Presentiamo oggi Mondi infiniti – La città dei cupi di Stefania Dorigatti, un romanzo sci-fi disponibile in eBook e nel formato cartaceo, edito nel corso del mese di dicembre 2015.
La trama di Mondi infiniti – La città dei cupi di Stefania Dorigatti
L’illustre Professor S. Shickleton riesce finalmente a ultimare il progetto al quale sta lavorando da una vita, una macchina del tempo in grado di far vivere un’avventura a chiunque voglia farne uso. Un grande passo sia per la scienza che per l’umanità. Almeno, questo è quello che lui pensa quando decide di costruirla.
Il primo a testarla sarà il nipote Solomon, ma qualcosa va storto. Il ragazzo scompare e non c’è modo di riportarlo indietro. Forse quell’invenzione non è quello che sembra veramente.
Solomon infatti finisce in una terra misteriosa, super tecnologica e avanzata, ma che in realtà nasconde delle falle profonde e dei lati oscuri, con dei personaggi peculiari e uno strano modo di vivere.
Un viaggio che cambierà per sempre la sua vita e quella delle persone che lo circondano.
Mondi infiniti – La città dei cupi: un estratto dal romanzo
In quel momento mi sembrò di soffocare. L’aria intorno a me era molto calda e pesante e, per un attimo che però mi parve un’eternità, non riuscii a sentire niente al di fuori del battito del mio cuore, mentre quello che vedevo erano solo le tenebre.
Il sapore metallico del sangue mi invase repentinamente la bocca, provocandomi dei conati di vomito.
D’improvviso, i sensi ancora piuttosto alterati, sentii però il mio corpo che si sollevava da terra, come guidato da una forza misteriosa. Una volta in piedi, mi parve di scorgere un paio di grandi occhi che mi osservavano tra il preoccupato e il diffidente, anche se non ne ero tanto sicuro.
Non appena fui di nuovo in grado di mettere a fuoco le cose, perlomeno in parte, in effetti mi trovai davanti una ragazza, che mi stava tenendo per le spalle, scuotendomi di tanto in tanto per farmi riprendere conoscenza.
Di colpo, tutto ricominciò a scorrere normalmente e, quando potei del tutto distinguere con chiarezza i contorni della realtà che mi circondava, fui invaso dal panico. Qualcosa, infatti, non andava. Perché non mi trovavo a casa mia? Quella città non assomigliava affatto alla Londra che conoscevo; anzi, mi resi conto che proprio non lo era.
Poi, ricordai: mio zio, la macchina, il viaggio nel tempo.
Oddio. Il futuro.
Se tutto aveva funzionato come doveva, era lì che ero finito.
Provai a parlare, ma dalla mia bocca non uscì nessun suono, tanto mi dolevano le lesioni che avevo al suo interno.
La bocca non era però l’unico punto che mi faceva male, come potei constatare. Il polso destro mi pulsava dolorosamente; assodai che ciò era dovuto al fatto che vari pezzi dell’orologio, l’unico passaporto per il ritorno nel passato, il mio passato, mi si erano conficcati nella carne, provocandomi diversi tagli e rendendo l’oggetto ormai inutilizzabile.
Fantastico, pensai spaventato. Ora rischio di rimanere bloccato qui per sempre. Se non riesco io a trovare una via d’uscita, devo solo sperare che ci riesca mio zio.
Quando distolsi lo sguardo dalle mie ferite, notai con sorpresa che la giovane che mi aveva soccorso era ancora accanto a me, che mi fissava.
Non disse una parola ma, a quanto pareva, si era accorta anche lei di quanto fossi conciato male; perciò, accantonato il sospetto che poco prima mi sembrava di aver scorto nei suoi occhi, mi fece alcuni gesti e io compresi che mi stava invitando a seguirla. Decisi quindi di andarle dietro senza fare domande.
Durante il tragitto, ebbi modo di osservare tutto quello che mi stava intorno, dato che stavamo procedendo a passo di lumaca; quella città mi sembrò sempre più strana.
Per esempio, vidi che le poche persone che ci passavano accanto, apparivano tutte uguali: camminavano allo stesso modo, con il capo chino, molto lentamente e strascicando i piedi.
Ognuna di loro indossava la medesima uniforme grigia, tanto che quasi non si distinguevano le donne dagli uomini: portavano una tunica, per la precisione, che rendeva quegli esseri informi e conferiva loro un’aria sovrannaturale. Anche la ragazza che mi stava scortando portava quel vestito.
Nessuno parlava, nessuno si fermava, ciascuno di loro sembrava andare nella stessa direzione, che pareva essere una meta ben precisa.
Inoltre, l’oscurità regnava sovrana, le vie illuminate solo dalla luce di qualche debole torcia ubicata qua e là.
D’istinto, alzai lo sguardo verso il cielo per cercare le prime stelle della sera; tuttavia, mi resi subito conto che, in realtà, eravamo appena al tramonto. I tenui raggi del sole passavano a malapena attraverso l’enorme cupola di vetro grigiastra eretta a coprire l’intero luogo. Nel vederla, riuscii infine a spiegarmi anche quel calore insopportabile e quel singolare senso di claustrofobia che avevo provato quando ero ancora semisvenuto. Ma perché mai una cupola, mi chiesi?
Per non parlare, poi, di com’erano gli edifici: piccoli mausolei in pietra che trasformavano quella città, se così si poteva definire, in uno smisurato cimitero.
Non erano infatti presenti dimore normali, ma soltanto quei bizzarri costrutti, che mi facevano venire la pelle d’oca.
Dopo quelle che mi sembrarono ore, infine la ragazza si fermò davanti a una di quelle cripte. La struttura non aveva porta, anche se non ne rimasi così stupito. Aveva solamente un’apertura oscura e, attraversandola, ebbi ancor più la sensazione di varcare la soglia di un sepolcro.
Quando, però, mi ritrovai al suo interno, rimasi stupito: l’abitazione non appariva affatto fredda e macabra come la facciata esterna ma, al contrario, una luce allegra, prodotta dal fuoco di un camino, dava alla piccola stanza un’aria assai accogliente.
All’apparenza, la casa era composta unicamente da quella camera e non erano presenti mobili, a parte uno spartano letto di ferro a una piazza messo in un angolino. Curiosi oggetti erano stipati un po’ ovunque nel poco spazio che rimaneva, anche se quel tocco rendeva l’ambiente ancora più ameno.
La ragazza indicò me e poi il pavimento di fronte al caminetto: un chiaro invito affinché mi sedessi.
Poiché mi sentivo parecchio spossato e ancora un po’ stordito, non me lo feci ripetere due volte.