Edito da LEUCOTEA nel 2019 • Pagine: 144 • Compra su Amazon
“Una ferita da baionetta catapulta Giuliano (giovane sottotenente della 8ª Armata Italiana in Russia) tra le rovine di Stalingrado, dove tra tedeschi e sovietici si combatte una delle più grandi battaglie della storia umana.
Uno sparo impreciso incrocia le vite dell'ufficiale e di una tiratrice scelta Russa, Tanja: l’irreale incontro di un momento li segnerà per sempre, portando alla luce un’altra incredibile vicenda.
Attori di questo intreccio sono la coccarda di un generale dell'Armata Rossa e "Liquirizia", l'orsacchiotto che fin da bambina aiuta la soldatessa a vincere di notte la paura del buio.
La storia di un amore che si oppone ai duri precetti della guerra e all'odio tra popoli”.
Il romanzo - una toccante vicenda sentimentale - ha dunque come cornice gli avvenimenti bellici che tra il luglio 1942 e il febbraio 1943 capovolsero in Europa il corso della II Guerra Mondiale (scoppiata esattamente ottanta anni fa), portando infine alla liberazione del continente dalla follia del nazifascismo.
L’epilogo della storia ha invece come scenario Milano, allorché - ventidue anni più tardi - un lavoro di scavo nella centrale Via Filodrammatici restituirà finalmente all’ex ufficiale la pace smarrita.
Di seguito la prefazione al volume della Presidentessa della “Fondazione Culturale Mario Novaro”:
“L’orrore, l’idiozia della guerra da un lato. Le vie tortuose degli affetti, dell’amore dall’altro. È una lotta impari, che tuttavia coinvolge ed affascina; fino alla fine non si sa chi e in che modo potrà risultare vittorioso.
Ma per Claudio Loreto la vita, da quando ha cominciato a scrivere, è affrontata come gara o come lotta: già dall’inizio, quando voleva diventare corrispondente di guerra...
E di guerra si parla in questo suo nuovo romanzo, dal titolo dolcissimo: Liquirizia! La rievocazione della spaventosa battaglia di Stalingrado – raccontata con notevole perizia e conoscenza dei tragici fatti della Seconda Guerra Mondiale – si intreccia con una storia d’amore, casualmente collegata al passato del protagonista, vissuto a Sanremo, sulla splendida “Riviera dei fiori”.
Ancora altre sorprese attendono comunque il lettore prima della conclusione della vicenda: davvero vale la pena di leggere questo romanzo affascinante. Non come critico – che non è il mio ruolo – ma come persona appassionata della scrittura e della narrazione, e soprattutto legata alla letteratura della nostra terra di Liguria, volentieri ho accettato di dedicare queste righe alla presentazione di un testo che certamente non passerà inosservato al giudizio dei recensori e tanto meno all’interesse dei lettori”.
San Remo, 18 giugno 1942 – Era un mattino luminosissimo; oltre i frangiflutti che proteggevano i binari il mare pareva fosforescente e dondolava placido, intorpidito da una precoce canicola.
Non fu però per bisogno di refrigerio che Irina, lasciata la stazione ferroviaria ed attraversato poi Corso Imperatrice, andò a rifugiarsi nella chiesa ortodossa di Cristo Salvatore. Qui si inginocchiò davanti all’icona della Madonna con in braccio il Bambino Gesù e a mani giunte, tra le lacrime, cominciò a supplicarla di proteggere Giuliano, il maggiore dei suoi tre figli: poco prima, dopo un lungo e silenzioso abbraccio, il giovane era salito sul treno che lo avrebbe condotto ad una caserma di Novara.
