Edito da Bookabook nel 2019 • Pagine: 189 • Compra su Amazon
L’isola di Ventotene all’orizzonte, battuta dal vento e dalla salsedine che allontanano il passato. La Val Grande sullo sfondo, isola di verde e di partigiani, che accoglie tanti di coloro che fuggono. In mezzo Milano, città cosmopolita dalle mille possibilità ma anche dalle mille insidie.
Questi paesaggi ospitano la storia di Michele e Tullio, che si ritrovano uniti in una battaglia contro la costruzione di un’autostrada nel Parco Nazionale della Val Grande, che si trasforma presto in un viaggio alla scoperta di se stessi, dei legami familiari e della propria isola.
Finalmente ci fermammo, dopo due ore di camminata senza sosta in salita. Devo dire che lo
spettacolo era impressionante. Ci trovavamo su una grande pietra semicircolare di granito
protesa verso il vuoto. Sotto di noi un mare verde fatto dalle chiome di milioni di alberi, davanti i laghi azzurri e, più in là ancora, la vista spaziava sino a intravvedere la metropoli. Ero incantato . Sporgendosi con attenzione dal bordo di questo masso molte centinaia di metri sotto si notava il rio che divideva come una mela la selva uniforme. Sul versante opposto, delle baite diroccate e del verde un più chiaro a testimoniare la presenza di un antico pascolo.
Sveva mi distolse dal mio rapimento e mi fece notare dei segni sulla roccia su cui poggiavo gli scarponi. Mi raccontò che fosse delle coppelle di origine ignota, fatte probabilmente in antichità, e che ci trovassimo sopra a quello che doveva essere un altare propiziatorio per sacrifici, forse umani, chissà. L’immagine fece svanire un po’ la poesia, ne approfittai per sapere qualcosa di più di Tullio: «Ma tu come fai a conoscere Tullio?».
Alla mia domanda mi guardò fissa negli occhi per un attimo con le sue iridi verdi, come se
stesse valutando che tipo di risposta darmi.
«Senti, io non so tu chi sia e perché Tullio voglia vederti, ma sappi che Tullio è una persona
eccezionale e tutti qui lo stimiamo e, nel caso, lo proteggiamo. Non so se sono stata chiara.»
Così dicendo girò repentinamente il volto verso la valle di fronte a noi frustando l’aria con i capelli stretti a coda.
Cercai di deglutire il pomo d’Adamo, non mi ero mai sentito fuori posto più di allora. Mi trovavo in una situazione pazzesca, e ora venivo vissuto anche come un pericolo e minacciato neanche tanto velatamente.
Sveva aggiunse solo: «Andiamo».
Ricominciammo a salire. Dopo altre due ore eravamo giunti in cima a una cresta, la faggeta
l’avevamo abbandonata da un pezzo e ora eravamo completamente esposti. Sveva mi annunciò
che eravamo sotto Punta Sasso e che ora iniziava il tratto più difficile, dovevamo attraversare le Strette del Casè e avrei dovuto seguirla passo a passo con attenzione. Furono le uniche parole che disse due ore. Cominciavo a sentire la fatica, lo zaino pesava e non c’era più neppure il sentiero. Faceva un caldo pazzesco e l’acqua della borraccia era finita. Ogni passo era una fatica improba e mi ci voleva un bello sforzo di volontà per non fermarmi, avevo paura potessero venirmi i crampi alle gambe. A ogni passo in salita mi scendeva una goccia di sudore dal naso, che cadeva sulla roccia davanti al mio piede lasciando una piccola macchia umida.
Il mio ritmo nella salita rallentava, ormai respiravo con la bocca spalancata e una smorfia del viso accompagnava il dolore che sentivo. Sveva doveva ormai fermarsi sempre più di frequente per aspettarmi, ero sfinito.
