Edito da Kimerik nel Maggio 2018 • Pagine: 118 • Compra su Amazon
Se non ci conosciamo, probabilmente è meglio così: leggerete il libro senza condizionamenti. Se invece ci conosciamo, se da qualche parte per qualche tempo le nostre vite si sono intrecciate, vi consiglio di dimenticare tutto quello che sapete di me.
“Fuoco cammina con me”.
Stamattina mi sono svegliato con questa frase in testa.
Dalla serie Twin Peaks degli anni Ottanta, da quando l’ho sentita per la prima volta, mi è rimasta marchiata “a fuoco” nella mente. È davvero strano come funziona la memoria: ci sono cose che non scorderai mai, anche se le consideri secondarie e di poco conto e altre cose che reputi importanti e invece le perderai in un battito di ciglia.
Ma forse non dovrei distrarmi troppo perché sto andando a lavoro.
Forse sarà il giorno lunedì 17, già tragico perché è un lunedì – tipico giorno antipatico – sommato al numero 17. In realtà io non odio il lunedì. È il giorno in cui è nata mia fi glia Serena, qualcosa vorrà pur dire. E nemmeno il numero 17. Se devo essere sincero mi sta più antipatico il 13, ma così, senza motivo apparente.
E allora perché quella frase?
E proprio mentre sto guidando verso un’altra giornata lavorativa come tante altre. Finché non avrò estinto il mutuo. O mi sarò estinto io.
Di sicuro non mi mancherà il mio lavoro: laureato in ingegneria informatica, un delirio di programmi e circuiti integrati. Hardware, software, modelli matematici e matrici varie. Ecco, molte cose che ho studiato all’università le ho dimenticate, ma quella frase ascoltata da bambino me la ricorderò finché campo.
Dimenticherei volentieri anche il mio ambiente lavorativo.
I miei colleghi sono dei tipi giocherelloni e pettegoli, non vanno molto d’accordo con un tipo come me, introverso e che dà poca confidenza a chiunque. Non è perché loro non sono laureati e solo io e il mio capo lo siamo. È perché è così che mi comporto con chiunque.
Ovviamente loro pensano che sia perché “mi ritenga superiore” e sicuramente mi ritengono anche un “figlio di papà”. Ma non c’è modo di farglielo capire e divento sempre preda dei loro stupidi scherzi. E io devo stare agli scherzi, altrimenti il buono e paziente Isacco diventa noioso, antipatico e permaloso. Pensa al quieto vivere dice mia moglie Sara e così si va avanti.
Anzi: frena! urla il mio cervello.
Un signore con la bombetta, quell’elegante cappello a cupola, vestito in smoking mi si è letteralmente buttato sotto la macchina.
«Ma che ti è preso?!» gli urlò dal finestrino. Tanto per non smentire il mio lato antipatico e attaccabrighe.
E certo non paziente. Prendo fuoco subito. Fuoco cammina con me, per l’appunto.
Il signore con la bombetta invece è calmo e paziente, mi sorride e finisce di attraversare la strada come se niente fosse. Lo fa anche lentamente e nemmeno ci sono le strisce a terra. Ma devo sopportare, mica posso fare sempre l’antipatico. Mi defi nisco diversamente simpatico.
In effetti ho un decifi t di simpatia.
Nella sua bontà termina di attraversare la strada raggiungendo il marciapiede e immancabilmente la macchina dietro mi suona il clacson.
Gli tiro un occhiataccia dallo specchietto retrovisore e riparto, salutando con la mano l’uomo con la bombetta, anche se in realtà non lo guardo nemmeno.
Mi sembra che ricambia e sorrida anche lui. Almeno uno tra noi non è già nervoso di prima mattina, anche se io non ho cercato di uccidermi.
Il lunedì 17 ha già contagiato negativamente il mio umore, ma arrivo comunque allo “Sky Center” il palazzo di sei piani dove lavoro da cinque anni. Praticamente una vita, dato ciò che ho dovuto sopportare. La mia ditta, la “Genesis Software & Hardware srl” non è la sola presente. Ma le aziende che si trovano lì hanno deciso di chiamare il palazzo in quel modo, perché l’inglese fa molto più chic. “Centro del Cielo” non avrebbe avuto lo stesso appeal.