Concluso uno spiccio corso di addestramento ed esauriti i successivi tre giorni di licenza (volati, letteralmente!), il pivello sottotenente doveva presentarsi infatti al suo primo reparto, la 2ª Divisione Fanteria “Sforzesca”, in procinto di partire di lì a qualche giorno alla volta del Don; per raggiungere il lontanissimo fiume russo ci sarebbero volute due settimane di sobbalzi su una scassata tradotta, seguite da cinquecento chilometri di marcia a piedi con lo zaino sulle spalle. Nel cortile della caserma “Passalacqua” il Partito Fascista stava già allestendo una grande festa di saluto: cantanti, balletti folcloristici, pacchi-dono per i soldati con sopra stampata la parola d’ordine Vincere! e tanti, tanti bei discorsi…
***
…Per i poveri italiani del 248° autoreparto – autieri inadatti al combattimento in prima linea – a Stalingrado il nemico principale non erano i russi, bensì la fame crescente; essi tentavano di sopravvivere con il pochissimo che i tedeschi passavano loro.
Dal vicino zaino Giuliano tirò fuori carta e matita e prese a scrivere di nuovo alla madre.
Era sicuro che in patria giornali e radio mentissero ben bene sulla battaglia in corso nella città; in ogni caso, per rassicurarla maggiormente, continuò a raccontarle la sua bella favoletta.
“… Stai tranquilla, si combatte lontano da dove operiamo. Gli abitanti sono molto cordiali con noi. Direi che non ci manca nulla ed abbiamo un sacco di tempo libero, così ho la possibilità di scriverti più spesso…”.
In realtà si iniziavano a contare sulle dita di una mano i velivoli della Luftwaffe che ancora atterravano in qualche slargo urbano e che ripartivano poi zeppi di feriti gravi (con nel mezzo ufficiali furbacchioni che se la filavano con i più fantasiosi pretesti) e con la probabile ultima posta di coloro che restavano.
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Sabato, 19 dicembre 1942 – Attraverso uno spiraglio delle sudicie e corrose tende della finestra dietro cui si era annidata, Tanja dominava dall’alto la grandissima piazza intitolata a Karl Marx. Questa, per via delle esplosioni, si era in realtà tramutata in una distesa di crateri, sui cigli dei quali marcivano bruciati almeno una dozzina di carri armati nazisti.
Da lassù la cecchina poteva scorgere all’estremità sinistra del vasto spiazzo i barricamenti sovietici e lungo il bordo opposto le postazioni tedesche; nel mezzo era terra di nessuno, disseminata di cadaveri (obolo dei reciproci e inutili assalti) che il gelo aveva pietrificato nelle pose più grottesche.
Due giorni prima aveva studiato a lungo il posto e alla fine aveva valutato che la collocazione migliore per lei fosse quella finestra orfana di vetri (come del resto quasi ogni altra a Stalingrado) al quarto ed ultimo piano di uno degli edifici più lesionati della piazza; aveva atteso il calare della notte e poi con estrema circospezione era strisciata con il proprio materiale fin lassù.
Ora l’attendevano ancora trentasei ore di occultamento, dopodiché sarebbe filata via da lì: col girare delle lancette la probabilità di venire individuata e liquidata da una scarica di mitragliatrice o dal tiro perfetto di un “collega” nemico aumentava in misura esponenziale.
Al comando avrebbe potuto ripulirsi, dormire con entrambi gli occhi chiusi per un paio di notti e spendere femminilmente (perché no?) qualche minuto con il frammento di rossetto rimastole; poi, rifornitasi ben bene di cibo, acqua e munizioni (nei confronti dei cecchini si era di manica larga), sarebbe partita per un nuovo turno di servizio di due-tre giorni dentro qualche altro lurido buco…
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Mercoledì, 23 dicembre 1942 – Fuori albeggiava. Seduto vicino alla ragazza nel locale in cui erano intrappolati, Giuliano la guardava dormire: aveva un sonno sereno, sembrava sorridergli.
