Edito da Alessio di lupo nel 2020 • Pagine: 227 • Compra su Amazon
Siamo nel 1890 e Frank Dixon è l’illusionista più sensazionale di Londra. O, almeno, e questo è certo, il mago più incline ai facili costumi e al gin da due soldi. Sarà durante una serata d’alto rango – sostenuta senza il consueto, preventivo sfogo della passione carnale – che le cose prenderanno una brutta piega. Quando un conte facoltoso non meno che perfido mette letteralmente lo zampino nel numero finale dello spettacolo, in cui l’assistente Benjamin Lown viene momentaneamente decapitato, tutta l’illusione salta e Frank si trova a dover pagare il pegno a una combriccola di nobili sadici.
Capitolo primo
del grande illusionista frank dixon
Londra, 1890. Una casa a schiera dai mattoncini rossastri era immersa in un folgorante gelo. Solo i tetti aguzzi riuscivano a vedere qualche flebile luce che li pizzicava. A pochi passi dalla facciata, una ringhiera rugginosa si affacciava a delimitare l’ingresso. Ululati di creature a quattro zampe si perdevano nell’ orizzonte. Quella casa era solcata da una strada in terra battuta, marciapiedi assenti, senza alberi, senza speranza. Dall’altro lato, una drogheria chiusa per lutto appariva solitaria come una brutta indigestione. All’interno di un appartamento al secondo piano, due uomini, noncuranti del clima all’esterno, intrattenevano una conversazione che li riguardava da vicino. Tacchi risuonavano dal pavimento spoglio nel bel mezzo di Febbraio.
— Potreste smetterla di fare avanti e indietro, per cortesia?
Frank Dixon si fermò, stizzito dal rimprovero del suo assistente Benjamin Lown. Si voltò di scatto verso l’uomo, stravaccato in una logora poltrona rosso porpora con un libro tra le braccia che questi carezzava in modo maniacale, nemmeno stesse sollevando furtivo le sottane di una fanciulla.
— Ho la necessità di ricordarvi chi è che paga l’affitto di questa umile dimora, Ben?
L’uomo alzò le sopracciglia e lo fissò irritato, stringendo le labbra in quel suo modo assurdo che lo faceva somigliare a una papera spettinata e sbuffò. Nonostante fosse pomeriggio inoltrato esibiva ancora la sua assurda e al tempo stesso commovente vestaglia dorata, stretta sul pancione dalla cinta logora che, a sua detta, apparteneva alla famiglia Lown da almeno tre generazioni.
“Una cinta rappresenta la vostra eredità, amico?” Gli aveva chiesto una mattina piovosa di qualche anno prima, quando la loro frequentazione professionale iniziava a trasformarsi in un trascinarsi insieme di loco in loco.
Benjamin aveva risposto dapprima con un sorriso, poi aveva annuito con vigore e con un orgoglio a tratti ingiustificabile, aveva raccontato senza tralasciare particolare alcuno; non solo la storia di una famiglia che Frank stentava a definire tale, ma anche e soprattutto le vicende legate alla ormai inguardabile cinta.
— È la mia testa che vi permette di vivere in questo lusso! — bofonchiò Ben, facendo scorrere lo sguardo sulle pareti macchiate di muffa e gli intonaci cadenti. In un angolo, accanto a una fetta di pane caduta a terra da almeno tre giorni, un topo banchettava senza mostrare la minima preoccupazione; dei motivi floreali che decoravano il soffitto, rimanevano solo i petali consumati da folate di umidità.
— Persa una testa, amico caro — commentò Frank, allargando le braccia con fare teatrale, fingendo d’indossare anche in quel momento il mantello di scena — se ne trova un’altra.
— Il famoso motto degli illusionisti? — lo prese in giro l’altro.
— Voi vi fate beffa di me, ma continuate a perdere la testa ogni sera esibendovi nei miei spettacoli — lo punzecchiò. — Forse devo presumere che il vostro acume o il vostro esagerato giro pancia non vi permettano di trovare altro che più vi aggrada?
Benjamin alzò le spalle, poi abbozzò un sorriso sornione. Dalla finestra aperta dietro di lui, Londra sonnecchiava, e ogni tanto il vento spingeva nella stanza i fumi irrespirabili delle industrie in periferia che si mischiavano con la nebbia creando un tanfo sgradevole. Ormai non ci facevano più caso, li respiravano e basta, come se fosse aria, ossigeno. E nemmeno quasi notavano più il pulviscolo nero che si depositava ogni giorno, con assurda pazienza, su ogni cosa. Senza tutto quello, probabilmente non si sarebbero sentiti a casa.
— C’è un’altra stanza, di là — disse, ignorando l’attacco. — Potreste tormentare il pavimento qualche passo più distante da me, non credete?
Come è nata l’idea di questo libro?
Il romanzo è nato circa dieci mesi fa, mentre leggevo “Il giro del mondo in ottanta giorni” di Jules Verne. Ha un atmosfera misteriosa e grottesca con qualche tocco horror rispetto al classico che ho menzionato.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
È stato molto difficile ricreare l’atmosfera, gli usi e i costumi dell’epoca, e ancora di più i dialoghi in cui ho speso la maggior parte del tempo nella revisione.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Ovviamente Jules Verne. Inoltre, Italo Calvino, Dante Alighieri, Oscar Wilde e Arthur Conan Doyle.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo nei dintorni di Pisa, in un paesino in campagna. Sono nato qui nel 1982.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Credo che continuerò a scrivere un romanzo ambientato nel seicento tra il Granducato di Toscana e il nord africa.
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