
Edito da Edizioni Pendragon nel 2018 • Pagine: 185 • Compra su Amazon
Luca, dopo la maturità classica, comincia a frequentare le lezioni nell’ateneo della sua città, Bologna. Reduce da una delusione d’amore che l’ha spinto a chiudersi in se stesso, assume con l’altro sesso un atteggiamento scontroso e di ostentata indifferenza. Sarà così anche con Martina, compagna di corso che lo colpisce sin da subito e con cui nasce un rapporto di amicizia sempre più profondo. Quasi a malincuore, trascorsi pochi mesi, Luca deve confessare a se stesso di essere innamorato: eppure proprio non riesce a lanciarsi, a dichiararsi a Martina, a rompere il ghiaccio, temendo la sofferenza che potrebbe ricevere da un nuovo rifiuto. I giorni scorrono tra un pomeriggio di studio in biblioteca, una pedalata fino a San Luca e un birrino sincero con gli amici, ma nessun bacio suggella un’unione che appare sempre più solida… Riuscirà l’arrivo della primavera a dissipare la nebbia nei cuori dei due ragazzi?

11.
Sognerò di lei stanotte
Ieri ho conosciuto una ragazza.
È un fiorellino.
Poco più bassa di me, piccolina, capelli lunghi e lisci castano
chiaro, viso dolcissimo e semplice, tutte le altre cose proporzionate
e al loro posto.
L’aggettivo che mi viene in mente per descriverla è “delicata”.
Si chiama Martina, è di Bologna e fa il primo anno di giurisprudenza
nel mio stesso corso.
Quando arrivo in multisala l’unica persona seduta nel
terzo blocco è l’Adriana Lima dei poveri, intenta a parlare
con un tipo seduto dietro. Poco dopo lui si alza e se ne va.
Alla spicciolata arrivano altri ragazzi del corso, mi saluto
con qualcuno con cui mi è capitato di scambiare due
battute.
Arriva anche una bionda, si siede accanto ad Adriana.
Le avevo già viste assieme, e non mi ero capacitato di
come lo stile sobrio ed elegante che contraddistingue la
bionda potesse conciliarsi col misto fumo e la sciatteria di
cui invece è ammantata Adriana.
Confronto che esaspera gli estremi facendoli allontanare
ancora di più: la bionda impeccabile e “minimo Mercedes”,
Adriana, una giamaicana trapiantata a Bologna.
La bionda elegante nel suo lungo cappotto nero,
Adriana provvisoria con delle scarpette di tela che a novembre
mi vien freddo solo a guardarla.
Parlottano giusto un istante.
La bionda si gira: i nostri sguardi si incrociano, e vabbè,
poi inizia a guardarmi come fossi Brad Pitt, non mi stacca
più gli occhi di dosso, anzi mi fa un gran sorriso e dice:
«Ciao!» come se mi conoscesse.
«Ciao» rispondo, con l’atroce dubbio che fosse una
qualche amica che proprio non ricordo. Butto lì un: «Come
va?» giusto per togliermi dall’imbarazzo.
«Bene! Tu?».
«Bene».
Adriana si gira con l’aria indaffarata di chi proprio di
tempo da perdere non ne ha neanche un po’. «Scusa,
avevo chiesto alla mia amica di chiederti una cartina. Ce
l’hai?» dice.
“Ommammamia!” penso. «No» rispondo, mentre il mio
quadretto idilliaco con la sua amica bionda cade improvvisamente,
il vetro va in frantumi e la cornice si rompe.
Adriana dice: «Cazzo!».
Il sorriso della bionda si incrina, guarda malissimo
l’amica che si sta girando in avanti, si gira anche lei.
Adriana non ha per nulla colto la gravità del peccato
commesso, si guarda intorno nervosa sperando di incrociare
uno sguardo tossico come il suo.
Sento la bionda dire: «Non capisci un cazzo! Stavo parlando,
porca puttana, te l’ho detto un milione di volte!».