La osservava e pensava di non avere mai visto donna più bella. Sentiva, prepotente, il desiderio di accarezzarla, di baciarle delicatamente la fronte, gli occhi e le guance. La bocca. Ma aveva timore di svegliarla, di strapparla da quella quiete di cui aveva invece grande bisogno; soprattutto aveva paura della sua reazione.
Così stava fermo lì e basta. “Non ha senso!”, diceva a se stesso. Ma non riusciva ad alzarsi e tornarsene nel suo angolo per recuperare un po’ di sonno. Cosa gli fosse accaduto dentro in soli tre giorni non lo sapeva: erano i misteri della vita.
Quando lei finalmente aprì i suoi occhi da gatta e lo vide, a Giuliano mancò come il senso di sé. Fremeva dalla voglia di parlarle ed invece non fu capace di dire una parola.
Tanja, distesa sul fianco, lo fissava. Sapeva già tutto.
«Sin da piccola ho pensato che dentro “Liquirizia” si nascondesse in realtà il mio angelo custode e che esso un mattino mi sarebbe finalmente apparso. Ed è successo davvero, tre giorni fa» disse la donna.
«La liquirizia, l’angelo… non capisco» biascicò con il suo russo il sottotenente.
«È una storia lunga, non importa». Tanja si mise in ginocchio di fronte a quello che avrebbe dovuto essere un suo nemico, si appoggiò con le mani sul suo petto e lo baciò. Poi pose la sua fronte su quella di lui.
«Proteggimi sempre, Giuliano. Anche dopo che il destino ci avrà separati. Da ovunque tu sarai».
Il giovane ufficiale le prese il viso tra le mani e, dopo averle sussurrato mille volte all’orecchio – questa volta in italiano – qualcosa di cui lei poté comprendere solo la dolcezza, si attaccò con impeto alle sue morbide labbra, succhiandone insaziabile il dolcissimo nettare. Desiderava che non finisse mai.
Sì, si era innamorato di lei!
***
1943 – Campo di prigionia di Beketovka.
…In quanti erano a Beketovka? Quaranta, cinquanta, ses-santamila? Boh, chi poteva dirlo, seppur con approssimazione! Di certo lì era una babele di lingue: soprattutto tedesco, naturalmente, e poi rumeno, italiano, croato ed altre ancora; per tutti i reclusi, indistintamente, il campo rappresentava un girone infernale.
Scarseggiavano cibo, acqua e riscaldamento; ogni giorno morivano di stenti non meno di cinquanta detenuti. Questi sopperivano alle carenze alimentari altrui: soprattutto fra i tedeschi – i più odiati dalle guardie e di conseguenza i più privati d’ogni cosa – c’era infatti chi non disdegnava di sostenersi con la carne dei compagni morti; tali disgraziati erano facilmente distinguibili perché i loro visi assumevano un colore rubino.
Nonostante la precaria condizione che lo obbligava a curarsi di ogni singolo momento del presente, Giuliano aveva sempre in testa la russa. Nei momenti di solitudine, ed ogni notte, egli altalenava fra lo struggimento per lei che talvolta lo spingeva fino anche a desiderare di morire e la razionale riflessione che, se fosse sopravvissuto, un giorno probabilmente avrebbe potuto ridare e riavere amore con un’altra donna. Così come Tanja con un altro uomo. Al solo pensiero la gelosia però lo stravolgeva….
Come è nata l’idea di questo libro?
Come per qualsiasi mio precedente racconto, si è trattato di un improvviso scatto di fantasia: niente di pianificato a tavolino.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
L’ho scritto di getto e poi riletto e corretto una sola volta. Detesto rivedere un testo ripetutamente, anche se sono consapevole che ciò può facilmente comportare il mantenimento in esso di errori.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Dominique Lapierre e Larry Collins.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Genova, ma sono nato in Sardegna e per quattordici anni ho abitato in Sicilia.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Nessun progetto particolare: continuerò a scrivere se avrò, appunto, altri imprevedibili scatti di fantasia.
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