Edito da Scienza Express nel 2019 • Pagine: 207 • Compra su Amazon
Semmelweis è passato alla storia con le stigmate dell'eroe per il suo grande contributo alla medicina moderna, un Santo che combatte fino allo stremo contro gli ottusi poteri contrari ad accogliere le sue tesi e le sue pur efficacissime misure profilattiche. Come altri eroi della scienza però, eroe lo divenne suo malgrado: si venne a trovare in una frattura della storia in cui le vecchie idee si scontrano con le nuove e i vecchi paradigmi — scientifici, politici e ideologici — cominciano a cedere. Tra i due fuochi della vecchia medicina galenica e la nuova medicina scientifica, si schiera per il nuovo: il suo operato fu la dimostrazione dei frutti che la medicina poteva ottenere abbracciando la nuova metodologia scientifica. Le sue idee furono però rifiutate; lui stesso fu rifiutato. Ma chi pagò il contributo più alto furono le migliaia di donne che, a un passo dalla possibile salvezza, furono respinte indietro dallo scontro tra un nuovo che avanzava troppo in fretta e un vecchio che non riusciva ad adeguarsi.
Colonna sonora
All’inizio di ogni capitolo del libro un brano evocativo invita a immergersi in un’atmosfera consona al testo. Sul sito dell’editore Scienza Express sono disponibili i link per l’ascolto dei brani.
Capitolo 1. Due porte che incutevano terrore
Colonna sonora: Jacques Offenbach: Les Larmes de Jacqueline, Op.76 n° 2
In questa storia c’è molta morte e c’è molto orrore.
Ma non solo.
È anche, o soprattutto, una storia fatta di dedizione, di passione, e d’amore, intrecciato al suo opposto.
È una storia di incontri, di alleanze, di scontri, in quel frangente in cui la medicina si apre alla scienza e si fa cura, e prevenzione, con la prospettiva concreta di salvare le vite, moltissime vite.
L’uomo, però, si sa, ha il brutto vizio di rendersi l’impresa più ardua di quel che potrebbe essere; e il cattivo consigliere, come suggerisce Leopardi, è l’amor proprio, e di amor proprio questa vicenda è intrisa, dolorosamente.
Vienna, 30 luglio 1865. La porta dell’Istituto si affacciava su Vicolo del Lazzaretto, Lazarettgasse, a due passi dal centro. Quella porta anonima incuteva terrore in chi vi veniva condotto per essere accompagnato all’interno del palazzo.
I residenti, ma anche i passanti meno distratti, cambiavano marciapiede per starne prudentemente alla larga.
Una porta sempre chiusa che dava su qualcosa di oscuro, di doloroso. Varcarla era come abbandonare il mondo di qua, per continuare a vivere – se di vita si può parlare – in un mondo appena discosto, eppure così lontano: un mondo di là, un limbo di orrore, di alienati e di morti viventi.
L’uomo che, sconvolto e in uno stato pietoso, stava attraversando quella soglia sostenuto dalla moglie e da un vecchio amico, il dottor Ferdinand von Hebra, aveva l’orrore dipinto sul volto. Sudava, tremava e ansimava, la bocca schiumosa e le fauci secchissime, come avesse inghiottito sabbia.
Quell’uomo stava varcando la soglia dell’inferno, e se ne rendeva conto.
La porta dell’asilo degli insani si richiuse alle sue spalle. Di lì a poco, in una colluttazione fra disperati si procurò una ferita che in breve s’infettò e l’infezione ebbe facilmente la meglio sul suo corpo indebolito.
Pochi giorni dopo, il 13 agosto, la vita di quell’uomo si spense.
Non molto distante da lì, un’altra porta incuteva pari terrore. Era la porta della Prima Clinica Ostetrica dell’Ospedale Generale di Vienna.
Lì, partorire era oltremodo rischioso.
Lì, la febbre puerperale, una grave complicanza del parto, colpiva in proporzione enormemente maggiore che in ogni altro posto si partorisse, ancor più che in mezzo alla strada o sotto a un ponte. E quando colpiva, quasi inesorabilmente quel morbo uccideva.
