Edito da Jouvence nel 2020 • Pagine: 245 • Compra su Amazon
Cercare di spiegare l’enigma Hitler, è stato l’intento di molti studiosi, com’è giusto, perché demonizzarlo e basta, non porta lontano. Ma, a mio avviso, nonostante tutti gli sforzi sinora compiuti, l’uomo rappresentato è sempre rimasto un’ombra alla quale venivano attribuite un certo numero di caratteristiche senza con ciò renderla viva. E questo succede in primo luogo perché la ricettività dei Tedeschi viene spiegata quasi esclusivamente con la sconfitta nella prima guerra mondiale, il trattato di pace di Versailles, la catastrofica situazione economica ecc. e non con il loro carattere per quello che è e al quale Hitler fu diabolicamente in grado di adeguarsi per raggiungere i suoi scopi. Si pensi all’immaturità che l’allora forse più alto rappresentante dello spirito tedesco, Thomas Mann, mostrava ancora nel 1919 nelle sue “Considerazioni di un impolitico”.
Nel 1938 lo stesso Thomas Mann, in un saggio intitolato „Fratello Hitler“, nel mentre esprimeva il ribrezzo per quel torbido individuo, era costretto suo malgrado a riconoscergli le caratteristiche che solitamente contraddistinguono l'artista.
Se quell’uomo avesse potuto realizzare le sue aspirazioni e diventare un artista, non un grande artista, visto il talento limitato, ma comunque un artista, come sognava, tanti orrori sarebbero stati risparmiati al mondo …
Sembra incredibile, quasi inverosimile, eppure è così. Perché anche Adolf nacque senza macchia e, come dichiarò il medico di famiglia Bloch in esilio (nel 1941), “era sensibile e intelligente, rispettoso, educato e mostrava un affetto per la madre mai riscontrato in nessun altro ragazzo”. A quanto risulta, neppure in seguito, fino all'età di trent'anni, si distinse per cattive inclinazioni o abitudini.
E a farlo diventare quello che infine diverrà non saranno solo e in primo luogo le predisposizioni personali o le circostanze storiche, ma un grande cinismo, acquisito durante la Prima Guerra Mondiale, e i Tedeschi, con quella miscela unica di stolta fede nell'autorità e presunto idealismo che dei piccolo-borghesi ignari fece dei criminali esecutori di ordini.
Tutti gli elementi essenziali su cui poggia la trasfigurazione letteraria non sono in ogni caso immaginari, ma rigorosamente documentati. E, se ho voluto, in certi momenti, accentuare un poco la coscienza che Hitler ha di sé e della sua situazione, questo artificio serve unicamente a far meglio risaltare la tragica simbiosi tra il dittatore e le masse.
Capitolo XXIV
Aveva agito sin dall’inizio nella profonda convinzione che avrebbe raggiunto la sua meta. Le condizioni di pace imposte dalle potenze vincitrici e la disastrosa situazione economica, la possibilità di sistemare i suoi avversari con quattro parole d’ordine e soprattutto la facilità con cui era riuscito a mettere su un partito a lui assoggettato, tutto questo rinvigoriva continuamente quella sua fiduciosa convinzione.
Lo accusassero pure, gli invidiosi, di fare uso di argomentazioni primitive, la crescita costante del partito dimostrava che si trovava sulla giusta strada. E, poiché la borghesia, povera d’idee com’era, alla sua condanna del comunismo, della lotta fratricida e di un’umile rassegnazione, altro non sapeva contrapporre se non una vaga nostalgia monarchica, alla fine sarebbe stata anch’essa afferrata e trascinata via dalla grande onda.
A parte tutto, lui non aveva alternative. E così si era aggrappato per anni all’idea che il destino gli avesse concesso un’occasione unica. Ogni serio dubbio lo avrebbe subito privato delle energie necessarie alla sua instancabile attività…
Ciò nonostante, il 30 gennaio 1933 fu e rimase un giorno incomparabile. Poiché, anche se ai suoi seguaci aveva dichiarato mille volte d’essere stato prescelto dal destino come salvatore della Germania, fino all’ultimo, dentro di sé, non vi aveva mai veramente creduto.