Improvvisamente inciampai, persi l’equilibrio e rotolai sul pendio fermandomi contro una
roccia una decina di metri sotto. Sveva, che si trovava sempre davanti a me, fu costretta a
scendere per verificare che non mi fossi fatto male, e per fortuna appurammo soltanto qualche graffio. Guardando lo strapiombo, se avessi preso velocità, non so come sarebbe finita. Mi sedetti, allentai i legacci dello zaino. Il mio cuore galoppava all’impazzata per la fatica e ancor di più per lo spavento. Lo sentivo rimbombare nelle orecchie, tanto che non afferrai subito quanto mi stava dicendo Sveva : «Michele, questo, te l’ho detto è il pezzo più difficile, qui in Val Grande i sentieri non sono segnati, se non i principali. Per attraversare questa cresta bisogna riuscire a prendere i passaggi, qui li chiamano camini, per il verso giusto altrimenti non si passa.
Facciamo così, tu fermati qua, io vado avanti a cercare l’entrata per il passaggio, quando l’ho trovato ti faccio un fischio e mi raggiungi». Non avevo nemmeno la forza di rispondere, avevo il fiatone ed ero terrorizzato, per cui restai immobile.
Dopo poco sentii che ricominciavo a essere padrone delle mie reazioni. Mi asciugai il sudore e mi guardai in giro. Mi sentivo un’aquila. Silenzio assoluto, solo la brezza che mi muoveva i capelli emetteva un sussurro sommesso, ma ero così incantato dalla situazione che non ci facevo molto caso. Mi alzai e girai lo sguardo da destra, dove vedevo la testata della valle, a sinistra lungo il declivio che correva ai miei piedi e alla parete opposta che si alzava sino a giungere a circa la stessa altitudine in cui mi trovavo. Attorno non vi erano alberi, solo arbusti e rocce. Sul fondo della valle si vedeva un grande gruppo di baite, quasi un paesino, in un pianoro al limitare del torrente. Mi dissi che forse sarei potuto scendere e arrivare a quelle baite, da lì sicuramente ci sarebbe stato un sentiero che riportava a Cicogna.
Stavo giusto calcolando il dislivello – a occhio e croce saranno stati almeno cinquecento metri di quota e farlo senza sentiero mi sembrava un azzardo, ma d’altra parte continuare a salire era ormai un supplizio – quando sentii un fischio prolungato e due brevi a seguire, la vidi comparire là in alto sopra le rocce di quella che sembrava la cresta e farmi segno di salire in verticale lungo la pietraia. Cercai di attaccarmi agli arbusti per aiutarmi nel salire e, dalla vegetazione che osservavo, dovevamo essere non molto alti, sui 2000 metri, perché gli alberi finivano poco sotto di noi.
Arrivammo finalmente a questo benedetto passaggio, dove c’era anche qualche catena che per
fortuna aiutava. Sveva, presa forse da pietà ma probabilmente dalla paura che mi piantassi e non andassi più avanti, si caricò sulle spalle anche il mio zaino. Ero così esausto che non riuscivo neppure a vergognarmi che una mia coetanea mi trattasse in quel modo. Alla fine, dopo un’infinità di sali e scendi, di arrampicate in qualche punto anche con l’aiuto della corda che scoprii poi essere in uno dei due zaini, attraversammo quelle maledette Strette del Casè. Ormai era tardo pomeriggio quando iniziammo una leggera discesa, che ci stava portando a una piccola costruzione in lontananza posizionata in un posto veramente singolare. In una sella enorme, una specie di amaca d’erba per giganti posizionata tra due montagne e proprio nel mezzo dove la sella raggiungeva la massima concavità, era posizionata questa piccola casetta su due piani. Sembrava il paese delle fiabe.
«Siamo arrivati, questa notte dormiremo lì,» fece indicando la costruzione «c’è anche la stufa e possiamo farci qualche cosa di caldo.»
