
Edito da Edizioni Helicon nel 2018 • Pagine: 685 • Compra su Amazon
Il romanzo può essere iscritto all'interno del genere NOIR PSICOLOGICO, di tradizione letteraria francese. La storia è ambientata nella Francia ottocentesca, concentrandosi sul personaggio principale di Jean Louis Corbière, un Professore di Letteratura e Lingua Francese presso l'Università di Edinburgo il quale, mosso da una forza negativa e devastante, a tratti "demoniaca", si macchierà di numerosi crimini che riuscirà a celare grazie alla sua mente contorta e "machiavellica". Scorrendo le pagine, il lettore entrerà in contatto con una serie di eventi che stravolgeranno la vita dei singoli personaggi legati, direttamente o indirettamente, alla figura ed alla inusuale e complessa personalità di Jean Louis Corbière, il quale finirà per trascinare tutti all'interno della sua follia. Un aspetto narrativo caratteristico della storia è l'utilizzo della tecnica della "Metanarrazione", che consiste nell'inserire un romanzo all'interno del romanzo principale tramite il richiamo ad un personaggio realmente esistito, ovvero lo scrittore scozzese Arthur Conan Doyle. Quindi, una complessa intelaiatura descrittiva dove ogni filo della lunga storia, troverà la sua risoluzione alla fine della narrazione.

Parigi, 1848
Jean Louis, in realtà, non avrebbe saputo dare una definizione di pazzia, non avrebbe saputo dire cosa si percepisce ad essere folli, benché questa curiosità lo avesse spesso colto durante le sue variegate letture.
“Cosa si prova durante un viaggio di alienazione dal mondo che ti circonda?”. Si era domandato in certi momenti. “E ciò che gli altri definiscono pazzia, può essere solamente realismo o banalmente noia? Oppure senso di vacuità e vuoto intimo, magari accentuati dall’osservare i volti muti e fissi di coloro che ti circondano, impegnati solo in un ondeggiamento di ostentato interesse al tuo stato, ma in realtà indifferenti ed impotenti. Sostanzialmente dei fantocci che, in un distacco tedioso, si arrogano il potere di definire chi è “folle”, giustificando così quella tua desolazione, taciuta anche per orgoglio, e che ti mangia l’anima”.
Nessuno al mondo poteva dire con cognizione di causa cosa fosse ed in cosa consistesse quel buio della mente che fa deviare dai canoni comuni di pensiero e comportamento.
Una risposta che non era concesso attendersi da chi in quel buio si muoveva in modo disarmonico e singolare, ma neppure da chi, illuminato da convenzioni, regole sociali e ottuso conformismo, si poneva in modo autoreferenziale nella comoda posizione di classificare tali anomali comportamenti come patologiche “singolarità”.
Solo un’apparente bonaria definizione, questa, perché la singolarità ha sempre lo strano privilegio di confondere e deve badare a giustificarsi, almeno fino a quando non si spinga ad un’altezza tale da sovrastare le misure altrui, e solo in tal caso ottiene finalmente ciò che merita: l’altrui giusto rispetto, e la dovuta attenzione.
Quando si trovava nella dimensione cosiddetta “normale”, Jean Louise si rendeva conto della difficoltà che anche lui, come gli altri, incontrava nel tentativo di comprendere il razionale, ammesso che ce ne fosse, di quel lato oscuro che tanto lo catturava con il suo fascino misterioso, al punto da risucchiarlo in esperienze di alterazione mentale.
Era un po’, come trovarsi di fronte ad una parete e pretendere di capire e sapere cosa sta avvenendo dietro, una cosa impossibile senza saltare l’ostacolo e poter così vedere di persona.
Lui avrebbe potuto farlo in teoria, se non fosse che compiere contemporaneamente le due azioni era oggettivamente impossibile, dovendo passare da un mondo a tre dimensioni più il tempo, a quello inverosimile fatto di due sole, oltretutto senza passato e futuro ma solo un presente senza alcuna prospettica profondità.
Due posizioni che non avrebbero mai potuto dialogare fra loro, pensava con convincimento Jean Louis!
Però, questa volta sembrava diverso, lui si sentiva vicinissimo a capire!
Credeva, infatti, di impazzire da un momento all’altro, ed allora avrebbe compreso.
Ma, a quale prezzo!?
Quei fischi dolorosi e assordanti,che gli entravano e risuonavano in entrambe le orecchie e poi, giunti al centro del cervello, si scontravano fra loro distribuendo a raggiera una miriade di schegge sonore che colpivano l’interno della scatola cranica, stavano aumentando sempre più di intensità.
