
Edito da Edizioni Espera nel 2019 • Pagine: 228 • Compra su Amazon
Henry Moore e le piccole Veneri. Arte e identità umana - l’ultimo saggio di Francesca R. Borruso
Per Edizioni Espera l’ultimo saggio di Francesca R. Borruso “Henry Moore e le piccole Veneri. Arte e identità umana”.
Francesca R. Borruso, romana, ha studiato presso “Sapienza” Università di Roma, conseguendo la laurea in Lettere e in Psicologia. Le sue ricerche si sono concentrate soprattutto nell’analisi della complessa psicologia degli artisti in stretta connessione con il contesto storico in cui erano vissuti. Ha lavorato per molti anni nel Musis, progetto del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica, curando fra l’altro l’edizione italiana della mostra Tous parents tous Tous différents, proveniente dal Musée de l’Homme di Parigi ed esposta nel 1993 al Museo Pigorini di Roma. Ha anche ideato vari progetti, tra cui La nascita della scrittura, una realizzazione multimediale sulla civiltà Sumera in collaborazione con i proff. Giovanni Pettinato e Paolo Matthiae; la mostra La sapienza delle mani, scienza e tecnologia nel Mediterraneo, in italiano, arabo e francese, uscita contemporaneamente a Tunisi e a Roma.
In questo ultimo saggio, frutto di un lungo lavoro di ricerca, si cimenta nell’indagine legata agli aspetti poco noti del profondo interesse di Henry Moore per l’arte della preistoria proponendo una lettura originale e inedita di alcuni disegni del maestro.
Dobbiamo guardarle come sculture, solo come un buon lavoro di scultura anche se è stato fatto, come le ‘Veneri’ del Paleolitico, 20.000 anni fa. Sono una parte della vita reale, qui ed ora, per coloro che sono abbastanza sensibili e aperti per sentirlo e percepirlo.
Questo l’incipit di Henry Moore e le piccole Veneri. Il profondo interesse di Moore per l’arte della preistoria toccò negli anni diversi aspetti, dai primi studi e disegni sulle piccole sculture e bassorilievi di creature femminili conosciute come Veneri paleolitiche (1926), all’articolo Primitive Art (1941) scritto pochi mesi dopo il terribile bombardamento di Londra durante la prima guerra mondiale, fino ad arrivare alle Three Standing Figures (1948), alla Woman (1958) e alla Three Quarter Figure (1961). Il filo di coerenza appassionata e continua che collega quest’interesse alla sua stessa arte, dai disegni alle grandiose sculture, si è svolto per decenni innestandosi sulla sua fondamentale ricerca sull’identità umana. Seguendo Moore nel suo percorso si risale alle prime scoperte archeologiche della seconda metà dell’Ottocento, alle ostilità e agli scontri radicali che suscitò nelle autorità accademiche e religiose la scoperta dell’esistenza della vita e dell’arte di esseri umani vissuti migliaia di anni fa. Queste posizioni erano ancora presenti all’epoca dei primi disegni e solo recentemente si comincia a guardare a un’epoca così lontana nel tempo chiamandola come lo scultore aveva sempre intuito, la Storia profonda, la nostra Storia profonda.
La lontanissima origine dell’esistenza e dell’arte dei primi esseri umani e la nostra reale continuità con loro era per Moore una certezza assoluta basata sulla sua stessa identità di artista e di uomo perché, come scriveva: l’arte è un’attività universale e continua senza nessuna separazione fra passato e presente.

Scolpire l’aria è possibile.
Racchiudendo lo spazio cavo,
la pietra ne lascia emergere la forma in tutta la sua evidenza e necessità!
Mistero del foro fascino misterioso delle caverne
nei fianchi delle colline e delle scogliere.
Henry Moore
Scolpire l’aria è possibile
Un taccuino rilegato e ingiallito dal tempo, una data, 1926 e alcuni disegni. Qualcuno occupa l’intera pagina, altri si raggruppano in apparente disordine su tutto lo spazio disponibile intervallati da veloci appunti scritti a matita. Ogni tanto una lettera maiuscola e qualche decisa sottolineatura.
Chi li vede ha un tuffo al cuore e non sa spiegarsi perché.
