Edito da Fabio Cosio nel 20/12/2018 • Pagine: 201 • Compra su Amazon
Incastonato tra le montagne piemontesi, sulle rive di un lago e circondato da maestosi boschi, sorge Zemello, un piccolo paese dove, per ammissione degli stessi abitanti, "non succede mai niente".
Quando tra i boschi viene avvistato un randagio, il sindaco organizza una caccia clandestina. Sono però Alice e Gianni, due diciassettenni, a imbattersi per primi nel cane. Lo chiamano Macchia, per le strane chiazze grigie che gli costellano il muso; cercano di metterlo in salvo, scoprendo che ha poteri speciali: può curare istantaneamente qualsiasi ferita. Improvvisamente una tempesta si abbatte sul paese, isolandolo dal resto del mondo; strane creature iniziano ad aggirarsi tra le case mentre qualcosa di oscuro, proveniente dalla notte dei tempi, si nasconde pronto a svegliarsi e distruggere il mondo. Gianni e Alice, con l'aiuto dei loro amici e di uno strano guerriero in armatura, si ritrovano a combattere qualcosa di più grande di loro, qualcosa che nessuna arma sul pianeta è in grado di distruggere. Ma per fortuna al loro fianco c'è Macchia.
Ho scelto il momento in cui Macchia, per la prima volta, mostra i suoi poteri:
Alice aprì a fatica un occhio. Il dolore la sommerse, penetrando in ogni fibra del suo essere. La testa sembrava scoppiare ad ogni battito del cuore.
Cercò di aprire la bocca e inspirare. Si sentì invadere dal gusto di terra e foglie morte.
Tossì.
Non capiva. Non capiva dov’era, cos’era successo, se era sdraiata o in piedi, giorno o notte. Soprattutto non capiva cos’era tutto quel dolore.
Tentò nuovamente di aprire gli occhi.
Terra, fogliame, radici. La prospettiva era sbagliata, era quella di un verme, o di un topo. Il bosco era troppo grande e gli alberi troppo alti e il freddo sulla faccia troppo umido e intenso.
Vedeva i riflessi blu dell’insegna del Big Macellos sui tronchi più lontani.
Era sdraiata a terra a pancia in giù, la faccia schiacciata sul terreno. Cercò di muovere un braccio. Puntellò la mano destra a terra e spinse. Cercò di usare anche la sinistra ma non la sentiva più. Non sentiva né la spalla né il braccio. Si consolò pensando che il dolore era talmente intenso da non aumentare se faceva sforzi. Più di così il suo corpo non riusciva a produrne.
Spinse in modo da rotolare e mettersi sulla schiena.
Aveva sbagliato. Poteva provare più dolore. Pensò di svenire nel momento in cui tutto il suo peso si trovò sulla spalla sinistra.
Ricadde a terra pesantemente, ansimando. Aveva foglie attaccate al viso e altra terra in bocca. Sputò, cercando di sollevare la testa.
Vide Gianni a terra e ricordò. Lo stronzo gli aveva sparato. E poi aveva sparato anche a lei.
«Perdonami.» Le aveva detto. Poi tutto era diventato buio.
Alzò la testa cercando di capire dove l’avesse ferita.
All’altezza della spalla sinistra il parka aveva una toppa di foglie tenute insieme con il sangue. Ne prese una, sollevandola, e le altre la seguirono, incollate una sull’altra.
Fece scorrere lentamente la zip della giacca. Era buio, ma poteva vedere ciò che restava della sua spalla e del suo seno sinistro. Lo stronzo aveva sparato con una doppietta. Aveva devastato un’area grande quanto un piatto da pizza.
Si trovò a pensare che probabilmente le aveva frantumato cinque o sei costole, bucato un polmone e chissà che altro.
Non le restava molto da vivere.
Lasciò cadere la testa a terra. Non aveva più energie. Cercò con le dita il telefono, senza trovarlo.
Si mise a piangere. Aveva solo diciassette anni. La sua vita non era ancora iniziata.
Non voglio morire. Non così.
Sopra di lei svettavano le foglie degli alberi. ‘Querco-carpineto’ le venne in mente. Una lezione a scuola.
I nostri boschi sono principalmente composti da querce e carpini. Fino ad una certa altezza, dove poi vengono sostituiti dai pini e dagli abeti.
Zemello aveva tutto. Le querce, i carpini e gli abeti o i pini. Boh, non aveva mai imparato a riconoscerli e non avrebbe più avuto modo di farlo.
Tra le foglie rilucevano tra il cielo e le sue stelle. Una ben magra consolazione, ma almeno sarebbe morta sotto lo spettacolo della volta celeste, con la Via Lattea a indicarle la via per il paradiso o chissà che altro.
Tirò su con il naso. Era ingiusto.
Chissà quando li avrebbero ritrovati, lei e Gianni. Sarebbero stati ancora integri o già in putrefazione? Nei boschi c’erano animali che potevano mangiarli? Sperò nelle volpi.
«Dio fai che siano le volpi a mangiarmi e non i topi.» Disse ad alta voce.
Non aveva mai pregato, ma gli era uscito spontaneo.
Sentì le foglie frusciare alla sua destra.
Sarà lo stronzo che viene a finire il lavoro.
Dall’oscurità spuntò fuori il randagio.