Ormai non ero più in grado di rispondere; erano più di dodici ore che stavo camminando e
appena arrivato davanti alla piccola costruzione iniziai a vomitare, in realtà nulla, perché non avevo niente nello stomaco se non un po’ di bava, e mi buttai per terra sfinito con le gambe in preda ai crampi. Sveva mi trascinò dentro di peso e mi sdraiai su una panca cercando di riprendermi. Dopo un po’, quando finalmente i conati erano cessati, Sveva mi disse sorridendo, ma questa volta seppur canzonandomi mi sembrò meno arcigna: «“Faccio un po’ di palestra”… ma va là. Come mi diceva mio padre “devi così mangiarne di polenta”».
Sveva si adoperò nell’accensione della stufa a legna, mise a bollire un pentolino per un tè caldo e, mentre la osservavo ancora sdraiato sulla panca , si voltò verso di me: «Ripeto, io non so cosa fai qua, a me è stato chiesto di portarti da Tullio, ma ti ripeto Tullio è una persona eccezionale.
Lui vive dentro tutto l’anno ed è l’unico che lo fa, ogni tanto gli diamo una mano, soprattutto d’inverno quando la neve passa i due metri. Ora è a Vald dove siamo diretti, si è sistemato una vecchia baita, ma non è sempre lì, anzi, lui gira tutta la valle e alle volte scende da noi in paese».
Dopo una breve pausa: «Comunque domani il tragitto sarà più leggero, è quasi tutto in discesa e partendo presto possiamo essere da Tullio per pranzo. Speriamo che non sia in giro, ma ci vedrà sicuramente prima lui».
In effetti la giornata successiva fu molto meno stancante, eccezione fatta per le mie gambe,
ormai due pezzi di legno, che non riuscivano neppure a fare le scale per scendere dal piano di
sopra dove avevamo dormito sull’assito.
La sorpresa furono i due camosci che mi aspettavano appena fuori dall’uscio al mattino all’alba
e la vista incredibile su tutto quel verde. Di fronte avevo il Pedum, quella che Sveva mi aveva spiegato essere la montagna sacra della valle. Un cono tronco di roccia granitica isolato in mezzo alla natura primordiale. Le pareti di calcare bianco, la vegetazione che si insinua nelle rughe verticali e un pianoro in cima, che sembra messo lì apposta, invitante. Un balcone sul paradiso, mi ricordava fotografie amazzoniche, ero senza parole. Quella valle sembrava atterrata da un altro continente tanto era straniante non vedere opera umana ma solo alberi, un mare di roccia e alberi compatti.
Dopo aver camminato almeno quattro ore iniziammo una salita lungo una traccia abbastanza
regolare da cui, in cima ai tornanti, si vedeva una grossa baita, l’unica con il tetto in ordine. Era il punto dove eravamo diretti, mi disse Sveva. Mi colpì, oltre alla luce di quel posto che rendeva i colori saturi – il blu del cielo, il verde scuro dei boschi, quello chiaro del prato e il grigio del granito – la presenza tutt’attorno di innumerevoli sculture in legno dal colore aranciato tipico, poi scoprii, del larice del posto.
Arrivati poco sotto ecco comparire Tullio, inconfondibile con la candida chioma di capelli liberi al vento, sembrava Babbo Natale, solo che era alto, magro , seminudo e a piedi scalzi.
«Ueeee ben arrivati, che sorpresa!» gridò con la sua classica cadenza napoletana. Prima baciò Sveva sulle guance e poi, guardandomi fisso negli occhi, cercò di stritolarmi in un abbraccio festoso, Arrivavo giusto alle spalle del mio fratellastro, per cui il mio viso si trovò praticamente sotto l’ascella, e non fu un bel momento.
«Entrate, entrate, stavo giusto facendo bollire l’acqua, accomodatevi sedetevi dove volete.»
Era una baita molto spaziosa anche se estremamente spartana, costituita di un solo grande
locale. A un’estremità era piazzata un’amaca dove immagino dormisse e al centro un grande
tavolo con la stufa di ghisa. Il pavimento era forse di terra, ma non si capiva, perché era
completamente ricoperto di un tappeto grigio di gusci di semi di girasole. Probabilmente era una mania, forse esisterà anche una patologia, pensavo tra me e me, del mangiatore di semi compulsivo, e il tutto mi faceva anche un po’ impressione.
