Edito da Manni nel 2021 • Pagine: 208 • Compra su Amazon
Io, romanzo di Massimo Parizzi, sinossi
1. Il romanzo è costituito da un filo biografico: episodi, non in ordine cronologico, della vita di “lui” dall’infanzia alla vecchiaia. Per limitarsi all’infanzia e all’adolescenza, un ruolo importante, nel racconto della sua infanzia, hanno, fra altri personaggi: una bambina che abita di fronte a “lui” e che gli piace, Roberta, con cui scambia messaggi “da un lato all’altro del cortile, attraverso il cielo all’altezza del terzo piano, sopra le cime delle magnolie e delle palme”; e un sarto che abita in affitto un abbaino di proprietà di suo padre e che, al comparire nel romanzo di un giovane che in un porto del Vietnam scarica sacchi di cemento vestito di stracci, esclama: “Ma perché lavora vestito di stracci? Un po’ di dignità, che diamine! Io faccio il sarto, e posso cucirgli dei pantaloni e un camiciotto che, vedrà, di più belli e robusti non ne trova”. (Come non rispetta l’ordine cronologico, infatti, non sempre il romanzo rispetta l’unità di spazio e la verosimiglianza.) Della sua adolescenza si possono citare, fra tanti episodi: la vista a Napoli di “quel vecchio, al tavolo, i gomiti appoggiati al piano, la faccia tra le mani. Accanto una candela accesa”, che gli fa dire tra sé e sé: “Allora è tutto vero”; l’occupazione del suo liceo e altri episodi legati al Sessantotto, epoca di cui si dice: “Una dopo l’altra, tante bocche si stanno aprendo. Ed è come se fosse lo stesso fiato, passando di bocca in bocca, ad aprirle. Dove arriverà?”; ma anche l’amore, il primo, per Miriam, una compagna di scuola “lì sul cancello del liceo, con il poncho tutto colorato. La vedi? Che gesticola, che ride, i capelli neri”.
2. A questo filo biografico s’intrecciano due temi: 1. L’ossessione di “lui” di salire in alto, prima sulla “spianata del grande garage”, poi sul Duomo di Milano, da cui scende deluso perché da lì “non si vedono i nasi” della gente in piazza; 2. La sua scoperta che “tutti sono io” (da cui il titolo), fonte di «spavento, ma anche di sollievo», perché «quello che lui non può fare può farlo un altro, ed è lo stesso. È sempre io». Entrambi i temi compaiono fin dalla prima pagina del romanzo, e più esplicitamente qualche pagina dopo, quando “lui”, incontrando da bambino Roberta, le dice: “Senti, devo chiederti due cose importanti… La prima è: tu sei io?”. E poi: “Ci saliresti tu? […] Sul tetto del garage. Lassù in alto”. La scoperta che “tutti sono io”, d’altronde, è sempre legata a Roberta; avviene infatti quando lui, vedendola rientrare in casa dal balcone dopo uno dei loro scambi di messaggi a gesti, la segue e la vede con l’immaginazione “in cucina mentre apre il rubinetto, si riempie un bicchiere d’acqua e beve ad avidi sorsi. E poi seduta a tavola con i suoi genitori, e in camera sua a fare i compiti o, chissà, giocare con le bambole. E in bagno a spazzolarsi i denti, e a letto - le dà il bacio della buona notte, la mamma? - finché non chiude gli occhi e, la testa sul cuscino, i lunghi capelli sparsi che sfiorano il lenzuolo bianco, s’addormenta. E la mattina dopo, quando si sveglia ed è sempre lei. Questo, l’ha riempito di stupore: che è sempre lei. Va a dormire ed è lei, si alza il mattino ed è lei”.
3. Al filo biografico del romanzo e allo sviluppo dei suoi due temi principali sono intervallate digressioni in cui, a volte, prendono la parola una o più voci terze, come fuori campo: quando, per esempio, si racconta che attraversando il cortile della sua casa per andare a scuola a volte “lui” preferisce, invece che percorrere lo stretto marciapiede rasente ai muri, tagliare per un vialetto di ciottoli fra le aiuole, una voce gli domanda: “Perché?”. Lui risponde “boh…” e “si stringe nelle spalle”, ma subito intervengono altre voci: “Secondo me gli piace sentire i ciottoli scricchiolare. È un bel rumore”; “secondo me gli piace sentire il rumore dei suoi piedi”; “secondo me gli piace camminare dove non è previsto che si cammini”; “secondo me camminare su quei ciottoli […] gli dà di più l’impressione di camminare sulla terra”. “Spiegazioni” che innescano a loro volta altre digressioni: “Perché è bello sentire i piedi, che camminano, che corrono, che saltellano…”; “perché è bello sentire le gambe…”; “com’è grande, la terra. Ma è anche piccola: basta chinarsi per prenderne in mano un pugno…”; “e piedi la calpestano, la terra, e l’hanno calpestata, cento miliardi di piedi, dicono, finora, di uomini e donne. E altri la calpesteranno. […] La terra è l’impronta dei piedi”.