Abbindolare della gente lenta di comprendonio non era stata poi un’impresa tanto difficile. Ma, quando quella notte contemplò dall’alto della finestra spalancata le colonne di fiaccole che sfilavano sotto il palazzo della Cancelleria del Reich, si sentì come stordito. Non gli voleva entrare in testa che il piccolo Adolf, figlio di un funzionario delle Dogane austriache provvisto solo di licenza elementare, uno che venti anni prima si era trasferito a Monaco senza alcuna prospettiva e che, dopo la guerra, si trovava ancora sul gradino più basso della scala sociale, che il capo di una banda di cospiratori, fino a ieri diffamato e osteggiato da tutti quelli che contavano, fosse adesso Cancelliere.
Finché, con astuzia e menzogna, cautela e risolutezza, aveva lottato per il potere, il suo rapporto con il mondo era stato di natura molto pratica. Sapeva di chi poteva fidarsi e come doveva comportarsi in determinate situazioni. E, quando non ne era sicuro, aspettava pazientemente che le cose decantassero da sé. Oppure, se il suo infallibile istinto glielo suggeriva, rischiava.
Ora tutta quella realtà gli sembrava all’improvviso così lontana! Schleicher, von Papen, Hugenberg e Hindenburg, che si ritenevano autorità indiscutibili, mentre consideravano lui un corpo estraneo e fino a ieri avevano avuto facoltà di negargli la legittimazione ufficiale e di sbarrargli l’accesso al potere, erano divenuti delle comparse insignificanti che lui si accingeva a sistemare una volta per tutte.
E Göring, Goebbels, Himmler e Röhm, che, dopo la sua nomina a Cancelliere da parte del Presidente del Reich, pensavano già alle loro future posizioni, individui che, senza di lui, avrebbero condotto fino alla morte una grigia, banalissima esistenza, questi e tutti gli altri compagni di lotta sarebbero d’ora in avanti dipesi più che mai dal suo arbitrio. Nessuno poteva più permettersi di contestare la sua benché minima decisione…
La Germania era economicamente e moralmente a terra. Il suo materiale umano era però buono e come fatto per i suoi scopi. Conducendo i Tedeschi sulla giusta strada, poteva essere presto raggiunto un incremento della produzione senza precedenti, e proletari e padroni lo avrebbero osannato in egual misura.
Si trattava solo di promuovere le qualità utili e di estirpare quelle dannose. Quelle utili, come il senso del dovere, la laboriosità o l’obbedienza, elevandole a virtù; quelle dannose, come il pensiero critico, i sentimenti umani o le fantasie idealistiche, dichiarandole incompatibili con il bene del popolo e demonizzandole.
Avrebbe proceduto come un chirurgo, eliminando accuratamente tutto quello che poteva ostacolare i suoi piani. Aveva bisogno di legioni di lavoratori e soldati privi di volontà e sentimenti, che si sentissero portatori di una cultura superiore ed eseguissero i suoi ordini senza fiatare.
Tra le generazioni più anziane avrebbe certo incontrato delle resistenze. Questo era comprensibile, dal momento che erano ancora modellate da una cultura tramandata e si trascinavano dietro tanta inutile zavorra. Ma i loro figli e nipoti mostravano già, nell’Hitlerjugend, delle attitudini e una ricettività che facevano sperare il meglio. Un giorno sarebbero stati disposti a tutto per lui. Non perché gli dovessero una posizione o temessero i suoi sgherri, ma unicamente per amore della divisa e dell’avventura, di un’organizzazione strutturata a regola d’arte, all’interno della quale si sentivano forti e potenti.
Per loro voleva essere un padre severo e buono, in cui avessero fiducia, e con loro avrebbe conquistato l’Europa e forse il mondo intero…
Ovviamente, l’edificazione del Terzo Reich avrebbe comportato anche un forte salasso. Gli spiriti migliori avrebbero dovuto abbandonare il paese oppure perirvi. Questo era purtroppo inevitabile, giacché l’intelligenza presupponeva sempre una personalità, e questa la libertà d’obiezione, come sapeva per esperienza personale.
Ma il potere dei grandi dominatori non era forse fondato in tutti i tempi sull’imposizione della loro volontà? E non era già previsto dalla natura che il più dotato avesse sempre la meglio? Con i Tedeschi egli voleva celebrare vittorie mai viste prima. E chi poi avrebbe più chiesto per quali vie si fosse arrivati a tanto?