Forse i motivi sono due, uno è per l’autore, Henry Moore che all’epoca aveva ventott’anni, l’altro è per i soggetti, disegni su immagini della preistoria, statuette soprattutto, ma anche dipinti e graffiti. Solo uno dei disegni ha una didascalia che lo identifica: Studio sulla Venere Grimaldi 1926.
La Venere è scolpita in una pietra rosso-bruna, il colore delle falesie a picco sul mare, i Baussi russi come vengono chiamate nel dialetto ligure. Nelle falesie si aprono una serie di cavità, anfratti e grotte scavate sugli ultimi ripidi contrafforti che separano le Alpi dalle rive del Mediterraneo, una costa scoscesa che va dalla riviera italiana al confine con la Francia.
Anche migliaia di anni fa nei fiumi e nei torrenti che scorrevano verso il mare e su queste calette sassose si trovavano ciottoli dai colori intensi, rosso bruno, giallo ambra, o verdi dai più chiari, ai più accesi. Lo sciabordio delle onde li aveva resi lucenti come pietre preziose.
Chi li aveva raccolti nelle lontane ere del paleolitico era alla ricerca di pietre che fossero più belle e diverse delle altre. Pietre tenere che si potevano scolpire e lucidare a lungo con un lembo di pelle per ottenere una patina opalescente e preziosa, poi portarle sempre con sé, legate al collo o alla vita come ciondoli e talismani.
Il giovane uomo che amava camminare raccogliendo sulla spiaggia i ciottoli che colpivano la sua fantasia, sapeva riconoscere molte cose di questa statuetta dalle forme morbide e piene.
Aveva un aspetto diverso dalle Veneri classiche che stava allora studiando nella più famosa scuola d’arte britannica, ma parlava lo stesso linguaggio che anche lui si stava costruendo: la ricerca di forme universali che si percepiscono inconsciamente, la possibilità di scolpire l’aria racchiudendo lo spazio nei contorni della pietra, la capacità di sentire il fascino misterioso delle caverne nei fianchi delle colline e delle scogliere.
Quale è stato il percorso per arrivare a questo taccuino? I disegni di Henry Moore sono migliaia, oltre 7.500 su fogli singoli, negli sketchbooks o meglio nei notebooks, come preferiva chiamarli. Molti sono stati identificati, perché è chiaramente riconoscibile l’opera o la ricerca alla quale si riferiscono. Esistono anche tantissimi disegni liberi, dove l’artista si lascia andare al suo pensiero creativo e alla fantasia inconsapevole che guida la sua mano.
Negli ultimi vent’anni della sua vita Moore parlava spesso del suo lavoro e forse la più lucida descrizione delle sue finalità e delle diverse tecniche che usava nel disegno fu quella che diede nel 1960 rispondendo al suo grande amico il poeta Stephen Spender. Era anche lui un artista, un poeta, e sapeva chiedergli le cose come pochi altri. Gli dissi che avrei veramente voluto sapere quali fossero le differenze dei suoi scopi quando faceva un disegno astratto, uno figurativo, o un ritratto. Mi rispose che alla fine erano cinque o sei i suoi modi di disegnare.
1. Disegni per esplorare forme organiche o la natura di un oggetto, disegni in cui cercava di trovare qualcosa, scoprire la struttura di un oggetto
2. Disegni descrittivi studi o ritratti, come ad esempio erano i disegni sulla figlia o su altre figure
3. Disegni per mettere a fuoco un’idea scultorea, per vederla da diversi angoli visuali
4. Disegni esplorativi, dove cominciava tracciando poche linee, scoprendo attraverso queste una forma che poi diventava qualcos’altro.
5. Disegni fondati sulla metamorfosi di un oggetto dal realistico all’astratto
6. Disegni che definiva immaginative drawings per creare un’atmosfera onirica, dove le figure si stagliavano in piedi su uno sfondo.