Stamattina proprio non ho voglia di entrare. Ma mi ricordo degli altri 25 anni di mutuo e allora mi rassegno e varco la soglia.
«Buongiorno ing. Tarocchi» mi dice il portiere del palazzo.
«Buongiorno sig. Fernando». Non aggiungo altro, ho già perso troppo tempo e troppa voglia di lavorare con il tizio che avevo quasi messo sotto con la macchina.
«Prego, passi dal metal detector» continua lui sorprendendomi.
Mi sembra di vedere un lieve sorriso sulle sue labbra. Ma forse mi sbaglio. Forse sto diventando paranoico. Anzi, mi ci fanno diventare.
«Non ne vedo il motivo. Sono cinque anni che ci conosciamo, mica da ieri. E poi non è una pratica obbligatoria solo per i visitatori?».
«È vero, ma come lei ben sa nel palazzo ci sono altre strutture e con tutto quello che si sente in giro è meglio star cauti. Così hanno deciso. Avrà sentito sicuramente di quel ragazzino in America che ha dato di matto e ha fatto fuori mezza classe, compresi i professori» continua lui sicuro.
«Posso capirlo» faccio eco io.
«Come prego?» dice lui ritraendosi un attimo.
Mi rendo conto d’averlo spaventato.
In effetti ero stato un po’ ambiguo, più o meno volutamente.
Ero convinto che mi stesse tirando un brutto scherzo e allora volevo giocare un po’ anch’io.
«Intendevo che posso capire che abbiano preso questa decisione, ma è comunque eccessiva. Non si può stare dietro a tutto quello che si sente nel mondo, altrimenti faremmo prima a non uscire più di casa. E a chiuderci bene dentro, sempre che non ci crolli addosso».
«Lo capisco, ma queste sono le nuove disposizioni. Suvvia, passi e non ne parliamo più. A quest’ora avremmo già fatto» mi disse lui.
Non ero convinto, ma decisi di passare. Forse davvero l’avremmo conclusa così. Lascio la mia valigetta e passo. Il metal detector emette il suo beep.
«Non ci posso credere» dico io, anche se in realtà non posso dire di essere veramente sorpreso.
«Provi senza chiavi e senza portafoglio» mi suggerisce Fernando.
«Sono nella valigetta».
«Allora provi senza cintura».
Mi vergogno un po’, ma me la tolgo. Se mi dovessero cadere i pantaloni mi prenderebbero in giro a vita.
Tanto varrebbe cambiare lavoro.
Ripasso, ma il metal detector suona ancora.
Mi sto inalberando, il fuoco inizia a divampare.
«Non è che ha davvero una pistola con sé?» mi chiede Fernando praticamente ridendo.
«Certo, nelle mutande! Vuole controllare? Mi vuole anche perquisire?» ero partito per la tangente.
Nel momento sbagliato perché ecco che arriva il dottor Claudio Frischi, il mio capo.
«Ma che sta dicendo ingegnere? Ma che sta succedendo
qui?».
Sono letteralmente basito. Non ho parole che mi escano dalla bocca, ma il silenzio viene rotto dalle risate proveniente dal laboratorio. I miei colleghi si stavano divertendo a quanto pare. Alle mie spalle, come sempre.
«Ma niente dottor Frischi. Stavamo solo facendo uno scherzo innocente all’ing. Tarocchi, ma ci deve essere sfuggito di mano. Il portiere doveva azionare il metal detector al suo passaggio, per fargli credere di avere qualcosa di metallo addosso. Lo volevamo mettere un po’ in imbarazzo, niente di più» disse il signor Mauro Trinci, praticamente il mio acerrimo nemico. La mia nemesi.
Se io sono il buono, lui è il cattivo. Ci stiamo cordialmente sulle scatole, tutti lo sanno e tutti parteggiano per lui. Forse è lui il buono allora.
«Suvvia ingegnere, il sig. Trinci si è preso le proprie responsabilità. Si è trattato solo di uno scherzo innocente. Anche lei si prenda le sue ed entriamo. C’è molto da fare» concluse il dottor Frischi superandomi e incamminandosi verso i suoi uffici.
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