Così riflettendo, come sospeso al di sopra delle colonne di fiaccole, sulla propria vita e il proprio futuro, ebbe d’un tratto la rivelazione che era necessaria molta più genialità per plasmare delle masse informi e farne qualcosa di grandioso di quanta non ne occorresse per dipingere un quadro o scrivere un romanzo. Una volta che ciò gli fosse riuscito, però, tutti i più grandi artisti sarebbero stati a sua disposizione.
Come è nata l’idea di questo libro?
Avendo già affrontato il tema alcuni anni prima in due saggi, “Die Deutschen und die Schuld” (I Tedeschi e la colpa) e “Geistige Lage der Nation” (Lo stato spirituale della nazione), ho sentito a un certo punto il bisogno di rintracciare l’origine di quel trauma, di quel blocco emozionale e intellettuale che segna ancor oggi i Tedeschi. Perché, a più di settant’anni dalla fine della guerra, è evidente che i mea culpa di rito e i risarcimenti monetari alle vittime non risolvono un bel niente. In genere si cerca di ricostruire la figura di Hitler partendo dalla conclusione della sua parabola, vale a dire dalle immani distruzioni e dagli inconcepibili forni crematori. Ne viene fuori un essere genericamente mostruoso che, favorito da una situazione storico-economica particolare, ha saputo diabolicamente sfruttare la sua retorica per fuorviare un popolo sprovveduto e maltrattato dalla sorte. E non un uomo reale. Nel mio libro Hitler ha invece una sua storia personale e fino al trentesimo anno d’età non lascia minimamente presagire quello di cui sarà capace poi. Perché, pur coltivando una segreta mania di grandezza, non si fa mai trascinare a una qualche azione concreta. E se non avesse incontrato i Tedeschi, si sarebbe forse ridotto a un accattone un po’ svitato o forse si sarebbe suicidato, ma non sarebbe certo diventato il personaggio politico che diventò. Infatti, a differenza di altri dittatori, egli non lotta e non si espone sin dalla giovinezza, ma in un dato momento trova tutto pronto, e il suo “genio” consiste nel riconoscerlo. Imitandoli, fa credere ai Tedeschi d’essere più tedesco di loro e agli Europei di essere il legittimo rappresentante dei Tedeschi. Questi si aggrappano alla loro convinzione fino alla disastrosa sconfitta, gli Europei sono costretti a mantenere la loro dall’accanimento con il quale i Tedeschi combattono per Hitler. Solo mettendo a fuoco che egli ha saputo appropriarsi cinicamente di comportamenti e aspirazioni insiti nel popolo che voleva dominare, si può comprendere Hitler e quindi sfatare una volta per tutte il suo mito: ed è quello che credo di aver fatto in “H”.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
La difficoltà maggiore è consistita nel trovare un giusto e credibile equilibrio tra l’autocoscienza e l’autosuggestione di Hitler. Perché, se è vero che egli percepì freddamente, come dal di fuori, il dipanarsi degli avvenimenti, non poté per questo essere esente da una certo grado di immedesimazione con il personaggio che interpretava, da cui derivò anche l’esaltazione che gli fu indispensabile per resistere.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Tutti quei classici che dovrebbero costituire la base di ogni vera formazione umanistica, da Omero a Goethe, da Apuleio a Tolstoj. Comunque, tra gli scrittori tedeschi moderni, quelli che mi hanno dato di più sono certamente Hermann Hesse e Thomas Mann.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Di padre tedesco (proveniente da Dresda) e madre austriaca (proveniente da Vienna), sono nato e cresciuto a Roma. Ho frequentato la scuola tedesca e studiato Filosofia all’università La Sapienza, senza prendere la laurea e, dopo sette anni passati nella campagna toscana, tra Siena e Firenze, sono infine approdato a Monaco di Baviera dove vivo tutt’ora.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sto per portare a termine il romanzo “Der identitätslose Mensch” (L’uomo senza identità), nel quale, in una tessitura di spunti autobiografici, s’incontra la problematica della coesistenza odierna di uno sfrenato individualismo con un conformismo senza precedenti. Deformato sin dalla nascita da un indiscriminato consumismo e conculcato da onnipresenti media, l’uomo contemporaneo non possiede infatti né l’ozio né la libertà per attingere a una personalità. E, mentre crede di agire liberamente, in realtà obbedisce soltanto alle leggi del mercato. Come sopravvivere in un simile mondo, quando si è avuta la fortuna di conoscere ed assimilare gli eterni ideali del genio umano e dello sviluppo dell’individualità? Questo è il quesito centrale dell’opera.
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