
Edito da Beak_Fast nel 22/07/2021 • Pagine: 211 • Compra su Amazon
La trasformazione digitale ha cambiato radicalmente il mondo del marketing e dell'advertising negli ultimi anni. Ma i big data sono davvero così rilevanti in questo nuovo scenario? Mentre cercavo di capirlo ho scoperto che la prima trasformazione digitale è avvenuta nel 1959, proprio in Italia grazie ai calcolatori di Adriano Olivetti. Così come la nascita del marketing, teorizzato dal Professor Giancarlo Pallavicini che in seguito all'introduzione dei calcolatori ha iniziato l’era delle ricerche di mercato e del marketing aziendale. Un viaggio in questa disciplina che muove miliardi di eurodollari attraverso le interviste a CEO, CMO e CIO delle più grandi aziende e agenzie internazionali, che mettono in evidenza come nonostante gli investimenti, le nuove tecnologie non vengono sfruttate appieno generando inefficacia e inefficienza.
La soluzione? C’è ed è davanti a noi, dobbiamo solo vederla.
Oggi il marketing è sempre più relazionale, prima dei prodotti le persone vogliono stabilire relazioni con le marche che devono essere credibili. Questo percorso cambia il modo in cui i brand devono interagire con le persone. L’advertising e il marketing si fondono insieme, in una nuova disciplina orientata alla relazione, all’ingaggio e alla valorizzazione dei principi come territorio comune tra la marche e i consum-attori.

Le marche urlano ma non persuadono.
E non c’è conversazione.
Rob Schwartz è stato uno tra i primi direttori creativi a diventare CEO di un’agenzia. Cresciuto nella baia dei pirati di TBWA/CHIAT DAY a Los Angeles (per chi non lo sapesse l’agenzia storica di Apple) oggi vive e lavora a New York, in quella Madison Avenue rappresentata in chiave cinematografica nella serie Tv Mad Men.
Per la toponomastica della grande mela è a poche centinaia di metri dalla più simbolica piazza per i brand, Times Square.
La cosa che la rende celebre infatti, sin dagli anni 50 sono le insegne luminose dedicate ai marchi, e rappresenta l’essenza stessa del marketing e dell’advertising.
Dal cartellone fumante delle sigarette fino alle contemporanee affissioni a led che interagiscono con la rete, Times Square è sempre stata un punto di partenza e allo stesso tempo un punto di arrivo per chi può affermare di essere un brand di caratura mondiale. E affermarlo con forza visto quanto costa uno spazio.
Rob conosce molto bene questa industry ed è un affamato curioso, molto attento a quello che succede in giro. Soprattutto a quello che succede alle persone.
Quando gli chiedo in che modo la tecnologia sta impattando sul marketing e sull’advertising non ci pensa su due volte e fa una disamina molto lucida.
L’impatto più grande è quello legato alla misurazione. Oggi tutto viene misurato, molto di più e molto meglio di come avveniva in passato. Questo ha comportato diverse cose, ma la principale è che nella continua ricerca di sapere cosa piace e cosa no, cosa funziona o cosa no, cosa performa o cosa no, si rinuncia alla seduzione e tutto è diventato un’occasione per mettere al centro il prodotto e non le persone che dovrebbero acquistarlo, Tutto si è trasformato in una brochure. A partire dagli spot, schede tecniche di 30 secondi che appaiono tutti uguali.
La prima evidenza è proprio questa, l’uniformità. Un paradosso per una industry che vive di creatività. Questa omologazione si porta dietro delle conseguenze, secondo lui non banali. Smettendo di raccontare storie in cui le persone possano riconoscersi si mette una barriera tra il brand e le audience.
Nel grande rumore di fondo che si crea, si punta ad urlare. In advertising si può urlare in tanti modi, essere a Times Square è un esempio. Presidiare tutti i canali un altro, ognuno ha il suo. La sua considerazione mi ha molto colpito perché l’occupazione militaresca dei media è sempre esistita, allora cosa c’è di nuovo.
Di nuovo c’è che oggi si parla a tutti, ma tutti tutti. Nel raccontare prodotti e servizi nella loro dimensione più funzionale c’è solo una variante che cambia. Il prezzo. E allora la faccenda diventa una faccenda di classe sociale, non di valori come tutti sbandierano.
A Times Square c’erano anche gli strilloni un tempo, immortalati in qualche foto, ragazzini con i giornali in mano che urlavano i titoli delle prime pagine per attirare l’attenzione dei passanti. Ancora oggi si urla per attirare l’attenzione e questo è sorprendente se ci pensate. Quando sono nati i social tutti hanno cominciato a parlare di dialogo con le audience di riferimento. Finalmente un media in cui si può dialogare, con una modalità orizzontale. Non come avviene nei media “tradizionali” dove il dialogo invece è top down. La marca parla e la gente ascolta. No, sui social marca e persone hanno l’opportunità di dialogare. Ma è poi così vero? O è più vero che le persone hanno possibilità di parlare delle marche e non con le marche. I social sono diventati un’ossessione per loro, che si stanno dedicando al monitoraggio più che all’ascolto. Controllano cosa si dice di loro, qual è la loro reputazione, come vengono viste e se le persone recepiscono i messaggi che vogliono dare. Misurano insomma. Si preoccupano e come in una partita a scacchi rispondono.
