
Edito da L'Erudita - Roma nel 2018 • Pagine: 150 • Compra su Amazon
Giulio, ex docente milanese, vive una seconda giovinezza quando si trasferisce in uno dei luoghi di quella Magna Grecia che ha frequentato e amato per decenni con la moglie e le figlie. E' qui che da vedovo incontra Cecilia, una giovane supplente emiliana, anch'ella affascinata dall'atmosfera delle antiche civiltà classiche. Tra l'anziano professore e la graziosa e brillante docente nasce una singolare attrazione reciproca, fatta di affinità culturali e inconfessato trasporto amoroso.
Quando, dopo anni di vicissitudini, incomprensioni e sentimenti repressi Giulio attende l'arrivo della donna alla sua casa di Ascea, alla porta bussano i carabinieri.

Nella primavera-quasi-estate del 2003, dunque, avevo conosciuto Cecilia.
Dopo la serata della cena e dei cori stonati a casa mia, i quattro giovani parmigiani svanirono nel nulla. Partirono senza lasciare traccia. Mi ero illuso che bastassero poche ore di allegra compagnia, contagiosa gioia di vivere e divertirsi, per accorciare le distanze anagrafiche. O, almeno, lo speravo pensando a Cecilia, così sensibile e diversa dalle altre donne della sua età, dolce, assennata e matta quanto basta. Graziosa. Bella.
L’esperienza mi aveva lasciato il segno.
La notte facevo fatica ad addormentarmi, apparentemente senza motivi. Il dottor Ferrigno, un medico che scelsi a caso in uno studio associato del paese, era un internista col pallino della neurologia. Mi chiese guardando lo schermo del suo computer:
“Caro professore, non è che di recente lei abbia provato qualche forte emozione?”
Sapeva che ero vedovo da poco più di tre anni, per cui immaginai che si riferisse a un evento più vicino nel tempo.
“Che so, un dispiacere causato da altre vicende familiari…da figli, nipoti, intendo”.
“Forse sì” risposi titubante. “Ma non sono certo che il mio stato di ansia dipenda da quello. Sa, vivo la mia vita tranquilla, ormai ho fatto il callo a certe delusioni. Voglio dire, il rapporto difficile con le mie figlie non è propriamente recentissimo, in tutta onestà. Ogni tanto sento i mie due nipotini”.
“Allora è qualcosa di diverso, non ci sono dubbi”:
Gli confessai dell’incontro con i quattro giovani emiliani, senza scendere nei dettagli. Ma lui non si arrese. Allora gli parlai di Cecilia, dell’emozione che avevo provato quando le parlavo, la guardavo negli occhi e lei guardava nei miei, senza malizia.
“Non è che si sia preso una cotta senile per quella giovane?”
“Non lo so. Quando ci penso, un po’ di turbamento lo avverto…Non riesco a definirlo, è come se il cuore, che come sa mi batte da sessantacinque anni ormai, volesse riprendere il ritmo perduto”.
“Professore” iniziò a scrivere la prescrizione, “prenda una di queste un paio d’ore prima di andare a letto. Dovrebbe attenuare la sua ansia e facilitare l’addormentamento”:
Da allora ho iniziato a prendere una xanax 0.5 mg ogni sera. Con l’aggiunta di una mini radio di plastica dura sull’orecchio le cose andavano meglio.
L’estate mi sembrò infinita. Alla spiaggia andavo un paio di volte la settimana, prima delle sette del mattino. L’acqua era già – ancora – calda, la sabbia tiepida, l’immenso arenile deserto. A volte aspettavo che qualche coppia di pescatori si ritirasse dalla nottata di lavoro per comprare un paio di cefali o mezzo chilo di alici. Il resto del giorno lo passavo all’ombra del fico leggendo, lavorando nell’orto (prima di andare alla spiaggia o dopo il tramonto), scribacchiando appunti in word sul mio computer portatile (volevo inventare un romanzo).
In spiaggia, mentre mi asciugavo camminando, qualche volta mi sorprendevo a fissare il punto in cui avevo chiacchierato con i giovani parmigiani. Poi, distoglievo lo sguardo dal punto, auto-commiserandomi per la mia stoltezza, pensando che alla fin fine il posto poteva anche essere impreciso.
Un tardo pomeriggio di metà settembre una scampanellata mi fece sobbalzare dal divano. Il campanello è lato mare, accanto alla porta principale, per uso e abitudine relegata a secondaria. In questi anni l’avrò sentito suonare sì e no quattro cinque volte, da piazzisti o visitatori improvvidi. La cassetta postale – per quello che serve – è anch’essa al lato nord, vicino al cancello, in via degli Enotri (fui io stesso a insistere affinché porta e cancello avessero tale disposizione).
Quando aprii la porta – senza nemmeno chiedere chi fosse, più per cautelare la mia patologia che per ragioni di sicurezza – avvertii un trambusto al cuore.
“Ciao, Giulio”. Cecilia!
“Cecilia!”
“Sono di nuovo qui. Mi sono sistemata all’Enotria, tanto per cambiare”.
“E Nino? Gli altri?”
“Sono venuta sola, in attesa che mi arrivi il solito incarico a scuola. Sai come vanno le cose, no?, per i docenti con incarichi annuali. Non è cambiato molto da quando sei andato in pensione tu”.
“Ah! E la tua amica?”
“Ha avuto culo. L’hanno già chiamata”.
“Vieni, entra, intanto. Che ne è di Nino e Luca?”