Resiste per due o forse tre secondi in bilico tra esplodere
di rabbia e fare come se nulla fosse, poi dice: «Vaffanculo»
si alza e se ne va.
Adriana, dal canto suo, non sembra scossa per niente;
sembra solo preoccupata perché non sa con cosa avvolgere
la sua maria. Si guarda intorno ancora un po’, quindi inizia
a trafficare e nel giro di dieci secondi esce anche lei, appena
in tempo per evitare l’arrivo del prof.
“Ottimo! L’incontro strambo della settimana me lo sono
già giocato. Direi che ora possiamo solo migliorare!” ho
pensato mentre sorridevo e mi preparavo per l’inizio della
lezione. “Comunque da oggi non è più Adriana Lima ma
Adriana la giamaicana”.
Mezzora più tardi ho abbandonato il mio posto nel
pieno della noiosa lezione di filosofia del diritto, sono andato
alle macchinette.
A dir la verità non so se era noiosa la lezione o se ero io
che avevo sonno. Non importa.
Non potevo addormentarmi lì, dovevo fare qualcosa:
tipo sciacquarmi la faccia e prendere un caffè.
Una ragazza era seduta al tavolo lì accanto, il mio
sguardo si è posato un istante su di lei mentre mi avvicinavo
alle macchinette.
Ho cercato trenta centesimi nel portafoglio, li ho trovati,
ho inserito le monete, selezionato lo zucchero, scelto un
caffè espresso.
Mentre aspettavo l’ho guardata ancora, per un paio di
secondi questa volta: viso carino, ma aveva l’aria persa.
Mi sono fatto i cavoli miei.
La macchinetta ha fischiato, il mio caffè era pronto, l’ho
preso e mi sono allontanato di qualche passo.
Non c’era nessuno nell’atrio, così mi son girato e l’ho
guardata meglio: l’avevo già incrociata a lezione altre tre
o quattro volte. In quel momento sembrava concentrata,
come se stesse ascoltando la lezione, ma allora che ci faceva
alle macchinette? E poi quello sguardo perso a fissare
il muro di fronte a lei? Boh.
Però il viso era bello forte.
Un quadernone aperto sul tavolo, una biro chiusa poggiata
in mezzo, il cellulare a portata di mano: una ragazza
come già ne avevo viste tante nelle precedenti settimane
di lezione, che per qualche motivo prendeva appunti fuori
dall’aula invece che dentro.
Ho bevuto un sorso di caffè, e mentre da un lato pensavo
di lasciarla perdere, di non andar lì a rompere – chiedendo
cosa poi? – dall’altro parte di me diceva che non
potevo ignorarla, girarmi e tornare a seguire la lezione.
Ho fatto qualche passo nell’atrio, letto due righe di un
manifesto che non mi interessava, sono andato verso
l’aula, ho sbirciato tra i tendoni: sembrava che nessuno
fosse in fermento per uscire… così sono tornato verso le
macchinette.
L’ho guardata ancora una volta: con quello sguardo
perso sembrava che nemmeno mi avesse visto, lì nell’atrio
a qualche metro da lei.
Come fossi trasparente.
«Fai giurisprudenza?» le ho chiesto.
Domanda che subito mi è sembrata molto ma molto
stupida, dato che non aveva l’aspetto di un ubriaco che
viene a smaltire la sbornia al caldo della multisala mentre
fuori è metà novembre e ci sono dieci gradi e piove.
Ad ogni modo sembrava così incantata che magari non
aveva neanche sentito.
Invece ha sentito: muove appena la testa nella mia direzione
e risponde: «Sì. Come va dentro?».
«Sì. Cioè, bene» ho risposto, mentre un brivido mi attraversava
la schiena all’idea di essere andato in confusione
davanti a una domanda tanto semplice. «Stai seguendo?» ho domandato
accennando con la testa al suo quaderno.
«Ho preso un po’ di appunti, poi mi ha telefonato
un’amica e mi sono distratta. Tu?».
