che il piccolo Rondone si sentì impietosire.
…
Lontano da qui – continuò la statua con una profonda voce musicale – lontano, in una piccola via, c\’è una povera casa. Una delle finestre è aperta, e attraverso essa posso vedere una donna seduta al tavolo. La sua faccia è magra e consumata, e ha mani arrossate e ruvide, che portano i segni delle punture dell’ago, poiché è una ricamatrice. Sta ricamando alcune passiflore sui guanti di satin che le più graziose damigelle della Regina indosseranno al prossimo ballo di corte. In un letto nell\’angolo della stanza c\’è un ragazzino ammalato. Ha la febbre, sta chiedendo qualche arancia. Sua madre non ha nient’altro da dargli che l’acqua del fiume, e è per questo che lei sta piangendo. Rondine, rondine, rondinella, le porterai il rubino dell’impugnatura della mia spada?
I miei piedi sono fissati a questo piedistallo e non posso muovermi.
…
Così il Rondone strappò l’occhio del Principe, e volò via verso la soffitta dove abitava il giovane scrittore.
…
Scesa la quiete nell’appartamento, Benedetto prese a sfottere bonariamente il fratello per la sua perdurante vita da scapolo. “Vedi cosa significa avere una famiglia numerosa, con tanti bambini?!? Che alla sera rientri, stanco morto, e hai a malapena il tempo di toglierti il soprabito per metterti subito a fare il capostazione che regola il traffico con il fischietto, prima di ordinare il coprifuoco per tutti…”.
Lucia gli sedeva amorevolmente affianco sul divano. Lui aggiunse “E, magari, finisci quasi per scordarti di guardare negli occhi la donna che hai scelto come compagna di vita…”.
I due erano sempre molto affiatati e effettivamente ancora espansivi, a dispetto dei tanti anni trascorsi insieme. Una di quelle coppie che, di soppiatto, si guardano con simpatia mista a intenerimento e, talvolta, con un pizzico di malcelata ammirazione. Come faceva spesso, Rodolfo li accarezzò con lo sguardo e rispose laconico, ma non senza una punta di autoironia “Lo vedo, lo vedo… forse, è per non correre questo rischio che sto ancora tanto indietro!”. Intervenne allora Lucia: “Beh, le pretendenti non ti sono mai mancate; basta farsi coraggio, scegliere e cominciare a darsi da fare!”. Nell’andar via Rodolfo salutò ventilando possibili sorprese, quasi a voler raccogliere il testimone che la cognata gli aveva porto un attimo prima. Benedetto silenziosamente annuì.
44.
Rientrando a casa piuttosto disteso, quella sera Rodolfo si andò a sedere alla sua scrivania senza accendere la luce elettrica e se ne rimase lì, a rimirare il panorama rischiarato dal bagliore della luna quasi piena, appesa proprio sopra le sue finestre. Come una creatura della notte, abituò poco a poco le pupille all’oscurità e si lasciò dissolvere nel silenzio circostante. L’immobilità del paesaggio dei tetti là davanti, l’apparente calma della città sonnolenta, lo fecero entrare in una dimensione senza tempo, in cui persino le lancette dell’orologio sembravano essere passate in modalità risparmio. Si ritrovò, così, a vagare con lo sguardo su quella distesa di tegole e terrazzi, antenne e comignoli, come un fantasma irrequieto in cerca di nutrimento. Più inerte se ne restava sulla sua poltrona e più il suo spirito aleggiava fuori di lui, in una fluttuazione ondeggiante, senza direzione, un moto onirico. A un certo punto, ebbe l’impressione fisica di stare sorvolando l’abitato intorno, alla maniera di quei personaggi delle fiabe che vegliano sugli esseri umani inconsapevoli, immersi nel sonno e, soprattutto, nelle loro penose tribolazioni quotidiane.
Un Rondone.
Un rondò.
Senti un’improvvisa morsa al cuore. Gli sfilarono dinanzi agli occhi, in un immaginario balletto sospeso, tutte le persone care: Olivia con il suo grembo appena convesso; Benedetto con l’aria affaticata; Martina nella sua ritrosa timidezza; Letizia e i gemelli e i loro incubi infantili; Lucia nella sua gioiosa gravità di carichi; Matteo e la sua geniale vulnerabilità; Sofia l’irriducibile; Angelica rancorosa e sola; Luca nella sua prescelta lontananza; infine Carla e il suo disincanto maturo.
Cosa lo attraeva tanto in lei? Li vide tutti, uno dopo l’altra, nudi, a dormire sotto il peso delle loro speranze, fatiche, sofferenze, durezze. Riposavano davvero sopra simili aculei affranti? Avrebbe voluto prenderli tutti insieme e abbracciarli, uno a uno, trarli a sé con forza e baciargli le palpebre serrate, passare carezzevolmente una mano sul loro viso, infondergli vigore, coraggio, alleggerire le loro anime. Avrebbe voluto poter fare molto di più, per ciascuno di loro.
Un rubino, uno zaffiro, almeno una foglia di oro.
Si rese conto d’un tratto che, invece, la finitezza del suo essere limitava ineluttabilmente la vastità dei suoi slanci. Il brusco risveglio ebbe l’effetto di una stramazzata al suolo, un tonfo sordo generato dalla caduta libera del fantasma privato di colpo della sua attitudine al volo, un angelo riassoggettato alla bieca e democratica legge di gravità. La sensazione fu quella di essersi tramutato in un gufo solitario, immobile e intirizzito, tutto occhi, talmente fisso da risultare insensibilmente separato dal mondo esterno, una mummia imbalsamata su un ramo ormai pietrificato.
Per reazione, rabbrividì.
E finalmente si scosse, muovendo alla volta del letto.
Come è nata l’idea di questo libro?
Dalla certezza che tutti abbiamo il nostro giorno di cui non si parla, quello che ha cambiato per sempre la nostra traiettoria e il nostro sentire. Volevo raccontare quello spazio di non detto e la sua influenza spesso decisiva sulle nostre esistenze.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Tanto e questo per varie ragioni, non ultima la mia professione di partenza che mi ha sempre impegnato moltissimo. Curiosamente, però, il romanzo ha avuto una lunga stasi e poi, in un momento molto intenso della mia vita, una rapidissima ultimazione.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Mi sono formato, un po’ come tutti, sui grandi classici dell’Ottocento, specialmente i russi. Su quell’imprinting si sono poi stratificate tante altre letture e autori più recenti (per citarne alcuni Buzzati, Fallaci, De Luca, Piperno, Kundera, Barnes, McGrath, Sepulveda), che mi hanno portato via via a trovare la mia voce, la mia cifra stilistica.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
A Roma, dove ho sempre vissuto pur avendo viaggiato tanto, con svariate esperienze stanziali in posti diversi. Purtroppo oggi fa male viverci per come è ridotta.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Appena concluso Il giorno di cui non si parla, ho iniziato subito a scrivere un secondo romanzo tuttora in gestazione. Ho, inoltre, avviato parallelamente anche un interessantissimo progetto a quattro mani.
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