“Loro non lavorano nella scuola, sono ai posti di combattimento da agosto”.
Ci scambiammo un neutro saluto sulle guance che quasi mi stordì. Ci sedemmo sul divano, uno accanto all’altra, a poca distanza.
“Avevi nostalgia di quella serata? Non mi dire”.
“Un po’ sì, non lo nego. Per tutta l’estate ho sognato quella insalata di pomodori. Non ne mangerò mai più così buoni, ho pensato”.
“Ah, i pomodori! Solo quelli?”
“E tutto il resto”.
“Sai perché ti ho chiesto? Vieni, c’è ancora luce”. La condussi nell’orto attraverso salone e cucina. “A giugno erano primizie, ora sono in piena maturazione e tripudio vermiglio. Ne ho già fatto due cassette di pelati”.
“Proprio come un terun!”. Appariva sciolta, estremamente informale. Io invece mi sentivo attaccaticcio, goffo, invecchiato, se mai ce ne fosse stato bisogno. “Come te la passi?” continuò allegra. “Ti sarai gonfiato di sole e di sale a luglio e agosto. Sei bello abbronzato”.
“Il sole lo prendo quasi tutto nell’orto, che per me è come un elisir. Lo sai, no?”
“Senti Giulio, penso sia meglio che ora vada a mettere la valigia a posto al B & B”.
“Scusa, ma sei appena arrivata”.
“Appunto”.
“Credo che dovremmo parlare un po’ noi due, che dici?”
“Lo faremo quando mi porti in giro per il Cilento. Perché mi ci porti, neh?”
“Certo, se ti fidi di un autista e una guida turistica ultrasessantenne”.
“Come guida mi lascio guidare a occhi chiusi, puoi scommetterci. Come autista, non lo so. Te lo farò sapere alla prima escursione”.
Non potevo mica contraddirla. Occorreva cautela e pacatezza, non fare passi falsi. Solo così forse riuscirò a scandagliare il suo cuore e la sua mente, mi dissi in apprensione. Perciò, niente domande indiscrete sul suo rapporto con Nino, nessuna pressione, né asfissia con inviti e programmi incalzanti. Lascerò che decida lei, mi imposi alla fine.
Non ci lasciammo con un appuntamento, forse era sottinteso per entrambi che ci saremmo visti più tardi, dopo che si fosse sistemata in camera. Se non fosse venuta mi sarei rattristato, ma ero determinato a non infilare scorciatoie insidiose, come ad esempio andare a cercarla al Bed and Breakfast. Ero fermamente intenzionato a utilizzare tutto il bagaglio di discernimento di un pensionato sessantacinquenne. (Ma non ne ero convinto al cento per cento. Certi stereotipi riguardanti gli ‘anziani’, o i ‘pensionati’ di qualsiasi età, sono il più delle volte beffardamente confutati dalla realtà).
Cecilia si presentò verso le diciannove. Era vestita casual, jeans e camicetta color canarino. Un leggero cardigan blu scuro sulla spalla, una borsetta a tracolla, pronta per il primo giro. Questa volta apparve dal cancello dischiuso di via degli Enotri.
“Sono pronta per la prima escursione. Che ne dici di farmi vedere il capoluogo? Lo immagino come un presepe illuminato, a quest’ora”.
“Se mi dai cinque minuti per prepararmi…”
L’arrampicata verso i trecento metri di altitudine del capoluogo non è un tragitto lungo: solo cinque chilometri. A ogni curva a destra Cecilia lanciava uno sguardo ammirato al panorama della conca scintillante: le luci del lungomare, e più giù il promontorio della Scogliera, dietro la quale, ancora più a sud, le luci lontane di Marina di Pisciotta.
“Magnifico!”
Il paese aveva subito la stessa sorte di Capaccio, il comune capoluogo dell’antica Poseidon-Paestum. A causa dell’impaludamento della piana e l’insorgere della malaria, gli abitanti di Paestum, come quelli di Elea-Velia, pensarono bene di trasferirsi in montagna e sfuggire al flagello. Così nel basso medioevo, i paesi di Capaccio e Ascea (e molti altri lungo la costa cilentana) si ingrandirono fino a diventare centri di buona consistenza abitativa, probabilmente più affollati di oggi.

Come è nata l’idea di questo libro?
Da una combinazione di diverse esigenze che da qualche anno sono diventate più pressanti. La più (apparentemente) triviale delle quali è la storia dei pensionati italiani che decidono di evadere legalmente le tasse trasferendosi all’estero. Vi è poi lo ‘scabroso’ ma sempre attuale aspetto dell’amore/sesso degli ultra sessantenni, visto sotto ogni angolazione possibile. Ultima, non per importanza, la secolare questione nord-sud Italia, immaginata in versione controcorrente.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Non avevo fretta, la storia si è sviluppata quasi autonomamente, secondo ritmi a me congeniali. Il Post Scriptum finale della figlia del protagonista, invece, è stata una folgorazione tipica dell’età (dell’autore).
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Nessuno in particolare. Negli ultimi anni mi sono tuffato nella narrativa anglo-americana (in originale, ovviamente), quasi sempre da un punto di vista femminile (l’ultima, Doris Lessing, ‘Love, again’).
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Attualmente sulle colline salernitane affacciate sul golfo. In passato, a Milano, Salerno, Inghilterra, sul Garda, altrove.
Dal punto di vista letterario quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Vorrei continuare a scrutare il presente e il futuro partendo dal passato. Lo stile, credo, non subirà variazioni degne di nota. Ma non si sa mai.