
Edito da Giuseppe Meligrana nel 2018 • Pagine: 310 • Compra su Amazon
Il romanzo è ispirato ad un terribile fatto di cronaca nera accaduto in un paesino della Liguria nel 1991. È la storia del contadino Salvatore, condannato all'ergastolo per la strage di un'intera famiglia. È pure la storia del professor Luca che trascorre l'estate in quel borgo sulla collina, passando intere giornate in un torrente a pescare strani pesci.
In quel girovagare, dentro la pancia della collina, Luca immagina quel fatto di sangue e celebra le storie di quella tragedia raccontata dai contadini del borgo, anche per via di quella casa disabitata da tempo che è diventata la Casa dei morti.
Quelle storie s'intrecciano con le storie di Luca, con i ricordi che lo tormentano sotto forma di pesci bambini. Lui, ateo e comunista, girovagando per la collina, crede di aver trovato Dio nel canneto che nasconde la pozza d'acqua con i pesci che il protagonista chiama con i nomi dei suoi compagni degli anni '50, '60 e '70.
Luca s'interroga sulla natura umana traviata dal male e cerca nella sua memoria le ragioni e la possibile cura al demone che sta distruggendo la bella collina.

1
La collina di Canun
L’odore della morte aveva avvolto Canun in una morsa spietata.
Canun è un piccolissimo borgo dell’entroterra ligure con meno di dieci vecchie case, costruite agli inizi del Novecento.
È un’appendice di un più antico borgo delle Alpi della Liguria, incuneato tra la valle del Maremola e la valle dello Scarincio, composto da tre contrade: San Michele, la contrada più importante, con il Castello del Marchese del Carretto; San Martino, la contrada più antica, con una chiesetta romanica e una piccola necropoli e poi Santa Libera ai Serrati, con una cappelletta settecentesca nota per le sue tre campane.
Canun è poco più di una macchia di case, ma quel lembo di terra, all’inizio della valle, è chiamato da tutti la collina di Canun.
I rivieraschi parlano della collina come se fosse una bella donna, florida e pettoruta, che si specchia nel mare ponentino.
Le case di Canun hanno i tetti ricoperti da lastre irregolari di pietra nera e le terrazze cariche di gerani rossi, che cadono a grappolo lungo le pareti strollate di bianco.
Tra le antiche dimore di quel minuscolo borgo, abitato da famiglie di contadini, si spargevano forti aromi di incenso e bruciacchiature di cera di candele, simili a quelle lunghe che si accendono all’altare della chiesa di San Martino.
Odori che si mischiavano ai profumi del rosmarino e del timo, che cresce selvatico tra le pietre aguzze e l’argilla rossa dei sentieri.
Eppure, da qualche anno, all’inizio dell’estate, una esalazione dapprima impercettibile, poi a mano a mano sempre più forte, solleticava le narici di chi abitava nel borgo: un odore simile al concime e al lezzo della porcilaia, che il vento di levante portava tra l’ombra degli ulivi. Era un odore inebriante e allo stesso tempo repellente che sapeva di muffe e di latte di capra.
Trascinato dai venti, il respiro della morte si era posato su quella collina che si affaccia sul mare.
Quell’alito aveva avuto origine dodici anni prima, quando un uomo con la bocca infettata dall’odio aveva soffocato la vita di tre persone. In pochi minuti aveva ucciso due uomini e una donna e ferito gravemente una ragazza, mentre altre due persone si erano salvate dalla sua furia omicida fuggendo nei campi.
All’inizio di un’estate calda che annunciava incendi nel sottobosco, Salva, in preda alla follia e con un fucile caricato a pallettoni per la caccia ai cinghiali, aveva ucciso i suoi nuovi vicini di casa, quelli che erano arrivati dalla città, portando due alani e una cavalla di nome Rubina per via di un ciuffo di pelo rosso dietro l’orecchio sinistro.
Salvatore, che tutti chiamavano Salva, era da una vita il contadino e il guardiacaccia di Canun.
Da giovane era stato anche marinaio. Canticchiava vecchie romanze e parlava uno stretto dialetto ligure, imbastardito da alcune parole inglesi che aveva imparato quando era imbarcato su una nave mercantile.
Salva aveva ucciso per colpa di quella terra, che il gelo dell’inverno trasformava in lastre impenetrabili dalla vanga. Per colpa di quella stradina sopra il torrente che serviva le due case, la sua quella nuova dipinta di rosa con un cespuglio di ortensie e i girasoli − e quella che era stata la sua prima casa e che lui aveva venduto alla famiglia di Angelo arrivata dalla città. Gente boriosa che, dopo aver firmato il contratto, aveva nuovamente misurato tutti i campi e rifatto le mappe al catasto, rinfacciandogli il silenzio per quella servitù che tagliava in due le proprietà.