Un dolore così forte, acuto, violento ed impetuoso che faceva persino presumere e sperare che, come un’anguria matura, la teca cranica esplodesse improvvisamente, liberandolo da quell’incubo di sofferenza ineguagliabile. Anche i bulbi oculari, spinti violentemente verso l’esterno, rischiavano di essere estromessi dal sito naturale che li accoglieva.
Jean Louis, si tappò le orecchie con le mani, tentando di chiudere quell’accesso esterno e porre fine alla pressione che si accumulava dentro la sua testa, ma non ottenne alcun beneficio perché quel suono lacerante nasceva da dentro, da quel piccolo canale chiuso dalla membrana del timpano, che sbatteva come la vela di un’imbarcazione esposta ad un violento vento di maestrale.
Infilò quindi la testa in una bacinella di acqua fredda.
Un leggero beneficio lo fece calmare un attimo, ma dopo pochi secondi la necessità di respirare lo indusse a ritrarsi, rinnovando quella tortura che lo avrebbe portato alla follia, tanto auspicata quanto temuta.
Sapeva, però, che non avrebbe resistito, ed allora doveva assolutamente liberare quella insostenibile pressione che aveva dentro la testa.
Questo, solo questo, doveva fare!
Cominciò, quindi, a battere violentemente la fronte sul muro di camera sua, provocando un ripetuto rumore sordo, profondo e cupo che con il proseguire dei colpi sferrati, pian piano si trasformò in un suono morbido e smorzato, simile ad uno scalpiccio sopra una pozza d’acqua, mentre del liquido caldo gli colava dalla fronte sul viso e poi sul petto.
Tirò fuori la lingua per sentirne il sapore, apprezzando che il sistema stava funzionando, il dolore ed i suoni stavano diminuendo, mentre gli occhi ritornavano alla loro posizione originale.
Il liquido che colava abbondantemente sulla punta della lingua, inaspettatamente era di sapore acuto, salato e con un caratteristico odore acido.
Jean Louis fu colto improvvisamente da ripetuti brividi di freddo.
Uno di questi, più forte dei precedenti, lo fece sobbalzare in uno spasmo reviviscente. Sollevò quindi le palpebre chiuse e si mise a sedere sul letto.
Si toccò la fronte e la testa con la mano, sentendosi completamente bagnato ma fisicamente integro, benché spossato.
Era in un bagno di sudore ed anche il cuscino, zuppato all’inverosimile, stava a testimoniare quanto quell’incubo lo avesse fatto agitare nel sonno.
La sveglia indicava quasi le nove, in quel sabato di settembre del 1848, ed in casa regnava il silenzio.
Certamente, il fratello Jacques ancora stava dormendo in cameretta sua, mentre i genitori erano senza dubbio usciti, non avendo di sabato orario di ambulatorio.
Jean Louis, aveva circa quindici anni ma già, al contrario della maggior parte dei coetanei, amava consultare i vari e corposi libri, costituiti da compendi medici, romanzi e liriche, anche italiane, che suo padre Alphonse teneva con cura maniacale nella libreria del suo studio personale, al piano superiore dell’abitazione.
Ogni qualvolta si preannunciavano quel fischio e quel dolore lacerante, che negli ultimi mesi non volevano dargli tregua, se poteva si rifugiava nella biblioteca in penombra del padre, fresca e rinfrancante col suo odore di libri e legno invecchiato.
Purtroppo questa volta, come sempre più spesso gli accadeva, la crisi lo aveva colto nel sonno, e non aveva potuto tentare di prevenirla in nessun modo.
Avrebbe dovuto riferire ai suoi genitori di tali avvenimenti notturni, lo sapeva e se ne crucciava, ma non ci riusciva, memore anche del trauma subito da piccolo, ad un’età indefinibile, quando fu portato da quello che i suoi vaghi ricordi rappresentavano adesso come un uomo di grossa mole, un gigante con la barba ed il monocolo, che parlava in modo strano e che gli premeva ripetutamente lo stomaco ed i fianchi con le sue mani, grandi e pelose.
Jean Louis era consapevole dell’infondatezza di quella sua ritrosia ad affrontare il problema con i genitori, oltretutto due stimati medici, ma il freno psicologico che lo bloccava era più robusto della enorme difficoltà di convivere con il suo segreto.
Di certo, alcune letture che aveva divorato, chiuso in biblioteca, non lo avevano aiutato a scacciare quei fantasmi che aleggiavano nella sua mente ferita.