4. A punteggiare il romanzo sono inoltre sorte di “preannunci” (graficamente allineati a destra) e domande. Nelle prime pagine, per esempio, le parole “Ma la porta, io, non ce l’ho” preannunciano un episodio successivo, in cui “lui” e sua moglie vedono una vecchia la cui “voce è un filo, il corpo accartocciato per terra”, che interrompe la narrazione, in un punto in cui si parla di case e porte, esclamando “Ma la porta, io, non ce l’ho”. Quanto alle domande, sono sempre in qualche modo indotte da qualcosa che è stato detto nella parte più narrativa del romanzo e, se alcune ricevono più risposte, altre non ne ricevono nessuna: per esempio, all’episodio del vecchio a Napoli di fronte al quale, come s’è già detto, “lui” pensa che “allora è tutto vero”, segue la domanda “che cosa è vero?”, che verrà ripetuta una decina di pagine dopo e troverà una risposta dopo un’altra ventina di pagine. Un’altra domanda, “che cosa ci sarà, dopo quei campi, fra le colline, al mare, da entusiasmarsi tanto?”, viene ripetuta più volte nel corso di tutto il romanzo e riceverà una risposta indiretta dal suo epilogo.
Sono nato che in mezzo al cortile c’era un grande garage, con quattro saracinesche, due davanti e due dietro, e sopra, una per angolo, quattro grandi pigne di cemento. Fra di esse, una spianata su cui quante volte ho desiderato arrampicarmi. Ma era impossibile. Ancora adesso, tuttavia, penso irragionevolmente che su quella spianata, in alto, irraggiungibile, sotto gli occhi da tutti i balconi, sarei stato felice.
Chi parla?
Io.
E chi è io?
Che cosa c’è, in alto?
È stata, si dice, una casa popolare. Un grande rettangolo fra quattro vie, il perimetro la casa, l’interno il cortile. I lati brevi, in cui si aprono i portoni, danno da una parte su una via di scarso traffico, qualche negozio all’angolo, in fondo piccole fabbriche. Dall’altra parte il traffico è più intenso, e Roberta, prima di attraversare, si fa il segno della croce.
Chi è Roberta?
Nel cortile i portoncini delle scale aggettano su uno stretto marciapiede di cemento, e lui, per arrivare al portone sull’altra via, quella che porta a scuola, deve percorrerlo tutto, girando attorno a ogni portoncino. Ma qualche volta, all’ultimo, taglia per il vialetto diagonale fra le aiuole di palme e magnolie, e i ciottoli risuonano sotto le sue scarpe.
Ssst… è proibito. Bisogna camminare sul marciapiede. Se mi vedono…
Ma camminare sui ciottoli gli piace di più.
Perché?
«Boh…» Si stringe nelle spalle.
Secondo me gli piace sentire i ciottoli scricchiolare. È un bel rumore, quasi una musica. Criiic, creeec, croooc.
«Ma la porta, io, non ce l’ho.»
Secondo me gli piace sentire il rumore dei suoi piedi. Sul marciapiede non ne fanno quasi. Come se non ci fossero.
Perché è bello sentire i piedi, che camminano, che corrono, che saltellano sulla sabbia bollente, ahi, come scotta, per arrivare presto dov’è umida e compatta, e fresca, di quel bel grigio più scuro, e lasciarci forme profonde e nitide. Guarda. Si vedono tutte e cinque le dita. Oppure, quand’è freddo, infilarli in fretta nelle calze di lana o, ancora meglio, sotto il lenzuolo e le coperte, in fondo, e strofinarli l’uno contro l’altro, e intanto tirare su la coperta fino al mento, fino al naso e alle orecchie se fa tanto freddo. Finché si crea un bel tepore.
In treno da Nam Dinh a Hué, in Vietnam, con il giungere della sera i passeggeri si mettono sempre più in libertà, e spuntano i piedi. Tesi a invadere il corridoio centrale, premuti contro il retro degli schienali, distesi sulle gambe del vicino, allungati da dietro sui braccioli dei sedili davanti. Piedi piccoli di donne, tozzi di uomini.
Perché è bello sentire le gambe. Salendo al Pizzo Nero, non è che non facciano fatica, ma vanno, un passo dopo l’altro, vanno. Sono lunghe e forti. È il fiato, piuttosto, che a poca distanza dalla cima gli manca sempre di più. E arranca. Ansima e arranca, aggrappandosi con le mani ai cespugli, alle rocce. Mentre Bianca, guarda come s’arrampica svelta, contenta.
Chi è Bianca?