La persuasione è un’altra cosa. Persuadere vuol dire entrare in empatia, e oggi la persuasione che è alla base dell’advertising è stata messa da parte. Se non scatta l’empatia non scatta neanche il dialogo. Bisogna tornare a fare creatività orientata alle persone e non confondere le metriche con i risultati.
Questa è la ricetta di Rob, rinunciare alla presuntuosa volontà di piacere a tutti e tornare ad una più modesta consapevolezza che se si è fatti in un certo modo si può piacere solo a qualcuno.
A questo punto gli chiedo se uno spot come quello di apple: HerÈs for the crazy one, funzionerebbe o meno ancora oggi.
A caldo mi dice che è una domanda molto profonda, perché questo poi è il senso della conversazione che stiamo facendo, e la sua risposta lo è altrettanto. Da una parte funzionerebbe ancora perché la gente vedendolo ne rimarrebbe attratta, e come dice spesso, il mondo ha sempre una stanza dove mettere le belle cose. Ma pensa che ci sia un altro spot che ancora oggi sarebbe molto apprezzato. Tutti e due abbiamo lavorato in TBWA e ce lo ricordiamo, Mountain di PlayStation.
Questo film riflette l’essenza del gaming e come il film apple non mostra mai il prodotto. In un pezzo che deve emozionare come può essere un video tu devi parlare alla pancia delle persone.
In inglese si usa dire “BUY IN” a product, che vuol dire comprare anche l’anima dell’azienda che lo ha prodotto, che è diverso dal BUY e basta ed è questo soprattutto che abbiamo perso.
Steve Jobs durante un keynote proprio nella tana dei pirati in cui andava ogni 15 giorni ha detto: “Noi non abbiamo il 5% del mercato ma il 100% delle persone che la pensano come noi, diversamente”.
Esistono ancora i love brand o tutto oramai è solo commodity gli domando.
C’è molta commodity non c’è dubbio su questo, ogni prodotto o servizio ha una parte di commodity, nasce per questo in fondo. Ma visto che parliamo di Steve Jobs voglio parlare di Lee Clow (con cui Steve Jobs ha lavorato tutta la vita sulla comunicazione di apple, nonché papà degli apple store e dello spot di lancio 1984).
Lui è cresciuto tra i surfisti e mi ha raccontato che quando uscivano dall’acqua e andavano negli shop che erano lungo la spiaggia in california, entravano lì e apparentemente tutte le tavole erano uguali. Tutte servivano per surfare, quello che le rendeva differenti erano i materiali, le grafiche, la storia del surfista che le produceva, la provenienza. E quello che ti spingeva a comprarne una piuttosto che un’altra era proprio l’anima, la somma di tutte quelle cose, quella parte invisibile che racchiudevano e che ogni prodotto ha in sé.
L’anima di apple è lo spirito della california ma ogni band ne ha una. Bisogna tornare a raccontarla per far si che le persone compiano quel BUY IN.

Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea nasce dalla pratica del quotidiano, lavorando su progetti di comunicazione che possono sfruttare le tecnologie attuali e le intelligenze artificiali per migliorare i risultati, ho trovato spesso resisestenza da parte delle aziende. Che si dotano di soluzioni innovative ma poi ancora non sanno sfruttarle a pieno.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Ho avuto molta disponibilità da parte dei miei intervistati, CEO, CMO e CIO di brand, agenzie e piattaforme tecnologiche. Un coro di voci che dicono tutte la stessa cosa a gran voce. Stiamo sprecando opportunità.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Giancarlo Pallavicini, ho scoperto la sua storia e ne sono rimasto affascinato. Ha inventato il Marketing negli anni 50 e lo considerava non solo una branca dell’economia dedita al profitto, ma uno strumento sociologico per studiare e rispettare i comportamenti delle persone. Negli anni 60 ha introdotto i concetti di Corporate Social Responsability e B Corp, oggi attuali.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo tra Roma e Milano, ho sempre frequentato le due città, anche se oggi le opportunità sono più su Milano.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Vorrei girare un documentario sulla storia di Giancarlo Pallavicini e quel periodo. Lui ha lavorato insieme ad Adriano Olivetti e ha inventato il marketing proprio a seguito dell’introduzione dei suoi calcolatori. La prima trasformazione digitale è stata quella, ed era il 1959.
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