Quel sabato di giugno del 1991, nel tardo pomeriggio, quattro o cinque colpi avevano lasciato cadere nell’aria, resa tersa dal vento di tramontana, l’odore pungente della polvere da sparo, vicino a un forno di pietra dove quelli, i familiari di Angelo, preparavano le teglie per la farinata e arrostivano le anguille, pescate durante la notte con i lacci e le budella di gallina.
Da quel giorno la morte si scioglieva con gli altri odori, tra la salvia, le bacinelle di olive nere in salamoia e il mosto del vino nuovo. Si scioglieva tra l’umido delle felci e le foglie di liquirizia selvatica che cresce nel sottobosco.
Un odore mischiato e confuso tra le braci della rumenta, dove si bruciavano le pellicce dei conigli. In quei fuochi che i contadini accendevano al mattino presto e dove, da piccolo, Luca gettava vive le lucertole e gli scorpioni che cacciava tra i muretti di pietra, dove in mezzo alle fenditure si trovavano i gusci vuoti delle lumache.
***
Luca Bernardi, il professore di filosofia, era nato a Canun e lì, sulla collina, viveva ancora sua madre Caterina Brichetto.
Luca, nonostante l’amasse, non aveva più toccato sua madre come fa un figlio. Non le sfiorava neppure le mani. Da oltre trent’anni, da quando aveva lasciato Canun per la città, non le dedicava neppure una stretta, un braccio intorno alle spalle o un bacio sulla fronte.
Luca, durante le rare visite a Caterina, s’interrogava, si chiedeva quali fossero le ragioni di quell’odore misterioso che saliva leggero, come i vapori di una nebbiolina, da dietro i filari della vite.
Un odore che nasceva dal bosco di frassini e di querce e dalle nuvole di moscerini che danzavano tra i fichi selvatici nati lungo il torrente Scarincio.
È il torrente dove Luca, da ragazzo, andava con le fidanzate a bagnarsi in alcune pozze d’acqua limpida e fredda, dopo aver cacciato via i ragni di fiume, quelli che tutti i bambini del posto chiamavano, chissà perché, i “preti”. Dove le pance nere dei girini erano gonfie e scoppiavano come macchie di inchiostro quando Luca, Ernesto − soprannominato Scappavia perché fuggiva a gambe levate dopo essersi imbronciato per un nonnulla − e Sergio − detto Tubo per il colore della sua pelle simile alla fuliggine − le battevano con forza sui sassi viscidi, appena velati di un colore verde marcio.
Luca risaliva quel torrente con i suoi compagni nei lunghi pomeriggi dopo la scuola, sognando di navigare sopra malconce e improbabili zattere, quando la primavera lo gonfiava con le piogge di aprile come se fosse stato l’Adda, il Po, l’Hudson o il grande San Lorenzo degli indiani Irochesi.
Giù, più a valle, sotto il ponte della ferrovia dove ancora negli anni Sessanta passavano le littorine per la Francia, circa a cento metri dal mare, il letto del torrente s’ingigantiva come un vero fiume dentro il più grande Maremola, con le acque più profonde, dove Zaira, Delina e Bianca, tre lavandaie di professione, lavavano da sempre i panni per le famiglie dei signori, riponendoli con cura dentro catini di zinco.
Luca ricordava ancora di quando si acquattava nel canneto con i suoi amici a spiare le lavandaie che mostravano le cosce e quei culi che si alzavano ritmicamente mentre strofinavano lenzuola e camicie, con i calzettoni bianchi arrotolati sulle caviglie, e lui e i suoi compagni ridevano. Ridevano mimando un atto d’amore e costringendo Ernesto, che era il più esile, a mettersi a carponi e a mostrare le chiappe coperte dai pantaloncini corti di flanella che sua madre aveva recuperato da un paio logoro del marito.
Luca, Ernesto, Tubo e Mammone, che era più grande di un anno, figlio di Cesare, il bidello della scuola elementare che aveva marchiati sul braccio destro i numeri di matricola della prigionia in Germania, proprio qui, dove l’acqua con le macchie di sapone delle lavandaie si mescolava con le onde del mare, spesso trovavano alcune ossa di animali dopo la piena d’agosto. Le carcasse di un cane, i teschi di un gatto o dei conigli che il torrente gonfio di pioggia portava via alla terra della collina, svuotando le buche che i contadini, come fossero per i cristiani, avevano scavato per seppellire le galline morte o i conigli quando li prendeva la malattia.
Una volta qualcuno di loro aveva trovato un cranio umano, o forse era solo una mandibola, e ci fu chi disse appartenesse a un morto di cinquant’anni prima, un certo Giovanni, che era stato giustiziato dai partigiani e seppellito proprio là sulla collina. Sotterrato vicino alla Buca delle Conche, nella sabbia e nella ghiaia che il torrente depositava sulle prime fasce coltivate a vermentino.
L’odore della morte sopra la collina degli ulivi era una storia antica, pensava Luca.
Erano passati più di dodici anni da quel giorno d’inizio estate, quando il silenzio della vallata era stato rotto dagli spari e dalle imprecazioni di Salva, rincorso sul ponticello dai figli.