«Ci ho provato. Mi stavo addormentando là dentro.
Non so se è il prof o io che ho sonno. Non per farmi i cavoli
tuoi, ma che ci fai a seguire la lezione da fuori?».
«Non sono entrata perché doveva venire una mia amica
alle nove e mezza e dovevo andare per negozi con lei. Non
mi andava di entrare e uscire dopo un quarto d’ora. Però
la mia amica ha telefonato dicendo che riesce a essere qui
per le dieci, e io ancora non mi sono decisa a entrare».
«Mi sembravi persa».
«Forse sto ancora un po’ dormendo» dice stiracchiandosi.
«Non so se entrare o restare qui. È interessante quello
che spiega?».
«Io ho sonno, il mio giudizio è falsato. Di solito riesco
a seguirlo, oggi però mi sembra si stia avvitando in discorsi
senza senso. Non saprei dirti… comunque lì dentro
son concentrati a scrivere che nemmeno Mosè quando Dio
gli ha dettato i Dieci comandamenti».
Ha sorriso.
Pausa.
«Sei di Bologna?» mi ha chiesto.
«Sì. Tu?».
«Anch’io». Poi ha proseguito: «Davvero? Tranne un
paio di ragazze, ho trovato tutta gente di fuori. Di dove?».
«Borgo Panigale. In pratica anch’io, un paio di persone
le conoscevo solo di vista. Tu?».
«Fuori Porta Saragozza. Che liceo hai fatto? Siediti» ha
detto indicando la sedia dall’altra parte del tavolo.
Ho finito il mio caffè, ho buttato via il bicchiere e sono
andato a sedermi di fronte a lei.
Ha continuato: «Allora, come ti sembra questa università
rispetto al liceo?».
Un po’ ci guardavamo negli occhi, io li abbassavo
prima. Lei giocava molto con i capelli.
Ci siamo lasciati quando ha fatto il suo ingresso nell’atrio
una ragazza, la sua amica. L’ha chiamata, si sono salutate,
stava per presentarmi quando ha detto: «Ah! Neanche
noi ci siamo presentati…».
«È vero. Luca, piacere».
«Martina».
Ci siamo stretti la mano guardandoci un istante, indecisi
tra sorriso e imbarazzo, poi ha detto: «Elisa, lui è Luca».
L’amica ha detto: «Elisa» mentre ci stringevamo la mano.
Dopo le presentazioni, rivolta nuovamente a me, Martina
ha detto: «Io vado».
«Ok».
«Ci sei domani?» timidamente.
«Sì. Tu?».
«Sì. Ci vediamo domani. Così ci diamo una mano con
gli appunti» con tono a metà tra domanda e affermazione.
«Va bene. Tu dove ti metti di solito? Nelle prime file o
in mezzo?».
«Di solito sono a sinistra, alla fine del primo blocco. Se
ti vedo passare magari ti chiamo».
«D’accordo. Anch’io ti cercherò, allora».
«Va bene. Ciao!».
Mi ha salutato anche l’amica mentre si giravano per
uscire.
“Vedremo. Con calma e senza illusioni” ho pensato.
“Così ci diamo una mano con gli appunti… La solita frase del
cazzo, terribilmente pretestuosa”.
Qualche secondo per cancellare il fermo immagine del
suo viso ancora davanti a me, quindi sono rientrato in
aula. Mentre mi sedevo ho pensato che è bello poter star
fuori quanto voglio, è bello poter rientrare senza che ci sia
un professore pronto a farmi notare che non è questo il
modo di fare…
Ho fatto fatica a seguire la lezione, nonostante il caffè.