«Ue, che bello avervi qua tutt’eddue. Come stai Sveva, ti vedo in forma, bella come sempre, mi raccomando, poi te lo dirò ancora, prima che mi scordi salutami tuo padre, mi raccomando che ci tengo troppo .»
«Certo che te lo saluto, in questi giorni è via, ma appena torna mi chiederà come ti ho trovato, come stai, cosa hai detto, sai com’è.»
«E invece tu Michele? Ti vedo un po’ sbattuto, ti ha fatto camminare questa guagliona eh, ma ti aspettavo.»
«Spiegami meglio perché mi aspettavi, visto che qui sembra che tutti sappiano quello che farò
tranne il sottoscritto» dissi un po’ piccato.
«Perché non ci siamo lasciati molto bene giù a Milano, mi sembra, e perché sei un ragazzo
intelligente.»
«Ti sbagli di grosso, non sono venuto per quello,» dissi con foga e guardandolo fisso in faccia
con rabbia «meglio che ci chiariamo subito : c’entri qualche cosa tu o i tuoi amici con l’incendio
che c’è stato alla radio? Sai, da quando sei comparso stanno succedendo un sacco di cose strane e il comune denominatore mi sembri proprio tu.»
Rimase zitto per un attimo e poi disse sottovoce come se parlasse tra sé e sé: «Si stanno
muovendo». Poi voltandosi repentinamente verso Sveva aggiunse: «Vi ha seguiti qualcuno?».
«No, me ne sarei accorta, il sentiero in cresta è tutto visibile e facilmente controllabile. Non c’era nessuno dietro di noi.»
«Sì, in effetti il percorso che avete fatto è facilmente controllabile» confermò con il chiaro intento di rassicurarsi.
«Scusate potete spiegare anche a questo povero pirla cosa sta succedendo? Chi dovrebbe
seguirci, e perché?» dissi ancora con foga, visto che non mi aveva degnato neppure di una
risposta.
Tullio, con tono calmo a smorzare i miei ardori: «Michele, hai presente cosa è successo il Val di Susa con la TAV? Pensi che tutti i casini, gli scontri siano state cose spontanee? Solo voi di quella radio di smidollati di cui fai parte potete crederci. Genova a voi non ha insegnato niente».
Poi riprese: «Il materiale che vi ho fatto avere è solo una parte di quello che ho avuto. La parte più interessante sono proprio i piani dei servizi per infiltrare gli agitatori nel caso ci fosse un’opposizione popolare alla costruzione dell’autostrada. Se ci pensi è semplice e vecchio come il mondo: loro governano le guardie, basta vestirne qualcuna di stracci e dagli in mano una molotov per avere la scusa di fare un po’ di pulizia. A Genova erano ancora inesperti, si sono fatti beccare anche mentre mettevano le molotov, ma poi si sono perfezionati, ora hanno piani particolareggiati e non sono ricorrono più a guardie arruolate… come dire, sono degli irregolari che lavorano per le guardie per fare il mestiere sporco, così loro ne escono in ogni caso puliti».
Ero allibito, sembrava il copione di un film e anche difficile da credere. «Scusa Tullio, ma tu queste informazioni da dove le avresti avute,» girai lo sguardo attorno per dare più enfasi alle mie parole «tra queste montagne?»
«Hai ragione Michele, fai bene a dubitare, è un tuo diritto, ma è meglio che queste cose tu non le sappia. Se non sai le cose non possono estorcertele, ed è meglio per te e per tutti.»
Ovviamente la frase non mi tranquillizzava per nulla. Sveva colse l’occasione per uscire,
probabilmente pensando fosse meglio che restassimo da soli.