Avanzava guardingo, annusando l’aria.
Alice allungò il braccio. «Vieni, ti prego.» Sentiva il bisogno di un po’ di calore. Almeno non sarebbe morta da sola.
Poi magari sarà lui a mangiarti.
Non le spiaceva l’idea.
«Se mi vuoi mangiare, fallo.» Disse all’animale. «Poi, quando sei in piena forma, vai giù in paese e sbrana quello stronzo del macellaio.»
Si ritrovò a ridere. Non sapeva neanche lei perché, ma le era sembrata una cosa simpatica. Un fiotto di sangue le salì in gola, trasformando la risata in un rantolo.
Il cane si avvicinò, infilando il naso nel palmo della sua mano. La annusò, poi rialzò la testa e prese a girarle intorno.
Ecco, adesso mi sbrana.
L’animale si avvicinò alla ferita, annusando più forte.
Ecco, cretina. Ha sentito l’odore del sangue.
Con un ultimo passo le fu sopra. Chinò la testa e iniziò a leccare la ferita.
Alice chiuse gli occhi, aspettando il morso.
Spero di non sentire altro dolore.
Non ci fu nessuna sofferenza. La ferita iniziò a prudere. Il cane continuava a leccare e lei sentiva la pelle intorno al buco del proiettile tirare come dopo una feroce scottatura.
Improvvisamente sentì un sibilo, e si accorse di respirare meglio. Un rumore di ossa che sfregavano tra loro la fece rabbrividire. Come unghie sopra la lavagna ma proveniente dal suo corpo.
La spalla prese a prudere ancora di più, così come quello che una volta era il seno. Istintivamente alzò il braccio, cercando di grattarsi, il cane si voltò abbaiando, costringendola a rimetterlo giù.
Alice si fece coraggio e sollevò la testa. Le sembrava di avere più energia.
Il cane stava ancora leccando ma non c’era più nessuna ferita.
Lo guardò, stupita. Aveva gli occhi chiusi e le orecchie tirate all’indietro, concentrato nel suo lavoro.
Con un balzo saltò oltre la sua testa e Alice si ritrovò seduta.
Aprì ciò che restava della sua giacca e del maglioncino, scoprendo la pelle dove poco prima c’era solo un impiastro di carne, muscoli e sangue.
Si toccò, incredula. Non c’era più nessuna ferita, nessun dolore.
Si voltò verso il cane, ma lui la ignorò. Si stava dirigendo verso Gianni.
Alice si trovò a gattonare verso l’amico. Il cane gli si era messo sopra, con le zampe aperte ai lati del corpo. Con il naso aveva spostato le mani ancora ferme sulla ferita, poi aveva preso a leccare.
E se fosse già morto?
Allungò le dita prendendogli il polso. Leggero, ma un minimo di battito c’era ancora.
Tornò a guardare il cane.
Non era come si vedeva nei film di magia. Nessuna luce o polvere di stelle. Semplicemente il cane leccava e i tessuti si riformavano, il sangue sembrava riassorbirsi, le ossa si saldavano di nuovo insieme.
Gianni si risvegliò aspirando aria a pieni polmoni, quasi fosse stato prossimo ad annegare.
Il cane indietreggiò, sedendosi ai suoi piedi.
«Che è successo?»
Alice lo abbracciò, ridendo e piangendo, poi si voltò a guardare il cane, che li osservava con la lingua penzoloni.
«Quando te lo racconterò, non ci crederai.» Rispose lei, continuando a ridere.
Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea per Macchia è nata più di venti anni fa, mentre facevo il volontario al canile di Torino. Lì, tra i vari ospiti, c’era proprio lei, Macchia, la mia preferita. Un giorno, passeggiando, mi ferii a un polpaccio, probabilmente con un rovo. Macchia si avvicinò e prese a leccarmi la ferita. La sera notai che si era già cicatrizzata. Il veterinario del canile mi spiegò poi che i cani avevano degli enzimi che favorivano la cicatrizzazione e pensai che, portando la cosa agli estremi, poteva essere una storia da raccontare.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Dipende dai punti di vista. La maturazione è stata indubbiamente molto lunga, visto che le sue origini risalgono agli anni ’90. Nel momento in cui però tutte le caselle si sono incastrate nel posto giusto, la stesura è stata semplice e spontanea. I miei precedenti libri sono romanzi storici, che hanno richiesto anni di ricerche e lavoro di cesello per dare senso a eventi di cui ci sono poche tracce. Macchia è molto più istintivo; era la storia che spingeva per essere scritta.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Mi sono innamorato della scrittura leggendo libri fantasy, dove il mio preferito rimane tuttora David Gemmell. Ho poi scoperto e amato Stephen King e Ken Follett, specialmente nei suoi lavori storici come la trilogia di Kingsbridge.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nato e cresciuto in provincia di Torino. Per un certo periodo ho abitato in un paesino del vercellese, dove ho potuto notare la differenza tra città e piccole comunità. Da una decina di anni sono tornato a Torino.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sto concludendo il terzo e ultimo libro della trilogia Penitenziagite sulla figura di fra Dolcino da Novara, narranti la vita dell’eretico citato ne Il Nome della Rosa di Umberto Eco e la cui uscita è prevista verso metà 2019.
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