Mi è venuta in mente quella canzone dei Beatles, I’ve
Just Seen a Face, quando dice “fosse stato un altro giorno
avrei magari guardato dall’altra parte, e non me ne sarei
mai accorto, ma è andata così e la sognerò stanotte”; l’ho
canticchiata a bassa voce riflettendo su quanto mi sarei
sentito idiota se fossi tornato al mio posto senza aver
fatto nulla, al punto da dirmi che forse sarebbe stato il
caso di tornare fuori, facendo magari finta di andare in
bagno, puntando invece a inventarmi qualcosa da dirle.
L’espressione che avrei fatto se una volta nell’atrio non
l’avessi più vista… E certo “Se domani la vedo, la saluto”,
come no!
Dopotutto, ho pensato: “È meglio sentirsi così, giocare
e giocarsela, anziché nascondersi. Come fa quel verso
degli Incubus? I’m beginning to find that when I drive myself
my light is found”.
Il pomeriggio, ben conoscendo le conseguenze che certe
parole dette da certi visini hanno sul mio cervello, me ne
sono andato in biblioteca. È stato comunque difficile rendere
la testa partecipe del pensiero di Hans Kelsen.
“Figurati se mi tiene il posto, se mi aspetta, se si ricorda
soltanto” pensavo mentre andavo a letto. “Sarà una con
cui parlerò tre volte, a monosillabi, finché, stufo e umiliato,
smetterò anche di salutarla. Per la sua gioia”.

Come è nata l’idea di questo libro?
La prima stesura risale a più di dieci anni fa, al 2006/2007, quando io ne avevo 25/26. Ero reduce da una delusione d’amore, ma non volevo scrivere di quello e neppure annoiare con una storia triste. Di questo ero ben consapevole. Iniziai a scrivere senza avere un’idea precisa di come e cosa scrivere, buttai giù una ventina di pagine di appunti e sensazioni… poi un bel giorno, dal nulla, mentre ero seduto in biblioteca, in teoria a studiare mentre in pratica scribacchiavo qualcosa, capii tutto. Vidi come doveva iniziare e come sarebbe finito: vidi precisamente l’ultima pagina, l’evoluzione del protagonista del protagonista maschile e le caratteristiche di lei, Martina. Buttai via quelle venti pagine e ripartii da zero. L’ultima pagina è la stessa di dieci anni fa.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Beh… avendo una visione d’insieme così completa, portarlo a termine fu facilissimo. Più difficile fu ripulirlo, nel corso degli anni, da parti che appesantivano la vicenda senza arricchirla.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Quando ho scritto questo romanzo, più di dieci anni fa, avevo letto molte opere di Andrea de Carlo, a partire da Due di due. In generale, mi piacevano tutte quelle vicende, di autori diversissimi, narrate come se fossero state vissute in prima persona o da un testimone dei fatti. Che intendo con “autori diversissimi”? Ad esempio, il primo libro di Fabio Volo, di cui apprezzai soprattutto la forma della lettera a se stesso, che permetteva uno stile estremamente diretto. Hemingway e il suo Per chi suona la campana, che narra l’esperienza dell’autore stesso nella guerra civile spagnola. Gli Indisciplinati di Luca Delli Carri, che romanza episodi vissuti in prima persona da Romolo Tavoni (a cui è dedicato il romanzo), Direttore Sportivo e segretario personale di Enzo Ferrari. Infine, come ogni buon bolognese e non solo, amavo Jack Frusciante è uscito dal gruppo di Enrico Brizzi: mi piaceva la complicità e il rispetto che emerge tra i protagonisti di quella storia.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo e ho sempre vissuto a Bologna.
Dal punto di vista letterario quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Innanzitutto voglio prendermi cura di questo romanzo lavorando alla sua promozione: ho creato anche un sito ad hoc, Martinanonesiste.it, dove è possibile scaricare l’estratto che ho riportato e trovare di tutto, dalla playlist dei brani citati alla mappa dei luoghi di Bologna in cui si svolge, dall’elenco delle biblioteche in cui è possibile prenderlo in prestito alle recensioni/segnalazioni. Ci sono un paio di idee per una seconda opera, idee distanti tra loro, ma al momento i tempi non sono maturi.