
Edito da Edizioni EBS Print nel 2020 • Pagine: 89 • Compra su Amazon
Un viaggio iniziato all'interno di sé, confluisce nel ricordo dell'esperienza realmente vissuta in un paese di grande spiritualità, il Nepal, conservata in un angolo del cuore, e la fa rivivere in una rielaborazione del proprio dolore ritrovando la connessione profonda con l'universo, grazie alla pratica del Qi Gong e della meditazione.
"E alla fine di tutto questo andare, ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta." T. S. Eliot

Eravamo giunti a quasi cinquemila metri di altitudine e ci sentivamo ai confini della realtà. La fatica accorciava sempre più il respiro serrando un cerchio stretto intorno alla testa, annebbiava vista e faceva pompare il cuore fino alla gola per convogliare ai polmoni una maggior quantità d’aria. Riuscivamo a fare solo pochi passi di seguito ed eravamo costretti a riposare a lungo per cercare di riprender fiato. La difficoltà maggiore era quella di cercare di respirare col naso, come ci mostravano gli sherpa, per non contrarre un debito di ossigeno.
Branchi di yak smunti si rifocillavano di paglia prima di intraprendere la strada verso il Campo Base dell’Everest, distante una giornata di marcia. Un mucchio di catapecchie decadenti e accucciate per resistere alla violenza degli elementi ci accoglieva nella sua tetra ospitalità. Entrammo in una locanda dalla sala col pavimento in legno e la stufa di ferro alimentata da sterco di yak essiccato che già emanava un odore acre e poco invitante. Al piano superiore, i miseri alloggi per dormire, costituiti da squallidi tavolacci senza materasso. La luce penetrava appena da un finestrino senza vetro ricoperto da plexiglass. Il luogo più demoralizzante e ripugnante era la latrina: una topaia scura, senza luce, con un buco per terra e, a fianco, una consunta tanica in plastica con dell’acqua torbida.
Al mattino, ci inerpicammo in un saliscendi di sdrucciolevoli gradoni granitici fino a Gorak Shep, una parvenza di insediamento umano dimenticato dalla civiltà, luogo di sosta prima di raggiungere il Campo Base.
Si camminava sferzati da un vento gelido, inciampando sul terreno accidentato, ricoperto da ciottoli di ghiaia che fluivano ininterrottamente sotto i nostri piedi, lungo la base morenica in movimento, in un deserto privo di vegetazione. Mettere un piede davanti all’altro, mentre il freddo pungente faceva battere i denti e tremare le membra esauste, era l’ardua ricerca di un equilibrio che si rivelava precario. L’acqua di disgelo colava impetuosa attraverso numerosi canali sotterranei creando uno spettrale brontolio che risuonava nella massa dalla turchese luminosità. Enormi blocchi di ghiaccio, staccandosi dai seracchi delle Khumbu Icefalls, crollavano improvvisamente rotolando in un rombo tonante lungo il ghiacciaio scintillante come onice levigata. Giungemmo in un territorio in continua disgregazione, considerato tra i più inospitali della terra, cimitero di decine di scalatori e sherpa caduti tra i suoi crepacci, occupato da campi di tende organizzati dagli scalatori in partenza per la sommità dell’Everest. Respirare era gravoso e il mal di testa sempre più feroce, accompagnato da forte nausea e mal di pancia. Le dita gonfie e rossastre nonostante il farmaco dall’azione diuretica assunto due volte al giorno per aumentare l’emoglobina e trasportare più ossigeno nel sangue, al fine di scongiurare il famigerato AMS, Acute Mountain Sickness, il mal di montagna.
Un grande cartello bianco con la scritta Everest Base Camp, 5367 metri, adorno di bandiere sventolanti ci accolse insieme ai sorrisi festanti dei portatori che applaudivano il nostro traguardo. Ce l’avevamo fatta! Eravamo arrivati alla meta prefissata, ai piedi di Sua Maestà l’Everest che non si lasciava scorgere dal bacino sabbioso del vecchio lago prosciugato. Alcuna parola poteva esprimere la sensazione di appagamento ed esultanza che ci pervase insieme alle lacrime e ci unimmo alla preghiera degli sherpa davanti la forza superiore della Montagna che decideva della vita e della morte di chi in essa si avventurava. Noi due, abitanti dei 200 metri di altitudine sul livello del mare, eravamo riusciti nel nostro intento! Avevamo dominato la nostra mente, solo questo contava! Osservammo commossi la vasta distesa dall’aspetto di un tempio, ringraziando in rispettosa reverenza il Sacro Gigante per averci concesso di calpestare il suo suolo, consci di essere al cospetto di una potenza della Natura che ammoniva la sciocca convinzione umana di essere invincibile. In questo deserto ghiacciato, alla fine del tortuoso percorso, eravamo soli di fronte al destino, come nella vita, obbligati ad affrontarne le dure condizioni, col compito di tenere una mente pulita e un cuore calmo.

Come è nata l’idea di questo libro?
Nel marzo 2020, durante il periodo più tragico del coronavirus, morì mia madre e sentendomi sopraffatta da un senso di sradicamento ricominciai a meditare lasciando spazio all’ascolto di emozioni seppellite dal peso della routine e dalla sofferenza. Nel visualizzare una montagna, ritornarono vivide alla mente immagini, sensazioni ed emozioni dell’esperienza vissuta in Nepal nel 2012. Iniziai quasi in modo frenetico a mettere per iscritto quel viaggio trasformando la scrittura in un “anestetico emozionale” per andare alla ricerca della mia Anima che aveva bisogno di essere ritrovata.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Ho scritto quasi di getto per due mesi seguendo un’improvvisa ispirazione e una necessità di dar sfogo ad un ricordo recuperato e non metabolizzato. Ho poi dedicato quasi lo stesso tempo per rivedere e correggere da sola il lavoro prima di cercare una casa editrice per la pubblicazione.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Durante la stesura del libro ho letto Walter Bonatti K2, Montagne di una vita, Krakauer, Aria sottile, Il libro tibetano dei morti, D. Goleman, la forza della meditazione, T. S. Eliot, la terra desolata, M. Aivanhov, La morte e la vita nell’aldilà, L. Sepulveda, Il mondo alla fine del mondo.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nata in Sardegna e vivo a Sassari da più di 30 anni, prima vivevo in un paese vicino, Sennori. Ho vissuto due anni a Roma ed ho viaggiato in diverse parti del mondo trascorrendo alcuni periodi all’estero per il mio lavoro di insegnante di Lingua Francese.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Vorrei continuare a scrivere, come sto facendo anche se ora il tempo è limitato dal mio lavoro. Spero di potermi dedicare appieno non appena sarò in pensione.
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