È singolare che i disegni sull’arte del Paleolitico superiore, non fossero conosciuti dagli archeologi, dagli studiosi dell’arte della preistoria e dai conservatori dei grandi musei dove si trovano tutt’ora quelle opere d’arte che Moore ha studiato e disegnato. È in gran parte sconosciuto anche agli studiosi di arte moderna il nesso con gli antichissimi capolavori. Per lungo tempo, infatti, si era creata quasi una sacca di invisibilità per cui non erano stati collegati alla loro fonte, a cosa rappresentassero e da quali opere fossero stati ispirati, l’unica identificata era la statuetta della piccola Venere Grimaldi, (o più esattamente di Barma Grande) non i due bassorilievi in pietra, le pitture rupestri, il gigantesco cavallo e i graffiti. Inoltre, nei disegni del taccuino del 1926 sono forse presenti in nucei sei modi di disegnare durante quarant’anni di quotidiano lavoro artistico di cui Moore parlava nella risposta a Stephen Spender.
LaVenere Grimaldie gli altri disegni del taccuino del 1926 sono stati uno degli incontri più emozionanti di una ricerca cominciata da dove era quasi obbligatorio partire, dal suo articolo Primitive Artche uscì sulla rivista The Listener il 24 aprile del 1941 in piena Seconda Guerra Mondiale. Una data terribile, pochi mesi prima nel settembre del ‘40, Londra era stata colpita da un improvviso e violentissimo bombardamento e l’avanzata tedesca sembrava non trovare argini. In tutta Europa si stavano offuscando e riducendo gli orizzonti della memoria legati a monumenti e luoghi d’arte, molti erano stati già colpiti e rasi al suolo, altri erano in zone di guerra e in pericolo imminente.
Eppure tutto questo non compare nell’articolo, si capisce quando si legge il mese e l’anno in cui è stato pubblicato. Lo scultore scrive solo che il British Museum era chiuso e si sente quasi il silenzio e l’eco irreale delle grandi sale vuote. Sappiamo che era stato risparmiato dalle bombe, ma come molti musei delle grandi capitali era chiuso per precauzione nel timore di saccheggi e atti vandalici.
Le visite al Museo furono una parte molto importante della vita di Moore da quando, a poco più di vent’anni, era arrivato a Londra affamato di bellezza –come raccontava scherzando – e ci andava spesso, almeno due volte a settimana. Non aveva mai visto i cancelli chiusi per un periodo così lungo, tutti si auguravano che fosse una sospensione temporanea, ma era dolorosa e grave come l’arresto di un flusso vitale.
Scrisse forse Primitive artper un’istintiva opposizione, perché aveva sentito l’esigenza di costruire qualcosa di vivo e indistruttibile? Immaginò di fare un viaggio nella memoria, che in un artista ha enormi dimensioni intuitive molto diverse dai limiti temporali e dalla nitida freddezza del ricordo; faceva rivivere non solo le sue personali emozioni, ma la potenza stessa degli antichi capolavori e il suo scopo era di riuscire a spiegare quale fosse il grande significato dell’arte primitiva.
Arrivò a scrivere della sezione dedicata alla preistoria dopo un lungo percorso orchestrato con la ricchezza e la sapienza d’immagini di una regia teatrale, un cammino a ritroso nell’arco delle sue continue visite al Museo degli ultimi vent’anni che prendeva le mosse dalle sale dove erano ospitate le monumentali sculture dell’antico Egitto. Alla fine c’era una strettoia, una pausa che restringeva il campo visivo a una scala di ferro che portava nella sezione dedicata alle sculture paleolitiche risalenti a ventimila anni fa.Qui si soffermò con calore e reale emozione sulle minuscole figure femminili di un realismo profondamente umano, non accademico, caratterizzato da una ricchezza e pienezza di forme. Moore scrisse in modo da far sentire la vivida presenza di quelle piccole forme femminili, leggendo si percepisce che avrebbero continuato a vivere a lungo come ispirazione e che forse oltre ai disegni sarebbero anche riapparse nascoste in qualche particolare nelle sue monumentali sculture.
Inoltre quest’articolo aveva un tale senso di appassionata convinzione non solo nelle singole frasi, ma nello slancio e nel tono generale che non poteva passare inosservato, né era possibile leggerlo e commentarlo come un normale saggio di critica d’arte. Uno dei più attenti critici dell’epoca ebbe la sensazione della vivida urgenza di una crociata che lo scultore combatteva per difendere le sue più profonde convinzioni e le mete che si augurava che tutti, non solo lui, potessero raggiungere.