A Vienna ogni giovane donna ne era al corrente. Ma alle doglie non si può comandare e se il caso, o l’ora poco propizia, le conduceva a partorire nella Prima Clinica Ostetrica, di fronte alla soglia il terrore si impadroniva di loro e sul volto si dipingeva l’orrore.
Lo stesso uomo che, nel luglio 1865, stava varcando la soglia del manicomio in Lazarettgasse, molti anni prima aveva varcato quell’altra soglia, quella della Prima Clinica Ostetrica dell’Ospedale Generale di Vienna, nei panni di un giovane medico pieno d’entusiasmo, impaziente di far fiorire le proprie speranze.
La febbre puerperale sarebbe diventata il suo peggior nemico e una vera e propria ossessione. Sarebbe diventata la ragione della sua vita e, probabilmente, una concausa della sua follia.
Quell’uomo si chiamava Semmelweis: Ignác Fülöp Semmelweis, medico di origine ungherese.
Come è nata l’idea di questo libro?
La prima volta che lessi l’incredibile vicenda del Dottor Semmelweis fu circa una quarantina d’anni. L’autore che ne descriveva la vicenda con un linguaggio penetrate era nientemeno che Ferdinand Céline, che su quella vicenda aveva scritto la propria tesi di laurea in medicina. Quella storia rappresentava un esempio paradigmatico della difficoltà della medicina di farsi “scienza della cura” e testimoniava anche del fatto che le difficoltà di una scienza passano ineluttabilmente attraverso le difficoltà personali di chi è portatore di una nuova visione di quella scienza. Galileo dunque non fu l’unico interprete di tali situazioni. Dopo un’intera vita professionale passata nell’operare al confine tra la cura delle persone e l’orizzonte della ricerca, ho voluto ripercorrere la vicenda del medico ungherese alla luce delle mie esperienze, che – mai evocate direttamente – entrano nel saggio come sfondo culturale ed esperienziale.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
È stato molto difficile perché nel farlo non ho potuto non confrontarmi con un gigante della letteratura, Céline, il primo a descriverne letterariamente la vicenda scientifica e umana. Ho dovuto pertanto pormi su un registro del tutto diverso. Il mio occhio, quindi, oltre gli aspetti tecnici e scientifici, ha voluto guardare a quelli psicologici dei vari personaggi che entrano nella vicenda, a quelli storici (la vicenda si svolge a cavallo delle rivoluzioni europee del 1848), e a quelli filosofici, in modo particolare sulla questione epistemologica se Semmelweis possa dirsi oggi uno scienziato a tutto tondo, come alcuni hanno sostenuto, o se nel suo essere scienziato ci fosse qualche falla.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Oltre a Céline, testo di riferimento imprescindibile è l’opera autobiografica in cui lo stesso Semmelweis riporta l’intera vicenda, descritta ovviamente dal suo personale punto di vista: quello di un vinto. Altri punti di riferimento sono stati i non molti biografi di Semmelweis. Tra questi: Sherwin Nuland, William Sinclair, Theodore Obenchain, Robert Kertész, Codell Carter, Dario Antiseri. Poiché tutti i biografi fanno riferimento all’opera autobiografica di Semmelweis, la difficoltà è stata trovare una via originale di lettura della vicenda, accedendo agli aspetti (psicologici, storici e filosofici) poco presenti nei riferimenti sopracitati.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Milano, dove sono nato. Ho sempre vissuto in questa città anche se per lavoro (sono stato un medico ospedaliero), ho trascorso periodo a Genova, Monza, Casale Monferrato, Alessandria.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Da un paio di anni sto lavorando a un progetto sulle viaggiatrici che, dal Seicento al Novecento, hanno girato per il mondo, spesso ma non tutte in solitaria, e del mondo (e del viaggiare per il mondo) hanno dato proprie personali letture e interpretazioni. Ho selezionato una trentina di autrici i cui diari di viaggio rappresentano la materia prima della narrazione. Si tratta, in fondo, di una meta-narrazione, dove la mia narrazione serve da trait d’union delle rispettive narrazioni di viaggio. Il tutto fornisce un mosaico o una visione caleidoscopica di quello che il mondo esotico (spesso l’Oriente, ma non solo) rappresentava per le singole viaggiatrici e per l’epoca e la cultura di cui erano potatrici, spesso anche in modo critico.
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