«Ho chiesto al padre di Sveva, ma non poteva e quindi l’ha fatto lei, ma è una brava guagliona, sa
il fatto suo. Mi auguro che averti fatto attraversare la Val Grande ti abbia fatto capire di cosa
parliamo. Immagina che qua dentro, in questo paradiso in terra, entrassero con i bulldozer per
costruire piloni e gallerie, sarebbe un disastro, sarebbe la fine di tutto. Questi sono dei
criminali, non gli interessa nulla. Pur di far soldi ammazzerebbero la loro madre, figurati
bruciare la vostra radio.
«A proposito, Giulia come l’ha presa?» era saltato da un tema all’altro così, all’improvviso, e mi aveva sorpreso, per cui ci misi un attimo a rispondere, sentirla chiamare per nome da mio fratello mi faceva comunque un certo effetto.
«Come vuoi che l’abbia presa lei,» dissi infervorandomi «come l’ho presa io, vorrai dire!In tutta questa storia quello che non sapeva proprio nulla ero io.»
Tullio riprese: «Noi non ci conosciamo, non sappiamo nemmeno se ci staremo simpatici o
antipatici, ma in questa storia oltre a noi c’è coinvolta un sacco di gente e un sacco di miliardi di euro. Per cui sarà una brutta storia se non stiamo più che attenti».
«Va be’, ma tu che vuoi da me, anzi, da noi della radio, visto che al momento ci hai procurato solo un bel casino, ammesso e non concesso che con l’incendio non c’entri nulla.»
«Per quanto riguarda l’incendio e per tutti i fastidi che avrete, mi dispiace, ma, io… anzi noi, vorremmo che appoggiaste un movimento di resistenza al progetto dell’autostrada.» E aggiunse: «Anzi, in realtà va proprio creato. Quando dico noi, parlo degli abitanti qui della valle, e siamo forse un centinaio di persone. Niente, capisci, ci spazzerebbero via come i gusci dei semi di girasole». E così dicendo soffiò via una manciata di semi che teneva in mano sul pavimento. Avrei voluto chiedergli di ’sta mania, ma non era il caso in quel momento.
Riprese: «Un’altra cosa, molto importante» fece una pausa a effetto per mettere in risalto
quanto stava dicendo «della documentazione che ho, diciamo, reperito, vi è una seconda parte che non vi ho mandato in cui sono precisate le tecniche di cui ti dicevo prima, rispetto ai provocatori, come usarle, quando, in quali circostanze, insomma una specie di manuale. Ora, io questa parte al momento me la tengo ben stretta, perché è la nostra assicurazione sulla vita, mi spiego?»
Cominciavo a capire, ma Tullio riprese subito: «Quelli non sono scemi, sanno che se sono usciti quei documenti e solo quelli, ma sanno che potrebbe voler dire che ci sono in giro anche quelli di cui ti sto parlando. Ovvio loro non hanno la certezza, ma non possono certo rischiare. Già questo giochetto gli farà ritardare tutta l’operazione, perché dovranno giustificarsi e via dicendo. Ma quando il clamore si sarà quietato quelli saranno pronti, ma con questi documenti noi li teniamo in pugno. Ti ripeto, non sono scemi, per cui cercheranno in tutti modi di sapere se ci sono e dove sono questi documenti. Ora, dal momento che ti dico queste cose, so che ti metto nei casini e decido di fidarmi, ma io ti chiedo un patto: noi presidiamo la valle e li aspettiamo, perché arriveranno, arriveranno, se non sono già arrivati, tu e la radio fate la gran cassa. A te deve bastare sapere che questi documenti ci sono e, se non saremo costretti a rivelarli, li terremo come arma, in qualche modo di ricatto, e staremo a vedere».
Stavo riflettendo, e poi dissi: «Da quel che dici il gioco sembra parecchio pericoloso».