«Li uccido, li uccido, li scanno come maiali quei bastardi e i loro cani… ora o mai più!» urlava Salva bestemmiando, scalciando contro il figlio più grande che lo pregava: «Poi, ti prendi l’ergastolo e ci portano via la terra».
Dopo il primo sparo, i contadini che curavano i vigneti di vermentino spargendo un liquido azzurrino, un antiparassitario che uccideva pure le lumache, si erano acquattati timorosi ai piedi dei muretti di pietra.
«Ora li fa secchi, i padroni e il loro servo» dissero con un filo di voce, nascosti nell’ombra degli ulivi.
«Li ammazza, li ammazza» annuiva Luigi Accame che aveva l’età di Salvatore e che con lui giocava a tresette nell’osteria-bar della contrada di San Michele e sapeva di quel caratteraccio, dell’ira che lo prendeva ogni volta che perdeva un punto e che doveva pagare un giro di vino.
Le sfuriate, le mattane di Salva erano note a chi abitava a Canun: come quella volta che sparò ai cani da caccia del suo amico Gino perché gli avevano ucciso una gallina.
Eppure, in quel momento, il pensiero di Luca non era catturato dai ricordi di infanzia e dalla storia di Salva, ma da quella nuvola di liquido che si depositava in piccole gocce sulle foglie della vite macchiandole di azzurro.
Dopo le lucciole, che illuminavano con il loro pulsare le notti estive, simili a piccoli cuori di bambini o a fiammelle di anime in pena, anche le lumache, pensava Luca, erano diventate rare. Quelle marroni, dal guscio duro e grandi come noci, che si raccoglievano lungo i muretti di pietra, tra le foglie a cuoricino che si appiccicano alle dita. Le lumache cucinate con le spezie e i pinoli erano il piatto più buono del Palio dei Carri.
La collina odorava di frittura durante il Palio, con le contrade che sfilavano orgogliose indossando i costumi d’epoca medioevale.
In grandi padelle i paesani di tutte e tre le contrade friggevano melanzane e pastelle di foglie di salvia e di menta.
Dopo la messa inaugurale, il sindaco con la fascia tricolore marciava a fianco del parroco in testa al corteo che attraversava l’intero paese, dalla chiesa parrocchiale di San Michele alla vecchia villa comunale dove c’era un solo impiegato che faceva pure il messo comunale.
Per tre giorni l’odore di fritto e d’aglio pestato si spargeva tra il bosco e gli ulivi, scendendo fino ai tetti delle case di Canun che, rispetto al paese principale − costituito dalle borgate di San Michele, di Santa Libera e di San Lorenzo −, occupava la collina più bassa, quella più vicina al mare.

Come è nata l’idea di questo libro?
Come è nata l’idea di questo libro? Questo romanzo è stato pubblicato la prima volta nel 2004 da Giulio Perrone Editore. Esaurita la prima edizione – era tra i “libri cacciati” della rubrica radiofonica Fahreneheit di RAI 3 – è stato riedito nel maggio 2018 dall’editore Giuseppe Meligrana su richiesta di molti lettori. Fu presentato a Roma nel 2005 con la partecipazione di Dacia Maraini ed ebbe molte recensioni su riviste e quotidiani. È stato il mio primo romanzo che ha aperto la trilogia del disamore, a cui appartengono i romanzi “Nata con il cuore in una mano” (L’erudita editore) e “Quando Chiara ha perduto la luce” (Tabula fati editore).
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Come opera prima è stato faticossismo trovare un editore disposto a pubblicarlo. Meno fatica ho fatto per sviluppare la storia, dove sono presenti anche alcune reali rievocazioni degli incontri che il personaggio principale ha avuto con Primo Levi e Alda Merini.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Quali sono i tuoi autori di riferimento? In questo romanzo ci sono chiari riferimenti ad autori del Novecento italiano: Italo Calvino, Ignazio Silone e Cesare Pavese.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Padre calabrese e madre genovese, mi ritengo un uomo del Mediterraneo. Ho vissuto per molti anni in Liguria, dove sono nato, e dal 1983 vivo a Milano dove lavoro come psicopedagogista. Ho vissuto a Genova, dove mi sono laureato in Filosofia e ho vissuto per qualche tempo anche a Parigi, città che amo e dove sono ambientati alcuni miei romanzi.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro? Nel 2017 è uscito il mio quinto romanzo L’albero delle zucche, ovvero la stravagante storia del correttore di bozze e dell’investigatore di anime (G. Meligrana editore). Sono in attesa di pubblicare il sesto romanzo Lo sceneggiatore e di ripubblicare con una nuova versione il terzo romanzo, con il titolo I sognatori, storia d’amore e di delitti in Via Solferino 28. Inoltre, è sempre disponibile in libreria e nei book store on line il romanzo Il regno di Nessuno e la bella Alessandra (Edizioni Robin, 2016).