Per capire il rapporto di Moore con l’arte del Paleolitico superiore e del Neolitico e gli impliciti nessi con l’arte dei periodi storici, era necessario seguire due filoni: anzitutto quello della storia delle scoperte: si dovevano consultare gli stessi libri sui quali l’artista aveva studiato, ai quali si era riferito e gli autori che all’epoca erano più seguiti, ma bisognava anche indagare le corrispondenze con le ricerche attuali, perché le intuizioni di Moore erano state molto più chiaroveggenti di quelle degli anni in cui era cominciato il suo interesse per l’arte delle ere glaciali.
L’altro filone riguardava la sua vita e gli scritti. Soprattutto i suoi scritti sulla scultura e sull’arte, sia perché sono tutt’ora molto attuali, sia perché è impossibile, come è stato scritto competere con Moore su Moore e loavevano dimostrato, fin dalle prime monografie del 1944, gli autori di saggi e articoli su di lui, che infatti lo citavano estesamente.
Gli studiosi delle sue opere sottolinearono spesso il loro stupore per la grande quantità di scritti che lo scultore aveva lasciato, più di trecento pagine fra articoli di suo pugno e risposte alle numerosissime interviste che gli erano state fatte nel corso della vita. A volte i nessi fra gli scritti e le opere erano evidenti, ed erano sottolineati dallo stesso Moore, altre volte mancavano del tutto, la descrizione dello scultore rimaneva sospesa e senza un’immagine chiarificatrice.Uno dei misteri riguardava una piccola testa femminile in avorio di mammut descritta con parole di grande calore e sensibilità, senza che ci fossero disegni che potessero aiutare a capire quale potesse essere l’immagine alla quale si riferiva. Un’adolescente senza nome che si riconosceva per una indefinibile grazia fra le altre figure di donna dalle forme morbide e mature.
Molti artisti dal Novecento ai giorni nostri hanno percepito l’arte della preistoria con un interesse, una sensibilità particolare, diversa dagli archeologi e antropologi loro contemporanei. Ne intuivano inconsapevolmente la forza, le misteriose risonanze ancora inesplorate e le rappresentavano nelle loro opere tradotte in immagini più vicine alla nostra cultura.
Picasso fu uno dei primi a essere studiato sotto questo aspetto, si conosce bene la sua ammirazione per la statuetta della Venere di Lespugue– ne aveva due calchi nello studio – e si cita spesso la famosa affermazione: Dopo Altamira tutto è decadenza. Ma in realtà sembra che quest’episodio sia stato molto sopravvalutato, se non addirittura inventato, perché non andò mai a visitarla e non è neanche certo che abbia mai pronunciato la lapidaria affermazione che gli viene attribuita.
Non è altrettanto sottolineato e conosciuto l’interesse di Moore e forse il significato che ebbero per lui le immagini della preistoria deve essere maggiormente approfondito.
Da quali immagini fu maggiormente ispirato? Quale fu per lui il senso profondo dell’arte di quella lontanissima civiltà? L’interesse dello scultore per l’arte delle ere glaciali aveva indubbiamente qualcosa di diverso e originale, perché non riguardava, come per molti altri artisti, solamente le statuette, i graffiti, o le pitture rupestri. Sin da giovanissimo egli ebbe un’intuitiva comprensione – che definiva “affascinamento” – per le forme cave e per lo spazio delle grotte. Quelle che aveva visto e esplorato nella sua infanzia erano cave di sabbia molto profonde, ormai chiuse e abbandonate da anni, entrarci poteva essere pericoloso, eppure gli avventurosi ragazzini di Castlefordsi avventuravano ugualmente nel buio delle tortuose gallerie. Per molti di loro era solo un gioco pericoloso e una sfida alla paura dell’ignoto, ma Moore coglieva anche altri significati che mettevano in moto una miriade di percezioni e sensazioni interiori che continueranno poi negli anni ad approfondirsi e troveranno imprevedibili modi di espressione.