Finché, finalmente, in alto ci arriva. Ma non c’è nessun balcone da cui qualcuno possa vederlo.
Ma perché vuole essere visto da tutti i balconi?
Tutto è più in basso di lui, il sentiero da cui sono saliti e, sull’altro versante, quello da cui scenderanno, fra malghe abbandonate dai tetti sfondati, boschi, sassaie, stagni. In alto, sopra la valle da cui sono partiti, vi sono soltanto nuvole nere che s’avvicinano. Via! Andiamocene! Ed è bello di nuovo, sentire le gambe scendere a lunghe falcate, quasi correre, tanto che deve trattenerle per non perdere l’equilibrio e ruzzolare fra i sassi e l’erba. Ma sono appena partiti che ecco spuntare da una svolta un uomo e una donna. Stanno salendo. «Buongiorno.» Non è neanche irraggiungibile.
Ma perché vuole essere irraggiungibile?
Non lo so.
Alle malghe, però, Bianca vuole fermarsi. «Non sono arrivata fin qui per tornare a casa di corsa. Voglio godermelo, questo paesaggio.» «Ma rischiamo di prenderci il temporale, non vedi…» Niente da fare. Non sente ragioni.
Chi è Bianca?
È sua moglie.
Rachele ed Edoardo scendono appena prima che inizi a piovere. Loro due, invece, si rifugiano in una malga, il pavimento ricoperto di uno spesso strato di escrementi di capre e pecore, i muri per metà crollati, nel tetto un ampio squarcio. Ma, stando in un angolo, riescono quasi a non bagnarsi, e vedere i fulmini cadere e la pioggia che scroscia, ormai è un diluvio, e si trasforma in grandine, che ticchetta sulle poche tegole del tetto, sempre più intensa, tac tac tac tac tac. Come rimbalza sui sassi!
«E la voce più chiara non è più / che un trepestio di pioggia…»
Qualche volta gli sembra vero. Che sia quella della pioggia, la voce più chiara. E allora si intima: «Non dimenticarlo». Perché è la voce delle nuvole, «le nuvole che passano… laggiù!… laggiù!…»? Sì, la voce delle nuvole che dal cielo scende qui, sulla terra, per salire di nuovo in cielo, come per dire: seguimi; vieni anche tu, lassù, e poi scendi, e poi risali, e poi scendi di nuovo. Perché, come me, anche tu sei un po’ di qui e un po’ di là. E perché così bisogna fare.
Qualche volta gli sembra vero, e che la chiarezza di quella voce sia un bel regalo – grazie, grazie – che presto, lo sa, lui perderà. Allora ne sentirà di nuovo il desiderio e, se lo riceverà di nuovo, di nuovo lo perderà, e di nuovo, e di nuovo. Così dev’essere. Ma gli dispiace, che sia la voce della pioggia la più chiara, non quella delle bocche.
Scendono che il sole sta calando, il sentiero è un torrente e gli scarponi affondano nel fango. «Che cos’è questo schifo?» dice Bianca.
Che sono io.
Un altro io?
Come è nata l’idea di questo libro?
Avevo chiuso la rivista che avevo fondato e diretto per 12 anni e sentivo il bisogno di un progetto, qualcosa di più di un intervento su questa o quella rivista. Mi sembrava di avere da dire qualcosa che poteva interessare anche gli altri. Una sensazione vaga. Mi sono messo a scrivere dei frammenti in terza persona. Poco a poco le idee mi si sono chiarite: su quello che mi sembrava di avere da dire e su come volevo dirlo. Finché, come credo succeda quasi sempre, quello che avevo già scritto ha iniziamo a “dettarmi” quello che dovevo ancora scrivere. Alla fine mi è parso che il materiale accumulato soddisfacesse la “presunzione” iniziale di avere qualcosa da dire. Insomma, che quello che avevo da dire l’avessi detto. E così, quel materiale l’ho montato cercando uno “scheletro” che corrispondesse alla struttura narrativa che volevo. Trovato questo scheletro, ho potuto poi arricchirlo con tante pagine che avevo in precedenza messo da parte.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
È stato molto, molto difficile portarlo a termine. Per parecchio tempo non ho saputo se ci sarei riuscito. L’ho saputo soltanto quando ho terminato la “prima” versione, lo scheletro di cui dicevo prima, che ho fatto leggere ad alcuni amici.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Gli scrittori contemporanei italiani che più amo sono Marosia Castaldi e Velio Abati. Ma, nello scrivere il romanzo, ho pensato spesso anche alle prime pagine di Čevengur di Andrej Platonov, per come combinano realismo e inverosimiglianza.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Milano e, in passato, ho vissuto a Reggio Emilia, nell’entroterra di Finale Ligure e a Roma.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
I miei progetti per il futuro? Sto scrivendo un altro romanzo.
Lascia un commento