Ogni volta che entrava nello studio del padre Alphonse, prima di sedersi con un libro davanti, scelto fra i numerosi disponibili, si avvicinava ad un preciso punto della libreria, contava tre ripiani verso l’alto e, partendo dal primo libro sulla destra, si fermava al nono, sulla sinistra. Lo sfilava dal proprio posto, lo guardava facendo scorrere velocemente le pagine, soffermandosi su parti che riusciva immediatamente a contestualizzare nella storia e poi, una volta richiuso lo riponeva, confermando così ogni qualvolta a se stesso “l’irrazionale fondatezza” della sua scelta del silenzio, come unico modo per scampare al peggio.
Una sorta di auto-terrorismo psicologico, a cui Jean Louis si sottoponeva, un tentativo di sprofondare in se stesso per scappare da se stesso, e che prendeva spunto dalla seconda edizione, pubblicata nel 1831, del romanzo “Frankenstein, o il moderno Prometeo”, dell’autrice britannica Mary Shelley, dove la paura per l’ignoto e per le incognite, cede il passo ad una analisi scientifica, e dove tematiche sempre attuali di natura filosofica e culturale viaggiano parallelamente alla ricerca che, in quell’epoca, stava ottenendo sempre maggiori successi e scoperte. Da qui, il dualismo uomo-scienza, i limiti invalicabili di quest’ultima, il “diverso” ghettizzato ed emarginato dai pregiudizi della società civile, infine la figura della creatura di laboratorio che prende le distanze dal suo creatore, ponendo fine alla sua vita. Un parricidio “sui generis”!
Jean Louis temeva profondamente tutto ciò, ma non si rendeva conto che il suo agire altro non otteneva che il sempre maggior inabissamento del suo “io” nell’oscuro oceano delle angosce e delle paure individuali, e che quel limaccioso fondale che avrebbe presto raggiunto, infestato da misteriose e malefiche forze della natura, avrebbe solo accentuato le sofferenze della propria mente, e corrotto definitivamente la sua umana serenità.
Si sedette sulla comoda sedia del padre, imbottita e ricoperta di pelle nera, fresca d’estate e gelida d’inverno.
Dalla libreria aveva preso due grossi tomi di un trattato di chirurgia umana, pubblicato in Italia ai primi dell’ottocento.
Erano ambedue ricchi di disegni anatomici di impressionante realismo, con le didascalie che descrivevano ogni atto operatorio.
Dall’alto dei volumi, tra le pagine, spuntavano come segnalibro, numerosi foglietti di cartoncino ingiallito e sgualcito su cui il padre aveva appuntato l’argomento trattato in quel punto, ed anche alcune sue considerazioni.
Jean Louis, iniziò a leggere uno per uno quanto riportavano i foglietti compilati dal padre Alphonse e posizionati fra le pagine all’interno di uno dei due tomi, saltando dall’uno all’altro come conoscesse a menadito i vari argomenti.
Improvvisamente, il suo dito si fermò in corrispondenza di un segnalibro che estrasse con delicatezza per poter leggere cosa riportava.

Come è nata l’idea di questo libro?
È nata come una sfida. Da accanito lettore e appassionato di gialli, soprattutto psicologici, ho sentito l’esigenza di mettermi alla prova. Dopo tre romanzi pubblicati, che nulla hanno di “noir”, ho voluto provare a tessere una ragnatela di eventi intricati ed apparentemente privi di chiaro sviluppo, affinché lasciasse il lettore in balia delle proprie supposizioni. Almeno fino al termine del romanzo, quando il quadro si fa chiaro ed ogni filo inaspettatamente si riannoda, palesando così l’intera costruzione narrativa.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Molto difficile e faticoso, essendo ambientato prevalentemente nella Parigi della metà del XIX secolo. Ciò mi ha obbligato a cercare e trovare dettagli toponomastici e di costume sociale dell’epoca, avendo io una maniacale predilezione per le puntigliose descrizioni di luoghi, situazioni, vestiario e fisionomie.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Indubbiamente Luigi Pirandello per gli italiani e Fëdor Dostoevskij per gli stranieri, ambedue sopraffini archeologi dell’animo umano.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo ad Arezzo, in Toscana. Qui sono nato e cresciuto, una Terra ricca di cultura e stimoli per tutti coloro che amano la “Bellezza”.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Indubbiamente non mi fermerò a questo corposo romanzo e presto mi metterò al lavoro per il successivo. È probabile che proseguirò nel filone del noir psicologico, anche alla luce dei primi positivi riscontri ricevuti da chi ha letteralmente “divorato” le quasi settecento pagine che raccontano “Il mistero del professor Corbière”.
Fantastico, avvincente, innovativo e di altissimo livello. Complimenti all’autore che mi auguro continui a creare dei veri capolavori! Ecco la parola giusta per definire questo libro.. Un capolavoro!