Lo spazio cavo che egli percepiva era come il negativo di un solidoe le ricerche collegate a queste sensazioni erano così intense, perché corporee, fisiche. Quando scavava dentro una forma Moore aveva – così scrisse – la sensazione di scavare dentro sé stesso. Come se diventasse lui stesso sia la forma cava che la forma piena. La percezione della forma è per lo scultore una sensazione interiore: ogni forma infatti indipendentemente dalle sue dimensioni e dalla sua complessità viene da lui percepita come se fosse contenuta nell’incavo della sua mano.
Ma nonostante questo lontano affascinamento per i fori e le forme scavate dalla forza tellurica della natura, che fossero le grotte grandiose o i minuscoli ciottoli forati che raccoglieva lungo le spiagge della costiera rocciosa di Norfolk, la prima volta che scolpì due fori nel marmo questi riguardavano una donna, una sottile figura di adolescente. Uno dei due fori era formato dallo spazio lasciato libero dai capelli raccolti in alto in una coda di cavallo, che lasciava vedere la linea morbida della nuca e del collo, l’altro, dal braccio sinistro leggermente distante dal corpo e appoggiato su un fianco. Scolpita direttamente, senza disegni e bozzetti preparatori, in un marmo grigio con qualche sottile venatura bianca, questa scultura èvolutamente asimmetrica e sbilanciata da un lato con una spalla più sollevata dell’altra e una mano accostata ad uno dei due piccoli seni. Ha un atteggiamento raccolto, ma gli occhi che guardano lontano danno al volto l’espressione concentrata, di chi ha una meta da raggiungere e non apre nessuno spiraglio di condivisione romantica e compiacente.
A questa scultura viene riconosciuta, fra le opere di Moore, l’importanza storica di un inizio. In una foto dell’epoca è poggiata su un piedistallo ovale nello studio-abitazione di Parkhill Road a Hampstead e molti critici notarono una specie di empatia dello scultore, qualcosa come una somiglianza o forse la memoria di una piccola scultura egiziana, la statuetta di Tetisheri, anche questa molto amata. Moore l’aveva notata e studiata a lungo sin dalle sue prime visite al British Museum. Èuna piccola gemma – scriveva– ho molto ammirato come il copricapo si colleghi al corpo lasciando aperti due archi che fanno intravedere il collo delicato. La dolcezza del volto, il candore della pietra e la semplicità dell’atteggiamento, tutto concorre a dare l’idea della principessa di un racconto di fiabe.
Due archi lasciati aperti da un’elaborata acconciatura regale, o da una semplice coda di cavallo, furono per Moore il punto da dove cominciarono a prendere forma le sue intuizioni sullo spazio cavo. Si può forse dire che le intuizioni sullo spazio non erano state messe a fuoco in questo modo nella storia della scultura? Si era sempre guardato alla rappresentazione della forma piena e se nelle statue comparivano delle aperture, erano funzionali al dinamismo e allo slancio che si voleva rappresentare, non avevano quel potente intrinseco significato che lo scultore aveva intuito sin da giovanissimo.
Il lato tenero e il lato forte della sua personalità, in conflitto fra loro sin da quando li aveva scoperti dentro di sé dopo il viaggio di studio in Italia del 1925, avevano cominciato a fondersi e a produrre quei grandiosi risultati che allora non erano ancora prevedibili.
Moore scolpì molte sottili figure di adolescenti dal 1929 al 1932. Erano gli anni in cui stava accadendo qualcosa che avrebbe cambiato profondamente il corso della sua vita. Negli stessi anni altre piccole figure femminili oltre a quelle del Paleolitico superiore ebbero una lunga risonanza nella sua ricerca. Furono una presenza reale e duratura nella sua memoria fino a diventare anche le protagoniste delle prime favole che raccontava alla figlia Mary. Racconti fantastici e meravigliosi dove principesse, re e regine avevano le sembianze delle statue che Moore aveva potuto vedere nelle sale del British Museum dedicate ai Sumeri e all’Antico Egitto. Non si conoscono gli intrecci delle fiabe e non si sa come fosse Moore nel ruolo di inventore di storie per bambini, ma doveva essere coinvolgente e doveva saperle rendere più vivide e reali della realtà stessa.
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