Edito da 0111 edizioni nel 2021 • Pagine: 148 • Compra su Amazon
Andrea S. è anarchico dall'età di sei anni, ovvero da quando ha iniziato a frequentare la scuola dell'obbligo. Ad Andrea S. non piace lamentarsi di ciò che non gli va di questo mondo. Ad Andrea S. non piace criticare le ingiustizie sociali che toccano la sua quotidianità e gli si parano innanzi dal mattino alla sera. Andrea S. non si limita a prendere posizione. Andrea S. agisce, dichiarando guerra a ogni forma di potere, votandosi anima e corpo alla causa degli ultimi, anzi degli ultimissimi, i più deboli, i più indifesi: gli animali prigionieri degli allevamenti, dei laboratori, dei circhi, degli zoo. Per la loro liberazione, Andrea S. non si fa scrupoli a compiere azioni vandaliche nei confronti di tutti quei luoghi dell'orrore dove innocenti creature, ogni giorno, a ogni ora, sono costrette a vivere una vita in cattività per il benessere e il tornaconto economico dell'animale dominante, ovvero l'uomo.
Ma si sa come sono gli scrittori, ti dicono: «Do solo una sistemata alla grammatica se serve, che nel parlato magari qualche errore può sfuggire» e poi cambiano, spostano, travisano, decontestualizzano… falsificano insomma.
Dunque ho guardato storto quel suo registratorino preistorico e ho rifiutato quella soluzione. Gli ho detto di darmi una decina di giorni di tempo e gli avrei consegnato dei fogli scritti di mio pugno, proprio a mano, in bella e leggibile calligrafia, dove avrei messo dentro tutta la parte della storia che mi riguarda, senza omettere niente. Ci ha creduto, mi ha creduto, e non sarò certo io a tradire la sua fiducia.
L’ho letto “Moby Dick”. “Chiamatemi Ismaele” è l’incipit, e già il lettore capisce che la dimensione del vero se n’è andata a puttane, che la scrittura in prima persona è una presa per il culo bella e buona. Come tutta la letteratura. Puttane, culo, letteratura: la parolaccia più brutta è l’ultima. Per la cronaca: poi ho goduto, leggendo quel libro. Quei bastardi cacciatori di balene muoiono tutti, o quasi. Ai sopravvissuti resta solo la speranza di morire senza soffrire. Alla fine, dunque, vince lei, la balena Moby Dick.
Potrei dire che tutto è cominciato una sera d’inverno sul finire degli anni ‘70. Avevo sette, otto anni, dev’essere stato d’inverno perché il cielo era nero, ma intorno all’auto nella quale viaggiavamo io e mia madre, i lampioni, le insegne dei distributori e delle fabbriche, i fari delle altre auto, illuminavano tutto a giorno. Lei era giovane e bellissima, e la musica veniva da una cassetta di Lucio Battisti. A un certo punto, quasi giunti a casa, fermi a un semaforo, ci passa sulla destra un imponente camion pieno fitto di… decine? Centinaia? Di gabbie piccolissime. Loro sono lì, quelli più in basso appena sopra la mia testa, a pochi metri da me, che si muovono e mi guardano. Io capisco solo che sono vivi, o per lo meno: ancora, vivi.
Senza controllo, mi piego dall’altra parte, appoggio la testa sulle gambe di mia madre e crollo a piangere.
«Cosa succede?» mi chiede. Io non riesco a darle nessuna risposta; la sua, se non ricordo male, mi era parsa una domanda retorica. Li vede anche lei. Sono servite le mie lacrime innocenti, ma in quel momento si è accorta anche lei di quei poveri animali, conigli, o forse galline, imprigionati, ammassati, terrorizzati, indifesi, impotenti.
“E poi, cosa mi è successo?”, mi sono chiesto a distanza di anni, al riaffiorare di questo ricordo così intenso che mi sembra di qualche giorno fa. È successo quello che subiscono tutti o quasi: che la verità lascia spazio alla falsità; che la violenza viene nascosta; che il prodotto, sia cibo o capo di vestiario o farmaco o altro, viene scisso dall’essere vivente che stava alla base del processo di tortura e uccisione che ha creato una “cosa utile” all’uomo.
Ho detto che potrei far iniziare la storia con queste lacrime. Ma forse tutto, per me, è iniziato addirittura qualche tempo prima di quell’evento, e precisamente il primo giorno di prima elementare.
C’era da imparare a leggere e a scrivere, anche se molti di noi qualcosa già sapevano fare; io, e come me tanti altri, il mio nome e cognome, l’indirizzo e il numero di telefono di casa mia sapevo scriverli, in maniera chiara, rotonda, con linee nette e segni sicuri. Ma prima, secondo la maestra, c’era da imparare a tenere in mano la penna. Ovvero a strangolarla. Strangolarla, sì, perché voi tutti, che reggete la penna e scrivete “nel modo corretto”, non avete alcun rispetto per uno strumento così importante, così ammirabile e degno di venerazione, così… eterno. Io la penna non la soffoco con tre dita, come tre anelli di una catena attorno al collo di uno schiavo, non la umilio asservendo il suo movimento alla minor fatica del mio polso. Io la adagio sul polpastrello dell’anulare, la cullo sulle punte del medio e dell’indice, e con il pollice la abbraccio in uno scivolare delicato di stabilità ed equilibrio.
Il problema fu, quaranta e passa anni fa, che quella stronza della maestra non voleva sentire ragioni, e che io non ne sapevo dare. Così si fa, così va fatto. La regola è questa, la retta via è questa, qualsiasi altro modo va evitato e soppresso sul nascere. E tornando a casa da scuola, camminando a testa bassa, da solo e scuro in volto, mi misi a piangere per la sconfitta e la frustrazione di non essere riuscito dove tutti gli altri bambini erano stati bravi e diligenti. Ero diverso, dunque.
Giusto per terminare il ricordo, negli anni a venire non mi sono adeguato, e la penna la tengo ancora oggi sempre alla mia personale maniera. Forse un po’ esagero, ma mi piace dire in giro che sono anarchico dal primo giorno delle elementari.
Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea è nata dalla necessità di rendere partecipi più persone possibile dell’orrore che si cela negli allevamenti e nei laboratori in cui si pratica la vivisezione. Di solito i saggi sull’animalismo li leggono chi animalista lo è già di suo, un romanzo invece penso possa essere più “appetibile”, più leggero. Che poi animalismo è una parola vuota, anche se è quella più usata, quella convenzionale. Solo che se dico “antispecismo”, la gente comune non sa cosa significa.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
La difficoltà nel parlare di certi temi è quella di evitare di dare l’idea di mettersi su un piedistallo e predicare, che è una cosa che non sopporto, non tollero, e non farò mai. I miei libri sono tutti contro l’autorità, contro le autorità, e prima di essere uno scrittore, o provare a esserlo, sto bene attento a non cadere nella contraddizione di pormi in una posizione di superiorità rispetto agli altri, tantomeno rispetto ai miei lettori.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Sono talmente tanti che non mi metto neanche a elencarli. In “Neanche dio guarderebbe” credo ci siano spunti di riflessione che ricordano Anthony Burgess e il suo capolavoro “Arancia meccanica”, e forse anche Lev Tolstoj. Nel libro poi sono citati “Il barone rampante” di Italo Calvino, “L’amore ai tempi del colera” di Márquez, “I ragazzi della via Pál” di Molnár e “L’isola del tesoro” di Stevenson. Sono un “lettore cannibale”, ho gusti molto eterogenei.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Ho sempre vissuto a Cittadella, in provincia di Padova.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Continuare a pubblicare un libro ogni due anni.
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