«In questo patto, diciamo così, voi avrete l’esclusiva sulla copertura della notizia,» disse ridendo «e mi sembra che gli amici l’abbiano già capito. Come vedi, questi non scherzano se vi hanno dato fuoco anzi, fuochino. È chiaramente un avvertimento: state giocando con il fuoco e rischiate di bruciarvi. Ora dipende da voi, ho cercato anche di provocarvi con quello che vi ho mandato l’altra settimana, ma alcune delle cose che vi ho scritto sono vere: alle volte mi sembra che voi viviate sulla luna, che non vi accorgiate di quello che sta succedendo in questo Paese. Io ne ho viste tante, forse troppe.» Calando di tono disse: «Per questo sono venuto qua, un posto fuori dal mondo, dove poter fare la vita che in quel momento volevo, senza dovermi piegare a regole assurde, vivendo di ciò che riesco a produrre e di baratto. Ma ora, ancora una volta, tutto questo è a rischio».
«Maledetti, che siate maledetti» aggiunse sottovoce dopo un attimo di silenzio.
Sentimmo un colpo di tosse, Sveva era sulla porta: «Sono arrivati. Ma al momento stanno
cercando al buio».
Non capivo cosa stesse dicendo, mentre Tullio parve capire il codice nascosto in quelle parole.
«Dove sono?»
«Uno solo, con la tenda a Pian di Boit. Probabilmente ha seguito Michele, perché si è presentato al circolo ieri mattina. Ma mi ha detto mio padre, che ho sentito salendo al Passo della Cavalla dove prende il cellulare, che è stato visto questo tipo mentre parlava con un telefonino giù a Pian di Boit.»
«Lì a fondo valle non c’è campo, per cui aveva certamente un satellitare» concluse Tullio.
Sveva aggiunse: «Sì, ma se si è piazzato lì vuol dire che non sa che pesci pigliare, mi han detto che lo terranno sotto controllo e ci faranno sapere».
«Per il ritorno uscite dalla Val Loana, è più vicino da qui, in mezza giornata siete a Fondi di Ghebi, da lì potete chiedere un passaggio sino a Malesco e da lì in treno, così non correte neanche il rischio di incontrarlo.»
«Sì, ci avevo già pensato. La macchina, Michele, la troverai nel parcheggio della stazione di Domodossola, per le chiavi chiedi alla barista che è mia amica, da lì potrai tornare direttamente a Milano, io poi mi arrangio.»
Come è nata l’idea di questo libro?
Più che l’idea è stata l’occasione. Un’improvvisa malattia mi ha obbligato a stare fermo per un po’ di tempo , mi ha condotto a scrivere sull’isola di Ventotene. Trovarsi da solo a settembre quando i turisti languono è stata l’occasione ideale per riflettere e scrivere. Il romanzo tratta di isole . Isole reali come appunto Ventotene e Isole metaforiche come la Val Grande. Il comune passato di resistenza al fascismo e la lontananza dalle metropoli mi ha intrigato.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
In realtà non è stato difficile tornato da Ventotene dove in una settimana avevo scritto un 20 % del romanzo, l’ho concluso in prima stesura prima di Natale. E’ in qualche modo sgorgato spontaneamente e non era stato pianificato in precedenza. L’intreccio si è man mano strutturato e le sotto-trame hanno preso vita durante la scrittura. E’ stato divertente e anche entusiasmante vederlo crescere.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Per quanto riguarda i romanzi : Veronesi per la nota di umorismo, De Giovanni per la capacità di intreccio e sviluppo della trama, la Murgia per l’invidia benevola che mi provoca la sua competenza letteraria, la Vinci per la profondità dei suoi temi.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo in riva al Ticino nel parco naturale in una casa del ‘400 a 4 km dal paese ormai da 25 anni. In precedenza nell’hinterland milanese, dove sono costretto a recarmi per lavoro tutti i giorni. Per fortuna faccio un lavoro che mi piace e che fornisce spunti anche per i romanzi.
Dal punto di vista letterario, quali sono i vostri progetti per il futuro?
Incerti. Questa è la mia prima opera letteraria e non è arrivata in gioventù. Al momento tante idee e spunti ma ancora manca la spinta per cimentarmi in un nuovo romanzo. Prima o poi arriverà.
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